4
dimensioni: la redditività, la solidità patrimoniale e finanziaria, la liquidità e
lo sviluppo.
Tali strumenti sono stati configurati secondo modalità particolari, proprio
per meglio adattarsi e comprendere il modello delle società calcistiche.
Quanto enunciato al capitolo tre permette di esprimere giudizi su qualsiasi
società calcistica.
Compito del quarto ed ultimo capitolo è proprio questo: analizzare due
società calcistiche, Juventus F.C. S.p.A. e S.S. Lazio S.p.A., al fine di poter
giudicare la loro gestione.
5
CAPITOLO I
EVOLUZIONE STORICA: DA ASSOCIAZIONI AD
AZIENDE
1.1 Le associazioni calcistiche
Ogni associazione volontaria di persone, che si proponga di svolgere
durevolmente, in maniera organizzata, una qualsiasi attività, al fine di
conseguire uno scopo determinato, costituisce, per il nostro ordinamento,
un’associazione.
Le società calcistiche, come tutte le società sportive, furono costituite
originariamente per consentire la pratica atletico-agonistica dei propri
membri. Funzionalmente, quindi, in quanto enti associativi con scopi
ricreativi, si potevano collocare nell’ambito di quelle associazioni qualificate
in dottrina come mutualistiche
1
.
Tale fenomeno, quindi, si espresse con una estrema libertà di forma e di
autonomia organizzativa; l’ordinamento statuale se ne interessava soltanto
marginalmente, ed essenzialmente in relazione ai profili di rilevanza esterna
dell’attività associativa (norme penali e di pubblica sicurezza,
riconoscimento di limitata autonomia patrimoniale, responsabilità diretta
degli associati)
2
.
In tal modo, però, la gestione e l’amministrazione relativa agli enti calcistici
erano insufficientemente regolamentate. Mancavano le norme fondamentali
ispirate alla chiarezza, correttezza e alla trasparenza, anche se in quel periodo
le cifre movimentate dall’attività erano piuttosto contenute.
La consuetudine del tempo voleva un “mecenate” che si rendesse
personalmente responsabile per le obbligazioni sociali e che tali enti
rispondessero alle esigenze di bilancio attraverso un rendiconto finanziario,
1
G. Falsanisi, E. F. Giangreco, Le società di calcio del 2000: dal marketing alla quotazione
in borsa, Soneria Mannelli, Rubbettino, 2001, p. 9.
2
P. Verrucosi, Le società e le associazioni sportive alla luce della legge di riforma (legge
23 marzo 1981, n.91), in Rivista del Diritto Commerciale, 1982, pp. 132-133.
6
all’interno del quale erano riportate sinteticamente per classi omogenee le
entrate e uscite monetarie riguardanti l’esercizio.
Ovviamente in tali rendiconti non era presente alcuna capitalizzazione dei
costi d’acquisto del patrimonio giocatori, né erano evidenziati gli
ammortamenti riguardanti gli oneri a carattere pluriennale.
In tal modo le associazioni sportive erano gestite “per cassa”: la differenza
tra esborsi della gestione e i proventi da cessione dei giocatori e dei
contributi, andava a formare il deficit, che veniva assunto dai cosiddetti
dirigenti al momento di subentrare ai cedenti. In tal modo non si teneva nella
debita considerazione il patrimonio sociale e tantomeno quello costituito dai
giocatori al quale non veniva attribuito alcun valore contabile
3
.
Le perdite di gestione, traducendosi in consistenti esborsi da parte dei
dirigenti, andavano ad accrescere ulteriormente il deficit.
La mancanza di norme precise e la diffusa prassi di compensare alcuni costi
imputati ai dirigenti con taluni ricavi, dava ai valori risultanti dalla
contabilità un notevole grado di incertezza
4
.
Già a partire dagli anni ’60, parallelamente alla sempre maggior importanza
economica e finanziaria dell’attività calcistica, iniziarono ad essere palesi i
problemi derivanti dall’amministrazione e dalle mancate forme di controllo
delle attività gestionali delle associazioni calcistiche.
In quegli anni il numero dei partecipanti era cresciuto in rapida progressione,
il livello tecnico delle competizioni si era notevolmente alzato e allo stesso
tempo, anche grazie alla fondamentale diffusione da parte dei mezzi di
informazione, l’interesse presso il pubblico per le competizioni agonistiche
era aumentato spingendo in tal modo verso la ricerca di risultati
tecnicamente sempre più avanzati.
Conseguentemente le associazioni sportive si videro costrette ad assumere
connotati di tipo imprenditoriale per far fronte alle spese crescenti, a questo
punto difficilmente sostenibili unicamente dai propri aderenti.
3
A. Tanzi, Le società calcistiche: implicazioni economiche di un “gioco”, Torino,
Giappichelli, 1999, p. 22.
4
P. L. Marzola, L’industria del calcio, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1990, p. 106.
7
In tal senso, maggiormente, sintomatici furono l’offerta al pubblico di uno
spettacolo sportivo contro un prezzo commisurato alla qualità dell’offerta e
all’entità della domanda e l’utilizzazione di accordi di sponsorizzazione.
Di pari passo a questi progressi sul piano economico, l’associazione sportiva
mutò da fenomeno volontaristico in organizzazione d’impresa, venendo a
modificarsi in profondità la stessa struttura plurisoggettiva dell’associazione.
Proprio in tale periodo la figura del praticante-associato viene sostituita da
quella dell’atleta professionista, il quale non fa più parte della compagine
associativa, composta esclusivamente da soggetti finanziatori, ma presta la
propria opera a favore di questa contro il pagamento di un compenso
proporzionale al livello qualitativo delle proprie prestazioni.
Un altro mutamento intervenne per quanto riguarda l’attività di
organizzazione di pubblici spettacoli. Se questa, in un primo tempo, era
rimasta un’attività secondaria e sporadica, con il solo fine di procurare mezzi
finanziari al sodalizio, successivamente, quando almeno per i sodalizi di
maggiore importanza, la partecipazione ai campionati di categoria divenne
l’oggetto principale della società, la presentazione al pubblico di spettacoli
calcistici passò automaticamente in secondo piano: a poco a poco,
all’organizzazione elementare originaria si sostituì un’organizzazione
complessa che implicava tutta una serie di operazioni finanziarie di rilievo
notevole. In conclusione, vista da fuori, la loro attività si presentava del tutto
analoga a quella di un’impresa di spettacoli pubblici
5
.
Ad impedire la trasformazione delle associazioni sportive in imprese era di
impedimento l’art. 25 del Regolamento sportivo del CONI che non lasciava
alcun dubbio affermando: “Le società e le associazioni sportive non devono
avere fine di lucro”. A dispetto di ciò, in questi anni alcune società
calcistiche, proprio per poter meglio rispondere alle dimensioni e ai
connotati imprenditoriali che l’attività aveva recentemente assunto, decisero
di costituirsi con forma di società per azioni, invece che, come associazione
5
M. T. Cirenei, Le associazioni sportive società per azioni, in Rivista del Diritto
Commerciale, 1970, Parte Prima, p. 471.
8
non riconosciuta. È il caso della S.p.A. Torino costituita nel 1959 e della
S.p.A. Calcio Napoli, sorta nel 1964
6
.
Nonostante, tale veste giuridica assunta, tali società non potevano avere fine
di lucro, elemento fondamentale e caratterizzante del modello giuridico in
questione.
I nuovi ed evidenti aspetti imprenditoriali sempre più rilevanti resero
evidente come il divieto della finalità lucrativa fosse anacronistico e
necessario di revisione.
1.2 La riforma del 1966
L’avvento del professionismo ed il peso crescente della gestione acquisitiva
rispetto a quella erogativa nelle associazioni calcistiche fu oggetto di una
delibera della Federazione Italiana Gioco Calcio del 16 settembre 1966, con
la quale si stabiliva lo scioglimento delle vecchie associazioni militanti nei
campionati di serie A e B e la loro rinascita come società commerciali dotate
di personalità giuridica, condizione necessaria per l’iscrizione al campionato
1966-1967.
A tale delibera ne fece seguito un’altra in cui si imponeva l’adozione di uno
statuto-tipo all’interno del quale era rimarcata l’obbligatorietà dell’assenza
del fine di lucro sotto qualsiasi forma (art. 3, comma 1 dello Statuto-tipo).
Le finalità perseguite con tale delibere erano molteplici: definire le
responsabilità dei rappresentanti legali; imporre il rispetto di direttive
omogenee di gestione; rispettare le disposizioni in materia societaria e
fiscale; sanare le posizioni di debito delle associazioni quale utile premessa
per una gestione più ordinata
7
.
Infatti, con l’obbligatorietà della forma societaria si estendeva alle società di
calcio una serie di adempimenti riguardo la formazione e la pubblicità del
6
M. T. Cirenei, Società di calcio e fallimento, in Rivista del Diritto Commerciale, 1973, p.
294, nota 31.
7
F. Manni, Le società calcistiche. Problemi economici, finanziari e di bilancio, Torino,
Giappichelli, 1991. p. 14.
9
bilancio che avrebbe portato a una più cauta amministrazione e alla
possibilità di controllo delle autorità sportive competenti.
Inoltre, con tali delibere, si rendeva indispensabile l’adozione di una politica
di risanamento del bilancio delle società come condizione per l’erogazione
del mutuo sportivo e per la concessione di agevolazioni tributarie.
Tuttavia tali delibere della FIGC furono oggetto di diversi dibattiti a livello
giuridico.
Primo oggetto di discussione fu la legittimità dell’obbligo di scioglimento di
un ente privato che fu contestata da parte della Corte di Cassazione e poi dal
Consiglio di Stato, in quanto di esclusiva pertinenza della legge.
Tale controversia giuridica fu sanata ricorrendo alla scissione
dell’operazione in due parti distinte: l’adozione di una delibera di
scioglimento da parte delle rispettive assemblee; l’adozione di una
successiva delibera che consentisse la ricostituzione di nuove società su
iniziativa dei partecipanti alle disciolte associazioni
8
.
Altro oggetto di discussione fu la finalità lucrativa. Infatti, era generalmente
riconosciuta la possibilità di realizzare utili di bilancio (lucro in senso
oggettivo) mentre era sicuramente esclusa la possibilità di devolvere ai soci
l’eventuale utile conseguito dalla società (lucro in senso soggettivo).
Infatti, è espressamente disposto che gli eventuali utili devono essere
destinati al potenziamento dell’ attuazione delle finalità sportive, di cui viene
riaffermata espressamente l’essenzialità.
Gli artt. 5, comma 2 e 6, comma 2 prevedono certi casi peculiari di
cessazione della qualità di socio e impongono la corresponsione di una
“somma non superiore al valore nominale delle azioni delle quali è titolare”.
Per quanto riguarda l’eventuale residuo attivo di liquidazione l’art. 23,
comma 2 dispone che: “Gli eventuali avanzi di gestione che residuassero
dopo il rimborso ai soci del capitale sociale dovranno essere devoluti a
favore di fondi di assistenza del CONI-FIGC”.
8
G. Basile, M. Brunelli, G. Cazzulo, Le società calcistiche professionistiche. Aspetti
civilistici, fiscali e gestionali, Roma, Buffetti, 1997, p. 9.
10
Conseguentemente, a tali disposizioni numerosi erano inizialmente coloro
che proclamavano la nullità di tali società per mancanza del lucro soggettivo,
elemento essenziale al tipo societario in questione
9
.
Ne fu un esempio il Tribunale di Livorno che, pur riconoscendone lo stato di
insolvenza, non potè dichiarare il fallimento dell’Unione Sportiva Livorno
proprio per la ravvisata assenza dello scopo di lucro. La Corte d’Appello di
Firenze riesaminò tale decisione e la capovolse, sostenendo inessenziale lo
scopo di lucro ai fini dell’esercizio di un’impresa commerciale, considerando
come tale una società che svolgeva attività di organizzazione di spettacoli
gestita con criteri di economicità. Così venne convalidato il fallimento
dell’Unione Sportiva Livorno S.p.A.
Altre controversie giuridiche sorsero in sede di omologazione per alcune
società, per le quali venne richiesta la modifica di quelle clausole statutarie
da cui risultava la mancanza dello scopo di lucro.
A conferma della confusione giudiziaria sull’argomento emblematico fu il
caso della Unione Sportiva Rovereto S.p.A., la cui richiesta di omologazione
dello statuto, contrariamente alla grandissima maggioranza degli altri statuti
calcistici plasmati sul modello elaborato dalla FIGC, venne dapprima
respinta e poi accettata.
Dall’evidenza delle numerose controversie sopra citate apparve chiara la
necessità di un regolamentazione univoca in materia, ma questa avvenne
solo al termine di un processo che durò parecchi anni.
1.3 La nascita dello sport professionistico
La necessità di un intervento legislativo fu sentita ben presto, infatti già sul
finire della IV legislatura, precisamente il 14 luglio 1967, 48 deputati
appartenenti a diversi schieramenti politici, presentarono la proposta di legge
9
G. Minervini, Il nuovo statuto-tipo delle società calcistiche, in Rivista delle Società, 1967,
pp. 678-679.
11
n. 4252 “Disciplina delle società sportive”, nota come proposta di legge
Usvardi
10
.
Essa contemplava una nuova forma associativa: l’associazione sportiva a
responsabilità limitata.
La sua finalità fondamentale era di dare valore normativo a quanto previsto
in precedenza dalla FIGC, adducendo come motivazioni l’insufficienza e
l’inadeguatezza dell’associazione non riconosciuta alle esigenze dei sodalizi
sportivi, in particolare per quanto riguarda i temi della limitazione della
responsabilità e la possibilità di acquistare immobili.
Tale progetto di legge intendeva sottoporre le associazioni calcistiche alle
norme codistiche facendo eccezione esplicita per le norme relative alla
finalità lucrativa, ancora una volta esclusa.
In particolare, le società utilizzanti atleti professionisti sarebbero state
sottoposte alle norme dettate in tema di S.p.A., mentre i sodalizi che
avessero utilizzato atleti dilettanti sarebbero stati sottoposti alle norme
dettate in tema di società cooperative.
Una serie di deroghe era esplicitamente prevista rispetto alla disciplina
codistica. Innanzitutto, essendo la finalità lucrativa esclusa, gli eventuali utili
di esercizio sarebbero stati destinati in misura del 50% a un fondo gestito dal
CONI. Tale obbligo resisteva anche in caso di scioglimento, per quanto
riguarda gli avanzi di gestione.
Maggior potere era dato al CONI attraverso due disposizioni: prevedendo la
possibilità di nominare, in caso di irregolare funzionamento
dell’associazione, su proposta della Federazione, un Commissario,
determinandone i poteri e la durata; dandogli la possibilità di richiedere al
Tribunale, sentita la Federazione Sportiva competente, di porre in
liquidazione l’associazione e di nominare un liquidatore, qualora avesse
ritenuto che fossero mutate le circostanze in base alle quali aveva emesso
parere favorevole al riconoscimento.
10
G. Falsanisi, E. F. Giangreco, Le società di calcio del 2000: dal marketing alla
quotazione in borsa, Soneria Mannelli, Rubbettino, 2001, p. 15.
12
Inoltre tale proposta di legge prevedeva che oltre alle cause di scioglimento
enunciate nell’art. 2488 c.c., ne fosse aggiunta un’altra, ovvero qualora tale
associazione fosse esclusa dalla Federazione sportiva di appartenenza.
Appare chiaro come tale proposta non fosse formulata tanto in favore dei
sodalizi sportivi, quanto del CONI che avrebbe visto notevolmente
accresciuto il proprio potere nei confronti dei sodalizi così da divenire unico
beneficiario degli utili e dell’eventuale avanzo di gestione.
Inoltre, se in teoria avrebbe dovuto regolamentare l’intero settore sportivo,
nella pratica intendeva risolvere solo i problemi dei maggiori sodalizi
calcistici, lasciando immutata la realtà dei minori.
Questi evidenti limiti, unitamente ad un procedimento necessario per
ottenere il riconoscimento particolarmente laborioso, fecero sicchè tale
proposta di legge, nonostante il parere favorevole del CONI, non venne
approvata.
Decaduta tale proposta ci si sarebbe dovuti aspettare un intervento radicale
del legislatore in materia, ma questo non avvenne prima di 7 anni con il
D.P.R. del 2 agosto 1974, n. 350, intitolato: “Regolamento del Comitato
Olimpico Nazionale Italiano e delle Federazioni Sportive Nazionali”.
Tale decreto, come è possibile dedurre dal titolo, intendeva essenzialmente
regolamentare la struttura di tali Enti e non la forma associativa dei sodalizi
sportivi. Riguardo a questi ultimi, non venivano apportate delle
modificazioni. Era ripetuto quanto già stabilito dal legislatore nel 1942: era
riproposta la dizione atecnica di società, senza peraltro chiarirne il
contenuto, la forma, le regole; era ribadito che le società sportive non
potevano avere fine di lucro, che erano riconosciute dal Consiglio Nazionale
del CONI e che esercitavano la loro attività secondo le norme e le
consuetudine sportive regolamentate dagli artt. 31, 32 e 33.
Un successivo intervento in campo sportivo si ebbe grazie al pretore
Costagliela della Pretura di Milano.
Egli ritenne che il contratto avente ad oggetto il trasferimento di un
calciatore da una società calcistica ad un’altra, dietro pagamento della
13
società cessionaria alla cedente di una somma a titolo di indennizzo, violasse
la Legge del 23 ottobre 1960, n. 1369 sulla “manodopera”, che vieta
l’intervento dei mediatori privati nella fase di stipulazione del contratto di
lavoro subordinato (tale era considerato il rapporto tra società e sportivi
professionisti).
Così la Pretura di Milano inibì “ai rappresentanti delle società calcistiche
della Lega professionisti di svolgere trattative e stipulare contratti aventi ad
oggetto il trasferimento di calciatori ad altra società, salva restando la
facoltà dei singoli calciatori di contrattare con la società calcistica
richiedendo il proprio ingaggio e sempre che, in tale ultima ipotesi, venisse
richiesto e rilasciato il prescritto nulla osta per il passaggio diretto del
lavoratore da azienda ad azienda”.
Date queste premesse venne vietato “ai legali rappresentanti protempore
della Federazione Italiana Gioco Calcio e della Lega Nazionale
Professionisti di ratificare tutti i contratti di trasferimento stipulati tra i
rappresentanti delle associazioni calcistiche”
11
.
Tale intervento bloccò il mercato estivo dei calciatori e mise in serio rischio
il regolare svolgimento del campionato di calcio 1978/1979.
Proprio per scongiurare tale rischio, l’11 luglio 1978 l’allora sottosegretario
alla Presidenza del Consiglio del Governo Andreotti, On. Evangelisti,
promuoveva una riunione dei Ministri competenti per studiare il problema, la
cui risultante fu l’emanazione tre giorni più tardi del D.L. 14 luglio 1978, n.
367, “Interpretazione autentica in tema di disciplina giuridica dei rapporti
tra enti sportivi ed atleti iscritti alle federazioni di categoria”.
Tale decreto disponeva che “la costituzione, lo svolgimento e l’estinzione dei
rapporti tra società o le associazioni sportive ed i propri atleti e tecnici,
anche se professionisti, tenuto conto delle caratteristiche di specialità ed
autonomia dei rapporti stessi, continuano ad essere regolati, in via
esclusiva, dagli statuti e dai regolamenti delle federazioni sportive
11
G. Micali, Spunti ricostruttivi della L. 23 marzo 1981, n. 91, in materia di rapporti tra
società e sportivi professionisti, in Giust. Civ. , 1988, II, 308.
14
riconosciute e dal Comitato Olimpico Nazionale Italiano, alle quali gli atleti
ed i tecnici stessi risultano iscritti (art. 1, 1 comma). In particolare, gli atti
relativi all’acquisto ed al trasferimento del titolo sportivo dei giocatori di
calcio o degli atleti praticanti tali sports, nonché le assunzioni dei tecnici da
parte di società od associazioni sportive, devono intendersi non assoggettati
alla disciplina in materia di collocamento prevista dalla L. 29 aprile 1949,
n. 264, e successive modificazioni”.
Inoltre, l’art. 2 dello stesso D.L. stabiliva che: ”Con legge da emanarsi entro
un anno dalla entrata in vigore del presente decreto, per i rapporti indicati
nell’art. 1 sarà adottata una disciplina organica che, nel rispetto
dell’autonomia dell’ordinamento sportivo, tuteli adeguatamente gli interessi
sociali, economici e professionali degli atleti”.
Proprio per il perseguimento di questo fine fu costituita, presso la Presidenza
del Consiglio dei Ministri, una Commissione preseduta dall’On. Evangelisti
e composta dal Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale (Scotti), dal
Ministro del Turismo e dello Spettacolo (D’Arezzo) e con la collaborazione
del CONI e delle categorie interessate.
La risultante di tale lavoro fu l’emanazione della L. del 23 marzo 1981, n. 91
Rubricata sotto il titolo “Norme in materia di rapporti tra società e sportivi
professionisti”.
Tale legge faceva seguito alla “promessa” contenuta nell’art. 2 del D.L. n.
367/78 che fu soppressa in sede di conversione.
La legge 23 marzo 1981, n. 91 intendeva risolvere, definitivamente, le
difficoltà gestionali e di bilancio incontrate dai club calcistici nell’esercizio
della loro attività.
Infatti, l’imposizione ai sodalizi calcistici della forma giuridica non aveva
dato i risultati sperati. È evidenza di ciò il fatto che il disavanzo complessivo
delle società di serie A e B passò dai 18 miliardi del 1972 agli 86 del 1980.
A rendere ancor più grave la situazione era il fatto che tali sodalizi
provvedevano a compensare le varie voci di costo in misura ridotta con le
somme conferite da presidenti, dirigenti ed enti locali mentre per la maggior
15
parte erano coperte con le plusvalenze nette derivanti dalla cessione del
patrimonio calciatori. Tuttavia tali plusvalenze erano spesso fittizie, in
quanto le società potevano dar luogo a scambi di giocatori senza alcun
esborso di denaro attribuendo poi alla transazione un valore maggiorato
rispetto al reale. Così facendo, ciascun contraente provvedeva a registrare in
contabilità le rispettive plusvalenze, ma ciò causava il progressivo
annacquamento economico del capitale.
Un’analisi minuziosa della contabilità delle squadre di serie A e B condotta
nel biennio 1979-1980 mise in luce che 115 miliardi e 220 milioni di lire di
plusvalenze erano stati completamente assorbiti da 115 miliardi di perdite
capitalizzate, ad ulteriore conferma di come l’industria del calcio aveva
mascherato le ricorrenti perdite di gestione alterando annualmente il valore
dei giocatori iscritti in bilancio
12
.
È possibile dire che la legge 23 marzo 1981, n. 91 segnò la nascita dello
sport professionistico. Vi fu un intervento legislativo di ampia portata con il
quale si andavano a disciplinare tutte le società sportive professionistiche e si
riconoscevano e regolamentavano giuridicamente e fiscalmente il lavoro
sportivo e, dunque, la figura dello sportivo professionista.
Il testo di tale legge venne suddiviso in quattro Capi. Nel primo di questi,
all’art. 2, è enunciata la definizione di sportivo professionista: “Ai fini
dell’applicazione della presente legge, sono sportivi professionisti gli atleti,
gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi ed i preparatori atletici, che
esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità
nell’ambito delle discipline regolamentate dal CONI e che conseguono la
qualificazione delle federazioni sportive nazionali, secondo le norme
emanate dalle federazioni stesse, con l’osservanza delle direttive stabilite
dal CONI per la distinzione dell’attività dilettantistica da quella
professionistica”.
12
P. L. Marzola, L’industria del calcio, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1990, pp. 107-
109.
16
L’individuazione dello sportivo professionista e quindi del lavoro sportivo
risulta di fondamentale importanza, poiché a tale fattispecie si sono applicate
le successive disposizioni giuridiche riguardanti la stipulazione, il contenuto
e la cessione del contratto (artt. 3, 4, 5 e 6), nonché un’articolata trama di
interventi assicurativi ed assistenziali (artt. 7, 8 e 9).
Tale intervento legislativo permise così di porre chiarezza riguardo al
rapporto sportivo, in merito al quale si individuavano due opposte tendenze
di pensiero: una che riconduceva l’attività calcistica al rapporto di lavoro
subordinato o autonomo; l’altra che portava, invece, a collegare il lavoro
dello sportivo a fenomeni particolari, non riconducibili a qualificazioni
tipiche e a discipline di tipo comune
13
.
Per cui venne, finalmente, identificato lo strumento principe attraverso cui le
società sportive acquisiscono gli atleti: il contratto di lavoro subordinato.
Nel Capo secondo venne introdotta la possibilità di scegliere la forma
sociale. Al modello già utilizzato della società per azioni viene affiancato
quello della società a responsabilità limitata.
Un altro aspetto importante introdotto in questo Capo riguarda il sistema dei
controlli, creando una stretta interrelazione tra i controlli devoluti all’autorità
giudiziaria dello Stato e quelli di competenza dell’autorità sportiva.
Tale interrelazione venne progettata in maniera tale che i due livelli di
controllo fossero in reciproco condizionamento, cosicché il mancato
superamento di uno dei due agisse anche sul piano dell’ordinamento
parallelo.
Nella pratica ciò fu particolarmente evidente per quanto riguarda la
costituzione della società: infatti, senza l’affiliazione alla federazione
sportiva nazionale riconosciuta dal CONI, la compagine sportiva non
avrebbe potuto ottenere l’omologazione; d’altro canto, senza l’omologazione
del tribunale l’affiliazione sarebbe stata priva di efficacia e alla società
sarebbe stato inibito di svolgere l’attività sportiva.
13
C. Macrì, Problemi della nuova disciplina dello sport professionistico, in Rivista di
Diritto Civile, 1981, parte seconda, pp. 485-486.