Al fine di dare una forte impronta sperimentale al progetto di tesi ho
inserito otto interviste esclusive ad altrettanti esperti del settore per creare
un ideale ponte tra teoria e pratica.
Tra i vari strumenti di comunicazione utilizzato, specialmente
nell’ultimo lustro, il focus del case history è stato posto sulle
sponsorizzazioni sportive; pratica sempre più rilevante nel panorama
nazionale ma non solo.
In tal senso, ho operato un benchmark dei principali mercati europei
(Inghilterra, Italia, Francia, Germania e Spagna), andando ad analizzare la
gestione e la valutazione quali-quantitativa delle principali
sponsorizzazioni:
1. club sponsorship;
2. personal sponsorship;
3. event sponsorship;
4. naming-sponsorhip di stadi.
Coerentemente con tale scelta, il case history è stato, perciò, diviso in
quattro diverse sezioni, ognuna delle quali svilupperà un tema aderente ad
ogni tipo di sponsorship.
Nella prima sezione (Club Sponsorhip), è stato evidenziato il
confronto tra le 16 squadre, dei cinque mercati analizzati, che prenderanno
parte all’edizione 2006/07 della Champions League (il più importante
torneo per club a livello continentale), quantificandone il valore delle
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sponsorizzazioni principali (jersey-sponsor e technical sponsor), così da
poter effettuare un confronto tra lo “sponsor value” complessivo dei 5
Paesi. Per mettere, poi, in maggior risalto la differenza di valore dei detti
mercati, si è riportato anche il valore complessivo delle sponsorizzazioni
delle diverse federazioni, specificandone i partner e la categoria
merceologica delle aziende.
Nella seconda sezione (Personal Sponsorship), invece, sono stati
messi a confronto 5 atleti internazionali, uno per ogni nazione: David
Beckham per l’Inghilterra, Valentino Rossi per l’Italia, Zinedine Zidane
per la Francia, Michael Schumacher per la Germania e Rafael Nadal per
la Spagna. In particolar modo, oltre alla descrizione quali-quantitativa del
portfolio sponsor di ogni atleta, si sono messe in luce le differenze sia della
gestione che della rilevanza del settore commerciale in base allo sport di
ogni atleta.
Nella terza sezione (Event Sponsorship), invece, si è deciso di
puntare su un evento globale come il mondiale di calcio Germania 2006,
facendo un parallelo con alcune edizioni precedenti: Francia ’98 ed Italia
’90.
Nell’ultima sezione, (Naming Sponsorship di stadi), infine, si è
appurato quante tra le 100 squadre che complessivamente giocano nelle
massime serie nazionali, hanno ceduto i naming-rights del proprio impianto
con le immagini, valori e curiosità; per ogni nazione, poi, è stato fatto un
approfondimento su un particolare impianto.
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SEZIONE 1:
INTRODUZIONE
CAPITOLO 1:
CONTESTO DI
RIFERIMENTO
CAPITOLO 1
CONTESTO DI RIFERIMENTO
1.1 INTRODUZIONE
L’economia è una scienza sociale e, come tale, nel tempo subisce
delle modifiche, segue delle correnti, cerca di adattarsi al meglio al
contesto in cui è inserita.
Se solo si fa riferimento agli ultimi due secoli, lasso di tempo in cui la
società civile e, conseguentemente l’economia, ha subito le trasformazioni
più radicali, possiamo apprezzare che tali fasi sono fondamentalmente tre.
Il passaggio principale fu quello che vide il radicarsi dell’economia
industriale e capitalistica, al posto del più statico e meno efficiente modello
artigianale. Temporalmente possiamo collocare questa fase tra il 1730,
anno in cui questo processo ha avuto origine in Inghilterra, e la fine del
XIX secolo, epoca in cui l’espansione di questa nuova cultura aveva
raggiunto la quasi totalità dell’Europa, nonché, degli Stati Uniti.
Procedendo sull’asse temporale, senza soluzione di continuità, sino
agli albori del XX secolo, si trova il secondo anello dell’itinerario storico
analizzato, che, anche in questo caso va a coincidere, almeno nella parte
iniziale, con un altro forte cambiamento culturale: la Seconda Rivoluzione
Industriale. A differenza dello stadio precedente, le innovazioni non
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riguardano solamente le fonti energetiche e l’impulso dato ai diversi settori
industriali, ma la riorganizzazione dell’intero sistema produttivo, con
particolare interesse all’articolazione del mercato, alla natura delle
comunicazioni, al modo di produzione ed, infine, alla ricerca tecnico-
scientifica. E’ proprio in questi anni che si diffonde “La Scuola della
Organizzazione Scientifica del Lavoro (Osl)” che vede nello statunitense
Frederick Taylor il più illustre esponente. Taylor, infatti, realizza una rigida
costruzione teorica, nota come “Taylorismo”, attraverso cui si doveva
giungere ad un aumento di produzione tale da innalzare gli standard
precedenti.
Il taylorismo si basa principalmente sui seguenti principi:
• studio scientifico dei metodi di lavoro (One Best Way);
• selezione ed addestramento scientifico della manodopera;
• instaurazione di rapporti di stima e di cordiale collaborazione tra
direzione e manodopera;
• ristrutturazione dell’apparato produttivo.
ONE BEST WAY
L’analisi scientifica è basata sulla scomposizione in fasi elementari
di ogni tipo di lavoro manuale, con cui si arrivava alla determinazione della
modalità ottima di lavorazione. Una volta giunti alla definizione di questi
standard, in termini di qualità e di tempo di esecuzione, la distinzione dei
lavoratori “di prim’ordine” da quelli “medi” passava semplicemente
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attraverso un confronto con i risultati riscontrabili all’interno dell’officina.
Su tale differenziazione, infine, si stabilivano gli abbinamenti tra i ruoli e
le persone, nonché si istituiva un sistema di remunerazione che
evidenziasse le effettive differenze esistenti tra le suddette categorie.
La One Best Way, infine, ha anche un’ importante valenza sotto il profilo
dell’ autorità; essa, infatti, basandosi sul metodo scientifico, non poteva
essere soggetta ad interessi di parte. Lo studio scientifico dei metodi di
lavoro è, quindi, un imperativo universale a cui devono sottostare tanto i
dipendenti quanto i datori di lavoro.
SELEZIONE ED ADDESTRAMENTO SCIENTIFICO DELLA MANODOPERA
Anche l’assegnazione del lavoro ai singoli dipendenti doveva
rispettare criteri rigorosamente scientifici; lo slogan con cui questo pensiero
veniva riassunto era: “l’uomo giusto al posto giusto”. Per Taylor, infatti,
nessun uomo può svolgere con pari maestria ogni lavoro, ma allo stesso
modo non esiste nessun uomo che non sappia compiere in modo ottimale
nemmeno un lavoro. Tanto maggiore era il numero di lavori compiuti da
operai considerarti di prim’ordine, tanto migliore era la produttività
dell’officina.
Il compito di ottimizzare il rapporto biunivoco tra doti soggettive del
lavoratore e le caratteristiche oggettive delle prestazioni di lavoro toccava
ai tecnici dell’Osl.
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INTIMA E CORDIALE COLLABORAZIONE TRA DIRIGENTI E MANODOPERA
Secondo lo studioso americano, la ricompensa economica, per
quanto importante, non è l’unico strumento per ottenere il consenso
operaio. Alla motivazione di tipo economico, infatti, si deve affiancare
un’intima e cordiale collaborazione tra direzione e dipendenti, un vero e
proprio contatto diretto tra datori di lavoro ed operai, evitando così che
questi ultimi possano costantemente sentirsi dei numeri anonimi.
Tale contatto esclusivo ha due scopi: legittimare a livello emozionale il
padrone agli occhi dell’operaio che lo riconosce come tale e favorire
l’implementazione di una politica di contrattazione individuale in luogo di
quella collettiva promossa dai sindacati che adottavano la pratica chiamata
closed shop
1
.
RISTRUTTURAZIONE DELL’APPARATO PRODUTTIVO
Questo principio è probabilmente il più importante e cruciale dei
quattro. Taylor affermava che la produttività espressa in un’officina deriva
non solo dalle sue ristrutturazioni interne, ma anche dalla riorganizzazione
dell’intero apparato produttivo dell’impresa. La situazione presente nella
maggioranza delle fabbriche riflette una penuria di personale dirigente; ciò
costringe i singoli capi a non poter compiere tutte le mansioni previste
oppure a svolgerle a costi non economici. I capi cercano di risolvere tale
1
“Attività secondo la quale i sindacati che organizzavano gli operai di mestiere riuscivano ad imporre
alle aziende di assumere soltanto i propri iscritti”.
(Fonte: Bonazzi G., Storia del pensiero organizzativo, Franco Angeli, Milano, 1995)
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problema scaricando parte del loro lavoro sui subalterni che, a loro volta ,
sono già gravati dai propri compiti. Conseguenza di questo stato di cose è
che anche ai livelli più bassi di dirigenza, l’eterogeneità delle funzioni è
elevata come ai livelli superiori. Tale quadro, già di per sè negativo, è poi
aggravato da una struttura gerarchica militare che contempla una sola linea
di trasmissione di tutti i comandi (dall’alto verso il basso), che passi
attraverso un capo intermedio il quale riceve tutti gli ordini dai superiori e
li trasmette, in modo più dettagliato, a chi gli è immediatamente inferiore.
Con una situazione di questo tipo, diventa molto difficile raggiungere i
traguardi che Taylor si era posto. Sul mercato del lavoro, infatti, le persone
in grado di gestire tali dinamiche sono molto rare e proprio per questo loro
si collocano ai vertici e non nelle posizione intermedie dell’organizzazione.
La soluzione suggerita dello statunitense è perciò quella di restringere il
campo delle responsabilità affidate ai singoli, passando obbligatoriamente
attraverso un aumento numerico dei quadri intermedi.
Inoltre, la gerarchia di tipo militare viene ad essere sostituita dalla
direzione funzionale. Gli operai, così, rispondono a diversi superiori,
ognuno dei quali si occupa di uno specifico aspetto del lavoro.
Le prescrizioni tayloristiche non si limitano alla sola officina; in tutta la
realtà aziendale, infatti, il passaggio di informazioni ai livelli superiori e le
conseguenti richieste di intervento dovevano avvenire attraverso il
“principio di eccezione”.
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2
Principio con il quale Taylor estende ai livelli direttivi lo stesso criterio di eliminazione dei tempi morti
e superflui che ispirano la riorganizzazione delle mansioni esecutive.
(Fonte: Bonazzi G, Op.Cit.)
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Dall’esposizione di questi quattro principi, è facile delineare la
fabbrica che Taylor immaginava. Internamente era molto burocraticizzata,
con una linea di trasmissione delle direttive verticale e tre grandi livelli di
divisione del lavoro:
A. al livello inferiore si pone l’esecuzione materiale della produzione,
caratterizzata dall’assoluta assenza di qualsiasi intervento che esuli dal
più stretto controllo della normalità del flusso produttivo;
B. il livello intermedio è caratterizzato da una dettagliata analisi delle
procedure lavorative, nonché dalla ricerca di possibili migliorie
tecniche. L’intervento professionale è richiesto, al contrario del livello
inferiore, ma è comunque limitato al modo ottimale di esecuzione
degli ordini ricevuti;
C. al terzo livello, il più alto, vi è la massima dirigenza, che deve
occuparsi del funzionamento ordinario dell’impresa. Il compito
peculiare è quello di delineare le linee strategiche da seguire.
Il principio di eccezione trova così riscontro oggettivo nel permettere
il filtraggio ai livelli superiori solamente di quegli incidenti la cui soluzione
non è prevista per le competenze dei livelli inferiori. “Ma poiché la
frequenza degli incidenti è di norma inversamente proporzionale alla loro
gravità, ne deriva che man mano che si sale ai livelli superiori, il tempo da
dedicare all’esistente è sempre più ridotto e sempre maggiore diventa il
tempo da dedicare alla programmazione. Quindi, quanto più alto è il
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livello gerarchico, tanto più l’attenzione si volgerà non al presente, ma al
futuro dell’impresa”
3
.
Da quanto detto, perciò, il Taylorismo non si riduce ad essere solo un
modo di organizzare il lavoro operaio, ma va considerato come una vera e
propria concezione organizzativa completa. Attraverso l’eliminazione delle
cause di attrito e d’incomprensione che si creano tra datori di lavoro ed
operai, quindi, si favorisce l’instaurazione di un clima di cooperazione
necessario per aumentare il valore aggiunto dei loro sforzi.
Se ciò accade, l’operaio medio dell’industria accresce il suo rendimento e
ciò genera una serie di conseguenze che vanno, poi, a sfociare nel
miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e quindi della società.
Per raggiungere gli obiettivi prefissati, tutte le figure presenti all’interno del
modello tayloristico (operai, dirigenti, datori di lavoro) teoricamente
dovevano risolvere le proprie incomprensioni e cooperare (ognuno
secondo il proprio ruolo); sotto un profilo pratico, questo non si verificò.
La più importante applicazione del Taylorismo fu, infatti, il Fordismo,
chiamato così perché fu Henry Ford
4
il primo industriale che, nel 1913,
l’adottò come sistema organizzativo nella sua fabbrica di Island Park.
L’industriale americano, però, affiancò al taylorismo anche la
meccanizzazione spinta dei processi produttivi (che sfociarono poi nella
catena di montaggio) e la standardizzazione dei prodotti finali.
3
Bonazzi G., Op.Cit.
4
Capostipite e fondatore dell’attuale brand automobilistico americano, Henry Ford era solito dire: “Gli
americani possono avere la macchina di qualsiasi colore, purchè sia nero.” Nel 1913 introdusse la
catena di montaggio per la costruzione della Ford T, modello di punta della produzione Ford di cui
vendette 15 milioni di esemplari.
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In questo modo, egli riuscì ad abbinare la produzione in serie al consumo di
massa, in quanto (al contrario di Taylor) iniziò a considerare i lavoratori
non solo come fattori produttivi, ma anche come consumatori del prodotto
finale. Alla lunga, però, l'intensificazione del lavoro e l'alienazione dei
lavoratori portò a forme di resistenza sporadiche e prive di coordinamento,
ma in grado di condizionare un sistema produttivo reso vulnerabile dall'alto
grado di automazione e di complessità, infatti: “A partire dai primi anni
’20 in un numero sempre crescente di fabbriche statunitensi, organizzate
secondo i dettami tayloristici, cominciano a manifestarsi , in modo
spontaneo e diffuso, da parte degli operai resistenze all’osservanza degli
ordini impartiti. Nel tentativo di arginare questi comportamenti inattesi e
di ripristinare i livelli di efficacia ed efficienza stabiliti, le direzioni
aziendali intervengono esasperando controlli e sanzioni che determinano,
a loro volta, una risposta operaia caratterizzata da più forti reazioni. Si
instaura così un circolo vizioso tra organizzazione formale e
comportamento sociale.”
5
.
Tale scenario, sicuramente non positivo, divenne però terreno fertile
per l’insediamento e lo sviluppo di un’altra importante corrente teorica: la
scuola “Uomo ed Organizzazione”, in cui confluirono diverse correnti
teoriche (Relazioni Umane, I Motivazionalisti e Le Risorse Umane)
accomunate dal principio che non esiste organizzazione senza uomo.
I primi che svilupparono questo tema, nell’immediato secondo
dopoguerra, furono gli studiosi delle Relazioni Umane (con particolare
riferimento ad uno dei suoi principali esponenti, ovvero Mayo). Questa
5
Andrea Poggi, Organizzazione Aziendale, CEDAM, Padova, 1996.
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scuola, come pure le altre che la succederanno, contrariamente a quanto
molti pensano, non era in antitesi con le prescrizioni del taylorismo, ma ne
rappresenta il naturale proseguimento.
I cardini su cui si basa questa corrente di pensiero, infatti, erano presenti
anche nella costruzione teorica di Taylor, ma la loro importanza era
nettamente minore. Fu infatti l’evoluzione tecnica ad assegnare maggiore
rilevanza alle relazioni umane. In primo luogo, mentre nel taylorismo il
lavoro di squadra era un suggerimento che veniva dato all’esclusivo fine di
rendere il più gradevole possibile l’ambiente sociale interno, ora la
creazione di gruppi armonici di lavoro è un’esigenza dettata dalla necessità
tecnologica e, solo in secondo luogo, risponde a logiche sociali.
L’elemento caratterizzante di questa scuola, però, è un altro: l’importanza
dei rapporti informali. Era necessario sviluppare la sensibilità psicologica
dei quadri intermedi; le loro competenze non dovevano più rientrare solo
nel campo tecnico, ma essi dovevano imparare ad ascoltare. Di fronte alla
crescente spersonalizzazione del processo produttivo, dovuto
all’evoluzione tecnologica che sminuiva sempre di più l’importanza
dell’uomo, relegandolo progressivamente al ruolo di mero controllore,
diventava sempre più forte l’esigenza di recuperare il consenso operaio, e
questo era possibile, secondo gli studiosi della scuola delle Relazioni
Umane, grazie alla personalizzazione dei rapporti.
In altri termini, gli operai all’interno dell’officina non dovevano vedere i
propri superiori solo come supervisori del proprio lavoro, ma essi dovevano
rappresentare un vero e proprio punto di riferimento per qualsiasi necessità,
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dalla problematica squisitamente tecnica a quella che toccava in modo
diretto la sfera sentimentale.
E’ proprio il “sistema dei sentimenti” l’elemento sul quale puntare per
armonizzare l’obiettivo degli imprenditori con quello della classe operaia:
aumentare la produttività incrementando progressivamente la
discrezionalità data agli operai. Secondo la scuola delle Relazioni Umane,
infatti, i sentimenti sono in grado di influenzare e condizionare
direttamente la realtà e, proprio per questo, si doveva abbandonare la
visione meccanicistica, per lasciare spazio alla “flessibilità”. Non solo
l’uomo doveva adattarsi al lavoro, ma anche il lavoro e le strutture
dovevano essere in grado di adattarsi all’uomo.
Se volessimo dare un titolo alla relazione che lega queste due
importanti scuole di pensiero, utilizzando una metafora motoristica,
potremmo dire che “La Scuola delle Relazioni Umane è il lubrificante del
Taylorismo”
6
. Gli studiosi di tale scuola, partendo da un modello
estremamente rigido e meccanicistico come quello tayloristico ed avendone
potuto osservare le applicazioni pratiche sono intervenuti su quegli
“ingranaggi” che essi ritenevano essere i responsabili del di scostamento
dei risultati tangibili rispetto a quelli teorizzati.
Ulteriore sviluppo di queste teorie viene dato dai Motivazionalisti
(principalmente Maslow). Partendo dalle conclusioni della scuola delle
Relazioni Umane, essi affermano che se l’organizzazione è soddisfacente
per i lavoratori, allora, è anche più efficiente. Siamo negli anni ’50-’60,
6
Bonazzi G., Op.Cit.
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