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Breisgau. Di conseguenza poche, seppur ugualmente importanti, sono state
le fonti prettamente letterarie consultate, ma ciò non costituisce, a mio
avviso, un lato negativo della presente tesi in quanto le soluzioni ambientali
adottate nei soggetti di studio sono peculiari ed originali della particolare
situazione urbana della città e non sono parte di una scuola di pensiero, di
pianificazione o architettonica e quindi non oggetto di grandi studi a livello
internazionale. Non ancora perlomeno.
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1.1 La Città parassitaria ed il problema ambientale
Ad un primo punto di vista la città, e l’ambiente cittadino in generale,
costituiscono solamente un grande aggregato di abitazioni, attività
produttive, attività distributive e servizi. Ma sono molto pochi coloro che si
soffermano a pensare cosa ci sia oltre questa prima impressione che, seppur
giusta in fin dei conti, costituisce solo una minima parte della natura
cittadina. Molti studiosi hanno speso carta ed inchiostro cercando di
analizzare le città sotto tutti i punti di vista, dandone definizione,
classificandole, gerarchizzandole e quant’altro. Interessanti per il presente
lavoro si rivelano tuttavia la parole di Eugene P. Odum che definisce la
città come “Un incompleto sistema eterotrofo” dipendente da ampie aree
limitrofe e non, per l’energia, il cibo, l’acqua ed i materiali. Secondo Odum
la città differisce da un ecosistema eterotrofo naturale, come una colonia di
ostriche, dal momento che presenta un metabolismo molto più intenso per
unità di area, il quale richiede un flusso in entrata molto più consistente di
energia concentrata ( attualmente costituito maggiormente da combustibili
fossili) , una richiesta in entrata di materiali come metalli per uso
commerciale ed industriale, oltre a quelli strettamente indispensabili al
Capitolo Primo
Città, Ambiente,
Sostenibilità
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sostentamento della vita dei suoi abitanti. Dall’altro lato un’uscita molto
forte di sostanze di rifiuto velenose e di molte altre sintetiche di produzione
prettamente umana sconosciute fino a pochi secoli fa in natura. Detto in
questi termini si capisce il perchè, molto spesso, si senta parlare di Città
Parassitaria dal punto di vista dell’ambiente naturale. Come un parassita
infatti le città tendono a sottrarre risorse naturali a proprio uso e consumo
dando indietro perlopiù materiali di scarto nocivi per quell’ambiente stesso
che ne garantisce la sopravvivenza. Il problema del degrado ambientale,
praticamente sconosciuto fino a pochi decenni fa, è oramai sotto gli occhi
di tutti e rappresenta uno dei più grandi pericoli, nonché una grande sfida,
per quelli della mia generazione e di quelle future.
La problematica ambientale esercita inoltre ripercussioni negative anche
sulla realtà urbana stessa. Ogni uomo infatti, nonostante tutti gli agi ed i
servizi offerti dalla città ne percepisce l’artificiosità e ricerca di continuo un
contatto, anche se minimo, con un qualcosa di naturale. Città
eccessivamente cementificate, con pochi spazi verdi urbani e zone limitrofe
ecologicamente degradate non a caso spesso rientrano nella categoria delle
meno vivibili. Fino a un secolo fa questi problemi non erano tenuti in
adeguata considerazione anche perché era convinzione dell’epoca che le
risorse ambientali fossero inesauribili e totalmente a disposizione
dell’uomo e comunque l’industrializzazione non aveva ancora causato,
tranne alcune eclatanti eccezioni, fenomeni di alto degrado ambientale (un
caso su tutti, le facciate delle case e gli alberi neri per la fuliggine delle
fabbriche nelle principali città industriali inglesi). Ma nei tempi moderni,
tutto ciò è cambiato. L’ambiente si è dimostrato come non inesauribile ( si
pensi alle previsioni sulle scorte petrolifere mondiali) e grazie alla
diffusione dei mezzi mediatici di informazione, la gente si è man mano
sensibilizzata alle tematiche ecologiche e di degrado ambientale. Inoltre il
relativo benessere nel mondo occidentale ha fatto crescere le richieste di
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città pianificate a misura d’uomo e non a misura di fabbrica, come nei
primi anni dell’industrializzazione, ed in questa pianificazione il rispetto
per l’ambiente occupa oramai un ruolo importante. Ma il grande dilemma
di urbanisti, ecologi urbani ed anche governanti è proprio questo. Può
essere una città, parassitaria per natura, essere riprogettata e riconvertita in
maniera tale che non sia più dannosa per l’ambiente dal quale trae ciò che
le serve avvalendoci delle moderne conoscenze tecniche e scientifiche?
Il quesito, di per se di difficile soluzione, ha portato negli anni allo sviluppo
di nuove branche della geografia, dell’architettura, dell’ingegneria,
dell’ecologia e dell’urbanistica. Sono stati riscoperti vecchi concetti come
quelli di ecologia urbana mentre altri sono stati portati nuovamente in auge
come quello di Sostenibilità Ambientale ed Urbana di cui credo sia
necessario approfondirne e capirne il significato.
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1.2 Il controverso concetto di Sostenibilità Ambientale
Dagli inizi degli anni Settanta cominciò ad insinuarsi il dubbio che le
risorse planetarie non fossero illimitate e che i problemi ambientali non
sempre potessero essere risolti con semplici interventi di breve termine. Si
cominciò cioè a prendere coscienza non solo dell’entità dei problemi sorti
in questo campo, ma anche del fatto che la loro dimensione richiedesse
interventi a più livelli e a diverse scale. La Conferenza dell’Onu
sull’Ambiente Umano del 1972 divulgò un rapporto del Massachussets
Institut of Technology (Mit) in cui si affermava che un’ulteriore crescita ed
espansione della società risultasse pregiudicata dalla scarsità ed esauribilità
delle risorse. Anche se il rapporto del Mit venne aspramente criticato ebbe
il merito di aver posto in termini crudi un problema che andava finalmente
affrontato. Ma erano gli anni della discesa dell’uomo sulla luna e quindi per
un po’ lo scetticismo, supportato da una grande fiducia nei mezzi umani,
prevalse. Ma quello stesso scetticismo iniziò a stemperarsi già nel 1973 con
la prima grande crisi petrolifera che mise in ginocchio l’economia
mondiale costringendola a ricercare nuove fonti di energia.
In seguito negli anni Ottanta vennero acquisite nuove conoscenze sui danni
apportati dall’uomo all’ambiente: dalle piogge acide, all’effetto serra, dal
pericolo per le biodiversità, all’importanza dello strato di ozono, alle
trasformazioni del clima. La classe politica allora non poté più rimanere
insensibile, anche a causa di un accentuato fenomeno di sensibilizzazione
mediatica che rese la gente particolarmente attenta a queste problematiche,
e l’ottimismo scientifico iniziò ad essere scalfito.
Nel 1987 viene pubblicato il Rapporto della Commissione del Wced
(World Commission on Environment and Developpment) promossa
dall’Onu; questo documento pone al centro della questione ambientale non
solo l’impatto dell’azione dell’uomo sul patrimonio naturale, ma anche le
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conseguenze a medio e lungo termine in rapporto alle generazioni future. I
limiti della crescita non vengono più identificati dall’esauribilità delle
risorse, così come affermato nel Mit, ma nella capacità della Biosfera di
assorbire gli effetti delle attività umane. Lo sviluppo, dunque, non deve
essere più inteso come funzionale allo sfruttamento incondizionato di
risorse ma deve tenere in considerazione, nel caso di risorse rinnovabili,
della loro crescita naturale, mentre in relazione a quelle non rinnovabili, è
opportuno che l’uso sia compatibile con la quantità che si presume essere
disponibile. In questi termini, dunque, si parla per la prima volta di
Sostenibilità.
Ma è solo nel 1992, con la Conferenza di Rio de Janeiro su “Ambiente e
Sviluppo” che lo sviluppo sostenibile viene indicato come uno degli
obbiettivi comuni da raggiungere sia su scala locale che internazionale.
In particolare si deve considerare come un sistema di obbiettivi basati su 3
principi:
1) Integrità dell’ecosistema, inteso come uso compatibile delle risorse
naturali, evitando perciò sprechi, e non quindi solo come integrità
dell’ecosistema.
2) Efficienza economica, per la quale la crescita basata sull’aumento
dell’occupazione, del reddito e del Pil non deve gravare
eccessivamente sull’ambiente naturale. L’efficienza economica è
tanto più consistente quanto più è ridotto l’uso di risorse non
rinnovabili a vantaggio di quelle rinnovabili o riciclabili.
3) Equità sociale che a sua volta viene specificata in: a)
Intragenerazionale che si esplica attraverso le pari opportunità
economiche di tutti i popoli della terra. b) Intergenerazionale che
invece ci impone il dovere di lasciare alle generazioni future un
patrimonio naturale e culturale almeno simile a quello che abbiamo
ricevuto dalle generazioni passate.
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Espressa in questi termini si capisce da subito che il concetto di
Sostenibilità è complesso e presenta notevoli sfaccettature. E’ proprio
questo il motivo per cui, purtroppo, esso non è inteso in modo univoco sia
dalla comunità scientifica mondiale che da quella politica. Vi è poi un altro
problema del quale tenere conto in quanto, a grandi linee, vi sono due modi
di affrontare la sostenibilità, l’uno di carattere locale e l’altro globale. Le
due modalità spesso non sono operativamente collegate tra di loro anche se
entrambe le modalità sono inscindibili ed entrambe fondamentali sia nella
teoria che nella pratica. Esemplificando, un sindaco potrebbe prendere
provvedimenti applicando i criteri della sostenibilità solo alla città che gli
compete anche con ottimi risultati (livello Locale), ma ciò avrà solo una
minima influenza su scala mondiale (livello Globale). Ciononostante è
innegabile che quell’iniziativa, quel modo di agire, costituirà un esempio
positivo che altri Sindaci o anche capi di stato potrebbero cercare di
imitare.
Bisogna però capire anche che la sfida globale non può essere vinta solo
tramite una serie di iniziative a livello locale. Benché si debba ammettere
che i gravi problemi di inquinamento odierno siano dopotutto il risultato di
una sommatoria di interventi dell’uomo a livello locale, bisogna oggi tenere
contro anche delle volontà dei singoli stati, non tutti propensi a fare
sacrifici economici in nome di un ipotetico rispetto per l’ambiente.
Emblematico è stato il comportamento degli Stati Uniti in occasione della
mancata ratifica dei Protocolli di Kyoto del 1997. In quell’occasione, le
ragioni economiche e politiche dell’amministrazione Federale hanno
prevalso anche su buona parte dell’opinione pubblica statunitense e
mondiale che pur era a favore della ratifica. Ma gli Stati Uniti non sono
stati gli unici a disattendere le aspettative. Sembra infatti che i problemi
ambientali ricevano adeguata attenzione dalla maggior parte dell’opinione
pubblica e dei governi nazionali solo in periodi di benessere economico
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mentre tende ad essere quasi dimenticata i periodi di crisi economica.
Proprio la crisi dell’economia mondiale e la conseguente stagnazione che si
è verificata della seconda metà degli anni Novanta e dalla quale non ci
siamo ancora ripresi tutt’oggi, specialmente in Europa, sembra aver messo
totalmente in disparte i problemi ambientali. La sostenibilità ed il rispetto
ambientali sono, in molti casi, ridotti a vuoti slogan di propaganda politica
sia a livello locale che nazionale ed internazionale. La conferenza di
Johannesburg del 2002 non ha potuto fare altro che constatare il fallimento
a livello globale degli obbiettivi posti nel 1992 a Rio e nel 1997 a Kyoto
nonostante in questi anni, grazie allo sviluppo tecnologico, si siano
incrementate le conoscenze sullo stato di salute del pianeta. Il futuro è
incerto ma non del tutto nero. L’opinione pubblica, parzialmente
disinteressatasi negli anni Novanta sembra ora aver ritrovato l’interesse per
l’argomento. Inoltre nuove scoperte tecnologiche hanno reso le cosiddette
“tecnologie pulite” economicamente molto più interessanti e sfruttabili.
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1.3 La Sostenibilità Urbana
Lasciamo ora da parte il concetto di sostenibilità Globale per concentrarci
su quello Locale o più precisamente quella limitata all’ambito Urbano.
Bisogna innanzitutto ricordare che negli ultimi anni in Europa e nel Nord
America molte città hanno sviluppato programmi per raggiungere
l’obiettivo dello sviluppo sostenibile mediante azioni tesi a migliorare
l’ambiente sia urbano che extraurbano limitrofo ed a ridurre l’uso di risorse
e gli sprechi. Tra le varie conferenze internazionali sull’argomento,
particolare importanza riveste quella di Istambul del 1996, conosciuta
anche come Habitat II, sotto l’egida dell’Onu, poiché ha introdotto la
maggior parte dei problemi non limitandosi però solo all’aspetto
prettamente scientifico, con cui di solito si discute di sviluppo sostenibile,
ma affrontando tali problemi anche da un punto di vista prettamente
pratico. La quantità di partecipanti alla conferenza sorprese gli stessi
organizzatori in quanto, accanto a delegazioni ufficiali di stati, presero
parte ai lavori anche organizzazioni umanistiche, religiose ed ecologiche di
livello soprannazionale, molto attente a queste problematiche. I risultati di
Habitat II, concretizzati in due documenti chiave, uno sul venire incontro ai
bisogni umani, l’altro su un forte impegno a minimizzare gli sprechi di
risorse, sono stati in genere definiti deboli anche perché non si accenna né
si accetta, la creazione di un organismo nazionale, o addirittura
internazionale, che assicuri il perseguimento degli obbiettivi di sviluppo
sostenibile Urbano nelle città di qualsiasi paese.
Nonostante tutto, grazie a questa e ad altre conferenze dello stesso tipo, si
sono individuate ben 5 categorie di azioni ambientali che le città devono
tener presenti per perseguire gli obbiettivi dello sviluppo sostenibile
urbano.
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I 5 principi fondamentali per la sostenibilità urbana sono dunque:
1) Controllo dei vettori patogeni infettivi e parassitari, in seguito
all’esigenza di ridurre la vulnerabilità alle malattie in ambito
urbano, mediante servizi sanitari, depuratori e sufficiente quantità
di acqua a tutta la popolazione urbana.
2) Riduzione dei rischi chimici e fisici nelle case, nei luoghi di
lavoro ed all’aperto.
3) Promozione di una migliore qualità dell’ambiente urbano per
tutti gli abitanti in termini di quantità e qualità degli spazi aperti
per abitante (Parchi, impianti sportivi, giardini pubblici per
bambini ecc.) e protezione dell’eredità naturale e culturale della
città.
4) Riduzione e minimizzazione del trasferimento dei costi
ambientali agli abitanti e agli ecosistemi delle zone intorno alle
città.
5) Assicurare il progresso e il raggiungimento dei fabbisogni umani
senza intaccare il capitale ambientale mondiale. Ciò implica un
uso delle risorse compatibile con i limiti del capitale naturale
senza trasferire costi ambientali ad altre popolazioni o alle future
generazioni.
I rischi, prettamente di natura sanitaria, descritti nella prima categoria, al
giorno d’oggi vengono considerati troppo spesso come riguardanti solo ed
esclusivamente territori sottosviluppati del Terzo mondo. Ciò non è del
tutto vero. Infatti benché i rischi in tali regioni siano in effetti ben maggiori,
non dobbiamo dimenticare che persino nelle città più sviluppate
dell’Occidente questi non sono affatto esclusi. Al contrario proprio in
regioni nelle quali particolari malattie sono state debellate da tempo ( come
da noi la tubercolosi) per poi ricomparire all’improvviso in maniera
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accidentale, la popolazione e la classe medica si sono dimostrate più
vulnerabili che altrove con un conseguente accrescimento della mortalità.
I rischi di cui si parla nel secondo principio hanno a che fare anche in una
certa misura con le nuove scoperte in relazione alla cancerogenità di alcuni
materiali usati prima abitualmente per la costruzione e l’arredamento.
Infatti materiali come l’amianto, la formaldeide, il radon si sono rivelati
tossici solo dopo anni di loro utilizzo su vasta scala con effetti spesso
deleteri per la salute umana. In questa categoria di rischi rientrano anche
particolari tipi di inquinamento come quello acustico (non sempre
imputabile esclusivamente al traffico automobilistico) e luminoso (la
luminosità eccessiva di alcune città anche di notte che può causare disturbi
del sonno). Vengono inoltre inclusi nella categoria i rischi più disparati, dai
semplici incidenti domestici, alle catastrofi naturali (incendi, frane,
alluvioni ecc.).
Con il terzo punto si entra finalmente nell’ambito delle categorie più
concrete dal punto di vista dello sviluppo urbano sostenibile anche se
questo presenta interrelazioni con i primi due. Rispetto a questi è però più
sofisticato e di livello superiore in quanto postula la necessita di migliorare
la qualità della vita attraverso la presenza di aree verdi, culturali e ricreative
sufficienti delle quali tutti possano godere. La valenza ecologica del
principio è indiscutibile: promuovendo aree verdi, parchi, il piantare alberi
ed altro si rende la città più a misura di uomo da un lato mentre dall’altro,
non solo si conserva il patrimonio naturalistico di cui si dispone, ma si può
anche in parte recuperare quello andato perduto per eccessiva speculazione
edilizia, cementificazione e cattiva pianificazione (la stessa Cassino, dove
io vivo, è un esempio lampante di tutti e tre i fattori in questione).
La quarta categoria ha una dimensione ancora più ampia ma anche
difficilmente interpretabile: “Minimizzare il trasferimento di costi
ambientali alle aree circostanti le città”. Bisogna infatti chiarire che lo
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spazio circostante le città non di rado è stato pesantemente modificato e
degradato in seguito alla continua domanda di risorse della stessa città
(materie prime alimentari, minerarie ecc.). Inoltre, spesso le zone in
questione sono sedi di discariche legali o abusive (in Italia le seconde
superano purtroppo ampiamente le prime) di rifiuti solidi urbani, gestite
con scarsa tutela per la salute degli abitanti (in proposito non posso fare a
meno di ricordare il “meraviglioso odorino” che si sente nei dintorni di
Frosinone nelle giornate calde d’estate). L’inquinamento atmosferico ed
idrico generato poi dalla città stessa nella quasi totalità dei casi fa sentire i
suoi effetti negativi anche al difuori di essa. Bisogna ricordare poi che i
territori intorno alle città sono stati coinvolti nei processi di
delocalizzazione produttiva, che ha portato ad allontanare dal centro delle
città sia le attività produttive industriali che le centrali energetiche per una
motivazione da un lato ecologica (allontanare l’inquinamento prodotto da
queste attività dal centro cittadino), ma soprattutto economica ( come ad
esempio un minore costo dei terreni). La motivazione ecologica risulta
inoltre fallace e pretestuosa in quanto l‘inquinamento prodotto viene
semplicemente spostato e non eliminato, ed esercita comunque la sua
azione negativa sia sul nuovo luogo di produzione che, di riflesso, nella
città. Inoltre la delocalizzazione ha avuto, tra l’altro, anche il merito di aver
accelerato il fenomeno della suburbanizzazione con conseguente
allargamento delle città. Assieme alle industrie infatti si sono spostati anche
gli abitanti per ragioni di comodità e vicinanza del posto di lavoro. La
suburbanizzazione ha portato con sé a sua volta problemi come il traffico,
aumentando quindi il degrado in una sorta di circolo vizioso e così i costi
ambientali della città vengono trasferiti sull’ambiente circostante.
La quinta categoria rappresenta il maggiore e più difficile degli obbiettivi
da raggiungere. Questo punto sembra riguardare le città più grandi e ricche
del pianeta, in quanto la loro domanda di energia, materie prime, alimenti e