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illustrate delle teorie sul processo di costruzione dell’identità di genere. In particolare
verrà descritta la teoria dello schema sessuale di Bem (1981).
La seconda parte della tesi sarà dedicata alla descrizione della ricerca in termini
empirici. In particolare, il terzo capitolo illustrerà i principali scopi che hanno mosso la
ricerca, le ipotesi di ricerca che l’hanno guidata, verrà presentato il questionario e le
procedure statistiche utilizzate nell’analisi dei dati.
Nel quarto saranno illustrate, sotto forma di tabelle, le caratteristiche più rilevanti del
campione. In particolare sarà presentata una descrizione dettagliata sull’attrazione
sessuale.
Nel quinto capitolo saranno presentati e discussi i risultati emersi dall’elaborazione
dei dati, in relazione ad alcune analisi statistiche, all’analisi discriminante, e all’analisi
classificatoria dei punteggi ottimali.
Nell’ultimo capitolo saranno trattate alcune considerazioni conclusive alla ricerca
presentata nella sua totalità.
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CAPITOLO 1
IL SUICIDIO
1.1 LA COGNIZIONE DELLA MORTE NEL BAMBINO E
NELL’ADOLESCENTE
La cognizione del dolore e della morte nasce spontanea lungo il processo di crescita
del bambino, maturando le difese dell’io durante il periodo più delicato e decisivo del
suo sviluppo; il concetto di morte fa parte del bagaglio di curiosità e di fantasia che il
bambino nutre nei confronti delle cose del mondo e costituisce l’indispensabile
premessa per un’adeguata costruzione delle sue difese.
Fin dagli studi pionieristici della psicoanalista Hellmuth (1912), molti dei ricercatori
e i clinici che si sono interessati all’analisi di questo aspetto dell’evoluzione psicologica
del bambino concordano nel ritenere che il concetto di morte subisce nei primi anni di
vita una profonda e progressiva trasformazione. In un suo fondamentale lavoro Lourie
(1966) sostiene che la prima esperienza riguardo alla morte avviene alla fine del primo
anno, in coincidenza con la separazione dalla madre: il bambino infatti stabilisce in
questa circostanza, seppure in una forma limitata dal punto di vista cognitivo,
l’equivalenza tra assenza e non-esistenza. Se la persona è assente, è come se non
esistesse più: per l’essere umano, dunque, il primo concetto di morte coincide con
quello di assenza. Immediatamente dopo, però, il bambino sperimenta la propria
capacità di controllo su questo evento: se è vero che la madre sparisce, può però tornare,
anzi la si può far tornare. Il bambino impara che si possono mettere in essere modalità
in grado di eliminare l’angoscia per la perdita proprio attraverso l’annullamento della
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mamma: chiude gli occhi o la rifiuta, “uccidendo” la causa del suo dolore; sparisce lui,
per difendersi dall’intollerabile dolore della scomparsa di lei. In questo primo stadio il
concetto di morte, essendo legato all’assenza-separazione, riguarda un evento
reversibile: la morte non interrompe tutte le funzioni vitali, il morto continua a sentire o
a vedere.
Una prima modifica del concetto di morte avviene tra i due e i quattro anni. Come ha
puntualizzato il neuropsichiatra americano MacLean (1990), il bambino comincia ad
avere paura della propria morte in quanto estensione di quella evocata dagli oggetti che
lo circondano, da un evento atmosferico, dal buio; il pensiero di morte può affiorare
anche in rapporto a un sentimento di frustrazione o di rabbia: in ogni caso indica una
più complessa percezione del proprio ambiente. Dopo i tre anni, l’idea di morte si
associa all’idea di violenza: le fantasie di morte vengono infatti rivolte a persone che,
pur costituendo per lui un importante legame affettivo, rappresentano il polo
d’attrazione della sua aggressività. Per il bimbo di questa età non sono più gli oggetti
inanimati l’origine della paura per la propria morte, ma i protagonisti animati della sua
più ricorrente fantasia. Dunque il concetto di morte è ancora dissociato dall’universalità
(un evento che riguarda tutti) e dalla causalità: le ragioni della cessazione della vita sono
ancora magiche e misteriose. Dopo i nove anni, l’idea di morte subisce un secondo e
fondamentale cambiamento: perde la sua connotazione di evento transitorio, di
strumento di violenza per essere vissuto come evento definitivo, universale e
irreversibile. Negli anni della preadolescenza infatti, sia secondo Speec e Brent (1984),
sia secondo Kane (1979), il concetto di morte è visto come causa della cessazione della
vita biologica e sensoriale di un essere umano: la morte diventa dunque attribuibile a
una persona diversa da sé. Queste teorie non si applicano a tutti i soggetti
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indistintamente: infatti non in tutti i bambini il concetto di morte subisce la
trasformazione descritta e non sono pochi i casi di preadolescenti o di adolescenti per i
quali la morte continua a rappresentare un evento non irreversibile. Si deve dunque
ritenere, come suggerisce Melear (1973), che l’età non sia l’unico fattore di riferimento
nell’analisi dello sviluppo del concetto di morte, ma devono quindi essere considerati
anche lo stato emotivo e lo sviluppo cognitivo. Alcuni ricercatori ipotizzano che proprio
il lento sviluppo delle capacità cognitive e la conseguente graduale maturazione del
concetto di morte nei primi anni di vita costituisca una delle spiegazioni del basso
numero di suicidi compiuti da bambini (Shaffer e Fischer, 1981). Infatti, secondo autori
come Nagy (1948) o la Pfeffer (1986), è solo nella prima fase dell’adolescenza che
l’idea di morte tende a comprendere anche i primi desideri riferiti alla propria morte:
essi cessano di rappresentare solo delle fantasie per giungere a configurarsi come la
soluzione possibile e concreta di un conflitto interiorizzato; perché possa tramutarsi in
atto, tale soluzione necessita tuttavia di una capacità cognitiva che si sviluppa
solitamente nella seconda fase dell’adolescenza: la capacità di programmazione
mentale, ovvero tutto quanto attiene alla capacità individuale di prevedere e controllare
le variabili ambientali e di sceglierne le più efficaci allo scopo desiderato.
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1.2 TEORIE INTERPRETATIVE DELLE CONDOTTE SUICIDARIE
ADOLESCENZIALI
L’adolescenza risulta essere un difficile cammino di iniziazione, individuazione,
trasformazione. In questo periodo le relazioni affettive assumono una importanza
fondamentale in quanto vengono messe in discussione le precedenti identificazioni con
le figure parentali. Vengono individuati dall’Io nuovi modelli identificativi e la
maggiore difficoltà sembra essere legata a vissuti conflittuali ed alle volte opposti fra
autonomia/dipendenza e individuazione/separazione. E’ questa la fase che potremmo
definire della separazione ed in cui il lutto e la morte rappresentano a livelli inconsci
significazioni positive e rivivificanti, come possibile soluzione di nuove attribuzioni di
senso, capaci di integrare anche l’esperienza della sofferenza. E’ però dalla solitudine
affettiva, identificativa, relazionale e dalla impossibilità a comunicare con l’altro che si
fa strada la risoluzione suicidaria, in quanto la relazione con le figure adulte risulta in
questa fase costellata di ambivalenze, di fughe e di ritorni, di colpa e di rabbia. La
rabbia risulta determinante nelle crisi adolescenziali, in quanto l’impossibilità di trovare
un oggetto verso il quale indirizzarla e che sia a sua volta in grado di tollerarla,
assorbirla e integrarla nell’esistenza dell’adolescente, può essere la chiave di lettura di
diverse situazioni in cui la stessa rabbia viene alla fine rivolta su di sé, con azioni
violente. Il comportamento suicidarlo in adolescenza può rappresentare, un grido di
aiuto drammatico, in quanto vi è l’impossibilità di identificare e trovare altre strade e
altri a cui rivolgersi. Le più importanti teorie sul suicidio si riferiscono concettualmente
a quelle sociologiche e a quelle psicologiche.
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1.2.1 L’APPROCCIO SOCIOLOGICO
Si tratta delle più note tra le teorie interpretative del suicidio, tali fin dallo scorso
secolo a seguito delle ricerche di Durkheim (1897). Secondo queste teorie, la condotta
suicidaria è influenzata e determinata da fattori esterni legati alle dinamiche
intersoggettive tipiche delle relazioni umane nell’ambiente familiare, lavorativo e
sociale. Il contributo del sociologo francese si è maggiormente concretizzato attraverso
la classificazione, divenuta ormai canonica, delle condotte suicidarie secondo quattro
tipologie principali:
9 il suicidio egoistico: riguarda chi ha perso qualsiasi legame con la società e
assume il significato di liberazione dalla costrizione di vivere;
9 il suicidio altruistico: occorre quando questa morte non avviene per un’esigenza
personale, ma della collettività;
9 il suicidio fatalistico: riguarda la persona che cerca attraverso la propria morte di
evadere da una situazione concreta ritenuta insopportabile;
9 il suicidio anomico: si riferisce alla morte di una persona che non è più in grado
di affrontare una crisi in modo razionale in presenza di un’alterazione dei suoi
legami con l’ordine sociale.
All’interno delle teorie sociologiche sul suicidio vi sono gli approcci socio-
psicologici che tengono in considerazione le variabili inter e intrapersonali. Viene qui
concettualizzato il suicidio dell’adolescente come un fenomeno sociale e psicologico
(Petzel e Riddle, 1981), in quanto collegato alle interazioni di molteplici fattori sociali
(conflitti familiari, adattamento scolastico e relazioni sociali) con fattori psicologici
(concetto di morte, disperazione, intenzione, motivazione). Tra le spiegazioni del
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suicidio adolescenziale vi è quella di Lester (1988) che interpreta i comportamenti
suicidari come “una funzione della qualità della vita”. Afferma l’autore che i popoli con
una migliore qualità di vita hanno percentualmente maggiori suicidi, collegando ciò alla
teoria secondo la quale “quando le persone scoprono che la causa dei loro problemi è
chiaramente all’esterno, è più probabile che diventino arrabbiati e aggressivi, e quindi
meno depressi e suicidari” (Barman e Jobes, 1991). Spiegando con ciò le possibili cause
dei suicidi in adolescenza, legati dunque alla impossibilità psicologica di esprimere
rabbia all’esterno da parte dei ragazzi (“ho tutto, non mi manca niente, dipende solo da
me, è tuta colpa mia”), nelle nostre benestanti società occidentali.
1.2.2 L’APPROCCIO PSICOANALITICO
La teoria psicoanalitica partendo da Freud (Lutto e Malinconia, 1917), interpreta il
suicidio come un’ostilità rivolta contro di se stessi attraverso l’autoaccusa e l’ideazione
suicidaria, tipiche delle depressioni melanconiche. Sempre Freud, avvicinando il
suicidio alle sue teorie espresse in “Al di là del Principio del Piacere” (1920), lega
l’istinto di morte ad un impulso istintuale primario presente in tutta la materia vivente
che spinge a ritornare verso uno stato di inerzia totale.
Seguendo la teoria analitica sull’ostilità e sull’istinto di morte, Menninger (1938)
traduce la psicodinamica dell’atto suicidario attraverso la relazione di tre fattori presenti
e concomitanti fra di loro: il desiderio di uccidere, il desiderio di essere uccisi e il
desiderio di morire. Tali “desideri” porterebbero comunque l’Io all’agito, in quanto uno
dei tre ha sempre un ruolo predominante.
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Per Jung (1959), invece, il suicidio rappresenterebbe il vissuto di un atto magico e
onnipotente di regressione verso la rinascita di un nuovo Sé e verso un desiderio di
rinascita verso una vita nuova e migliore.
Altre teorie analitiche interpretano il suicidio come l’unica possibilità per risolvere i
conflitti di separazione e individuazione (Wade, 1987), o come reazione ad una
soffocante relazione oggettuale primaria attraverso la separazione del Sé con il suicidio,
con l’idea di un sollievo estremo dalle emozioni dolorose (Jan e Tausch, 1963), o come
mezzo di regressione verso la sicurezza dello stato simbiotico primario contro i
sentimenti depressivi legati a vissuti abbandonarci e di separazione (Wade, 1987).
Secondo l’autore, in tal modo, “il suicidio può rappresentare una risoluzione della fase
di separazione-individuazione dalle figure genitoriali, ristabilendo l’equilibrio
narcisistico.
1.2.3 L’APPROCCIO EVOLUTIVO
La teoria evolutiva focalizza l’attenzione direttamente sul suicidio adolescenziale:
per Barman (1984), l’adolescente subisce l’evoluzione di due mondi, il bisogno di
autonomia e di indipendenza in contrasto con la necessità e il desiderio di dipendere e
essere parte integrante della famiglia. Vi è qui l’interazione con il sistema familiare nel
processo evolutivo dell’adolescente e ciò può portare a sentimenti di abbandono e
rabbia, che possono generare conseguentemente acting-out autodistruttivi (Shapiro e
Friedman, 1987).
Sempre seguendo le tracce delle teorie evolutive, Emery (1983) descrivendo lo
sviluppo della personalità del minore nelle sue varie fasi che esprimono di volta in volta
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comportamenti di protesta, di disperazione e di distacco, afferma che nello sforzo
relativo alla formazione dell’identità può emergere una sintomatologia depressiva che
può portare a sua volta a comportamenti suicidari.
1.2.4 L’APPROCCIO DEI SISTEMI FAMILIARI
Nelle teorie dei sistemi familiari, interessante ci appare la valutazione dell’influenza
potenziale della psicopatologia dei genitori e del peso dei loro desideri consci e inconsci
di “eliminare” il figlio, la cui reazione potrebbe essere un acting-out suicidario. Sabbath
(1969), traendo spunto da questa teoria, ipotizza il “bambinosacrificale”, spinto
all’autodistruzione da un sistema familiare patogeno una volta raggiunta l’adolescenza.
Un altro autore Richman (1984), sostiene che, le condotte suicidarie adolescenziali
sono spesso in relazione con una serie di indicatori di problemi familiari: conflitti dei
ruoli, forte attenuazione nella divisione di essi, legami basati su alleanze disfunzionali,
comunicazioni rese criptiche, rigidità e incapacità ad accettare di cambiare o di tollerare
una crisi.
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1.3 INCIDENZA DEL TENTATO SUICIDIO TRA GLI
ADOLESCENTI
Nonostante ci siano differenze tra gli adolescenti che tentano il suicidio e adolescenti
che lo completano, un precedente tentato suicidio è un fattore predittivo importante per
un eventuale suicidio (Shaffer, Garland, Gould, Fisher e Trautman, 1988). In un recente
studio (Lecomte e Fornes, 1998), un terzo dei giovani che morirono a causa del suicidio,
avevano precedentemente tentato di togliersi la vita almeno una volta.
Gli adolescenti che provano a togliersi la vita sono a rischio per un eventuale
completo suicidio, poiché una precedente esperienza di tentato suicidio
sensibilizzerebbe una persona al suicidio collegandolo ai suoi pensieri ed al suo
comportamento (Beck, 1996). Secondo Beck, il comportamento orientato al suicidio
renderebbe gli schemi cognitivi del suicidio più accessibili e verrebbero attivati più
facilmente in situazioni stressanti. Una volta che il tabù del pregiudizio viene meno,
diventa facile per l’adolescente vedere il suicidio come possibile via per superare i
problemi della vita. Per questo motivo risulta essere molto importante non sottostimare i
fattori che conducono una persona a togliersi la vita.
I tassi di tentato suicidio durante l’adolescenza aumentano vertiginosamente
(Kessler, Borges e Walters, 1999). Borst, Noam e Bartok (1991) sostengono che con
l’avvento della pubertà, la riorganizzazione sociale e cognitiva porta ad una attribuzione
interna dell’infelicità, rispetto ad un’attribuzione esterna degli anni precedenti. Questo
spostamento di attribuzione porta a una maggiore responsabilità da parte del ragazzo nei
confronti delle situazioni stressanti e in alcuni adolescenti tutto questo ha come risultato
il comportamento suicidario.
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Negli ultimi quarant’anni, il tasso di tentato suicidio da parte degli adolescenti è
incrementato drammaticamente (CDD, 1995). Per esempio dal 1985 al 1995, in Gran
Bretagna, i tentati suicidi sono aumentati circa del 200% nei ragazzi tra i 15 ed i 24 anni
(Hawton, Fagg, Simkin, Bale e Bond, 1997). Nell’arco di un periodo di
approssimativamente 12 mesi, il 20,5% degli adolescenti negli Stati Uniti considera
seriamente di tentare il suicidio, il 15,7% sviluppa un piano per suicidarsi, il 7,7% ha
tentato il suicidio e il 2,6% ha tentato di togliersi la vita in un modo che richiede
l’intervento medico (CDC, 1998).
Brenner, Krug e Simon (2000) esaminarono i dati raccolti in scuole superiori negli
anni 1991, 1993, 1995 e 1997. Il numero di studenti che riportarono di stare seriamente
considerando il suicidio e di progettare un piano per togliersi la vita diminuì
significativamente dal 1991 al 1997. Tuttavia, il numero di studenti che riportarono un
tentato suicidio che richiedeva l’attenzione del medico. Andrews e Lewinsohn (1992)
raccolsero i dati in una scuola superiore per bianchi nell’Oregon. I dati iniziali furono
raccolti nel 1985. Gli autori trovarono che su un campione di adolescenti dai 14 ai 18
anni, il 10.1% delle ragazze aveva tentato il suicidio, contro il 3.8% dei ragazzi. Questa
differenza tra i due generi fu trovata anche all’interno dei campioni utilizzati nelle
ricerche avvenute nelle cliniche e nelle comunità. Di questi tentati suicidi, il 31%
avviene tra i 16 ed i 17 anni, il 44% tra i 14 ed i 15 anni, il 19% tra i 12 ed i 13 anni ed
il 15% tra i 10 e gli 11 anni.
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1.4 PARAGONI INTERNAZIONALI
Tra il 1987 e il 1991-1992 il suicidio nei paesi dell’est Europa è aumentato, in
contrasto con la diminuzione avvenuta negli altri paesi europei.
Lester e colleghi (1997) sondarono i dati del Regno Unito e dell’Irlanda dal 1960 al
1990. Notarono che mentre in Irlanda, nell’Irlanda del nord e in Scozia c’era un
aumento dei tassi di suicidio, in Scozia ed in Galles c’era una diminuzione. Questi
lavori suggerirono che sarebbero potute emergere preziose similarità o differenze nei
dati quando si studiano nazioni simili. Dati storici raccolti da Diekstra (1995)
supportarono più avanti questi suggerimenti. Furono presentati i tassi di suicidio dal
1881 al 1988 di 16 paesi europei. Il grado dei tassi di suicidio rimane relativamente
costante. I dati trovati suggeriscono che il tasso di suicidio sono determinati da
persistenti differenze nazionali, includendo le tradizioni, i costumi, la religione attitudini
sociali e il clima. Questi studi si estesero ad altre nazioni: il sud Europa, comprendendo
la Grecia, l’Italia, il Portogallo e la Spagna; l’Europa occidentale, includendo, l’Austria,
il Belgio, la Francia, la Germania, l’Olanda e la Svizzera; e la penisola scandinava,
comprendendo la Danimarca, la Finlandia, la Norvegia e la Svezia. Questi sottogruppi
sono stati selezionati intuitivamente, ma sono supportati dalle ricerche di Diekstra
(1995) nell’Europa occidentale e nella penisola scandinava; i tassi di suicidio sarebbero
di più elevata portata rispetto al sud Europa, al Regno Unito e all’Irlanda, anche se
questo sotto gruppo è aperto a cambiamenti antropologici. Per esempio, la Finlandia ha
similarità culturali con l’Ungheria ed entrambe le nazioni hanno alti tassi di suicidio,
nonostante questo, anche nell’analisi che seguirà la Finlandia sarà classificata come la
penisola scandinava. I dati furono raccolti da Lester e Yang (1998) e