II
sanzione penale: il bilanciamento degli interessi in conflitto, la
rilevanza e l’adeguatezza sociale della condotta, il principio di non
contraddizione.
Sarà, quindi, necessario dare rilievo alla diatriba teorica che da
sempre ha diviso (e tuttora continua a dividere) la dottrina giuridica in
materia penale, riguardo la necessità – o di contro la superfluità – di
un’espressa previsione della scriminante dell’esercizio del diritto nel
nostro sistema normativo.
Ecco perché si è ritenuto importante soffermarsi, già in apertura
del lavoro, ad esaminare le soluzioni adottate dagli altri Paesi
nell’inquadramento sistematico e nell’applicazione dell’esimente in
esame; ognuno di questi – si vedrà – presentando un diverso substrato,
non solo giuridico ma anche storico-culturale, ha accolto una
soluzione che è più o meno vicina a quella scelta dal nostro legislatore
penale nella prima metà del secolo scorso.
Nel secondo capitolo si affronterà la spinosa tematica del
conflitto apparente tra la norma incriminatrice e la norma scriminante;
quel conflitto che si verrebbe a delineare nella nostra sfera d’esame
quando, da una parte, una norma giuridica facoltizzi o addirittura
imponga un comportamento e, dall’altra, una diversa norma giuridica
III
preveda e sanzioni penalmente lo stesso contegno, assoggettandolo ad
una pena.
Sarà interesse dello studioso cogliere la chiave che il nostro
ordinamento giuridico fornisce per la risoluzione di tali antinomie
giuridiche, valutando caso per caso i diversi criteri utili al
superamento di quello che ‘appare’ un conflitto normativo
insuperabile tra una norma autorizzativa ed una norma incriminatrice.
Né può tacersi l’importanza, ai fini della determinazione
dell’ambito che la scriminante in parola riesce a ritagliarsi nei
confronti delle contrapposte fattispecie incriminatrici,
dell’individuazione di un concetto quanto più possibile puntuale del
termine diritto: il nostro legislatore penale, certo, nella redazione
dell’art. 51 c.p. non sembra essersi curato troppo di fornire un
apprezzabile contribuito alla chiarezza; anzi l’aver usato una
formulazione normativa suscettibile di diverse interpretazioni ha
determinato il sorgere di diverse scuole di pensiero per la definizione
della nozione in discorso. Dar seguito ad una corrente interpretativa o
ad un’altra non sarà una scelta priva di conseguenze, in quanto dalla
diversa definizione del termine diritto discenderà una maggiore o
minore ampiezza applicativa della scriminante de qua, con una
IV
consequenziale estensione o compressione della sfera d’impunibilità
prevista dall’ordinamento giuridico.
Altra questione con la quale ci si dovrà confrontare sarà quella
attinente alla definizione delle fonti del diritto il cui esercizio
scrimina, ed a tal fine sarà importante valutare con attenzione i riflessi
di ogni soluzione adottata sul principio costituzionale di legalità. In tal
modo potrà, inoltre, determinarsi una scelta nell’ambito
dell’alternativa tra il considerare la scriminante dell’esercizio del
diritto una ‘scriminante completa’ oppure ritenerla una ‘norma penale
in bianco’.
Sarà solo la legge extrapenale la fonte del diritto scriminante o
pure quella penale? È solo uno degli interrogativi che dividono la
dottrina sul punto, a questo si aggiungono i dubbi inerenti alla
possibilità di assurgere a fonte scriminante la sentenza del giudice,
l’atto della pubblica amministrazione, una consutudine, una norma
canonica, una direttiva comunitaria, tanto per citare alcune tra le
figure più discusse che meritano un serio approfondimento.
Il terzo capitolo si preoccuperà di dipanare il complesso nodo
teorico delle modalità attarverso le quali deve essere esercitato il
diritto scriminante, affrontando la spinosa questione della definizione
dei limiti entro i quali deve restare la condotta per non essere colpita
V
dalla scure della sanzione penale. Si dovrà dar conto della teoria
sostenuta da alcuni penalisti, circa una non completa corrispondenza
tra il contenuto del diritto e l’esercizio dello stesso, con la
conseguenza della possibilità dell’esercizio ‘illegittimo’ di un diritto.
Si porrà attenzione alla discussa pluralità di concezioni che
vorrebbero accompagnato l’esercizio del diritto da un preciso requisito
perché possa andare esente dalla responsabilità penale, facendosi
quindi riferimento allo stato di necessità in cui dovrebbe trovarsi il
soggetto agente, alla proporzione tra l’interesse che si mira a
soddisfare e quello leso dalla condotta tenuta dal titolare del diritto, al
nesso teleologico utilitario tra la condotta dell’agente ed una
fattispecie di reato.
Sarà importante, nel prosieguo dell’analisi, mettere in luce i
limiti interni ed esterni che incontra nel sistema il diritto ed il suo
esercizio, discettando così della possibilità che anche in materia
penale possa o meno avere diritto di cittadinanza il concetto
dell’abuso del diritto. In tal senso dovrà contemplarsi la possibilità
che possano essere ricomprese sotto tale previsione alcune figure quali
l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, o gli atti emulativi.
Dall’impianto scelto per la formulazione dei limiti del diritto
VI
scriminante discenderà quello per un corretto inquadramento del
fenomeno dell’eccesso colposo e doloso della figura in esame.
Si valuterà l’ipotesi putativa nel caso in cui si registri l’erronea
supposizione dell’esercizio del diritto, e l’analisi dovrà focalizzare
l’aspetto peculiare dell’errore in seno a tale figura esimente: sarà
rilevante l’errore su un elemento di diritto nel nostro sistema
penalistico che ha tra i suoi fondamenti il principio ignorantia legis
non excusat?
Altro aspetto meritevole di specifica attenzione è quello
riguartante la questione dell’applicabilità del procedimento analogico
prima alle norme scriminanti tout court, e poi con particolare
riferimento alla scriminante dell’esercizio del diritto; al riguardo dovrà
valutarsi la fondatezza teorica del meccanismo della c.d. analogia
indiretta, che troverebbe nell’art. 51 c.p. amplissima applicazione,
intendendosi con tale locuzione la possibilità che la norma penale de
qua, rinviando ad una norma extrapenale suscettibile d’interpretazione
analogica, ne detti l’automatica ammissione anche per il precetto
penale.
Nel capitolo quarto, avendo già tracciato un quadro chiaro del
fondamento teorico e della valenza della scriminante nel nostro
VII
ordinamento giuridico, si dovrà dare seguito alla ricerca individuando
le diverse applicazioni dell’art. 51 c.p. nella realtà concreta.
Dovranno, in primis, essere messe in luce tutte le forme
attraverso le quali trova estrinsecazione la libertà di manifestazione
del pensiero prevista e garantita dall’art. 21 della Costituzione; quindi
l’attenzione andrà soffermata sul diritto di cronaca giornalistica,
constatandone la funzione sociale ed i limiti che necessariamente
incontra nel nostro sistema giuridico che – com’è noto – non presenta
alcun diritto assoluto, illimitato.
Espressione della stessa libertà costituzionale è pure il diritto di
critica, nonché quello di satira, entrambi accomunati dall’idoneità a
scriminare – grazie all’art. 51 c.p. – la condotta di coloro i quali, nel
rispetto di determinati limiti stabiliti dall’ordinamento, esprimono
pensieri che intaccano sicuramente la reputazione altrui, l’onore, la
dignità; è per questo che occorrerà valutare con attenzione fin dove si
potrà spingere il critico per essere coperto dalla scriminante de qua e
non incappi così in alcuna responsabilità penale per quanto afferma.
Nel sostenere che, nell’esercizio del diritto di sciopero, occorre
rispettare dei limiti si è tradizionalmente ritenuto che l’astensione dal
lavoro non integri alcuna fattispecie di reato – già all’indomani
dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana e prima ancora
VIII
delle pronunce di illegittimità della Consulta negli anni sessanta –
grazie alla scriminante dell’esercizio del diritto; la questione che però
merita maggiore attenzione sarà quella del difficile inquadramento
delle azioni sussidiarie all’esercizio del diritto di sciopero, le c.d.
forme di ‘lotta dura’: saranno anche queste scriminate dall’art. 51
c.p.?
La tradizione giuridica impone che si faccia riferimento all’art.
51 c.p. per escludere la illiceità della condotta dei genitori che usino
metodi educativi particolarmente severi o rigidi per educare i propri
figli: occorrerà valutare fino a che punto l’evoluzione sociale, prima
ancora che giuridica, consenta ai giorni nostri il ricorso da parte dei
genitori a metodi che, più che soltanto “severi”, sono spesso
meramente violenti, con conseguente dubbio circa la possibilità di
copertura dello ius corrigendi sotto la previsione scriminante
dell’esercizio del diritto.
Un’altra questione aperta è la riconducibilità alla scriminante in
esame degli offendicula. La nostra trattazione prenderà spunto sì dal
portato della nostra tradizione giuridica ma, come sempre, tenterà di
non appiattirsi acriticamente sulle posizioni di questa: si andrà,
pertanto, ad indagare sulla fondatezza teorica di una tale concezione,
partendo dall’interrogativo che divide la dottrina, circa la possibilità di
IX
ritenere le ferite procurate a terzi dagli offendicula esenti da
responsabilità penale perché espressione di legittima difesa o di
esercizio del diritto.
Infine, il quinto capitolo si occuperà della valutazione circa la
possibilità che alcune delle ipotesi più significative di scriminanti
tacite conosciute dal nostro ordinamento giuridico possano essere
ricondotte all’esimente de qua. Si indagherà, conseguentemente, sul
fondamento socio-giuridico che determina l’esclusione dalla
responsabilità penale per il medico che esegue un intervento
chirurgico procurando delle lesioni; allo stesso modo, si cercherà di
determinare l’ampiezza della sfera di liceità che il sistema giuridico
deve riconoscere ai consociati che praticano attività sportive violente
autorizzate, per scongiurare la possibilità che si debba rispondere per
le ferite causate a terzi; e, per chiudere il novero dei casi classici, si
prenderà in esame la possibilità che le agenzie d’informazioni
svolgano il loro lavoro senza incappare nella responsabilità penale
della lesione dell’altrui reputazione.
Ultima – ma non certo per ordine di importanza teorico-pratica
– sarà l’indagine sull’esercizio del diritto di difesa tecnica: sul punto,
occorre valutare con particolare attenzione fin dove è giusto che si
spinga l’avvocato nell’esercizio del ministero di difesa (espressione
X
del diritto dell’assistito) per non travalicare i confini della liceità, e
dunque chiedersi a quali condizioni il legale potrà operare sotto
l’egida dell’art. 51 c.p. e quando, invece, commetterà il reato di
favoreggiamento.
1
CAPITOLO I
NATURA GIURIDICA DELLA SCRIMINANTE
DELL’ESERCIZIO DEL DIRITTO
1. L’esercizio del diritto attraverso la storia
La storia del principio che afferma l’esclusione del reato quando
si agisce nell’esercizio d’un diritto racconta il lento formarsi,
attraverso i secoli, di un concetto che soltanto in alcuni codici penali
odierni trova esplicita, generale ed adeguata formulazione
1
. Infatti,
questo principio – come ogni altro destinato a divenire regola generale
di un numero indeterminato di casi che si verificano nella vita sociale
– si forma attraverso l’analisi, la selezione e la sintesi delle
caratteristiche costanti riscontrabili nelle regole specifiche valide per
un numero di casi in continuo aumento
2
.
1
Alla genesi dell’istituto in esame la dottrina non ha dedicato l’attenzione che esso avrebbe
richiesto: resta, pertanto, ancora oggi fondamentale il contributo di CAVALLO, L’esercizio del
diritto nella teoria generale del reato, Napoli, 1939, passim, cui si deve il richiamo a molte delle
opere più risalenti riportate nelle note successive. Interessanti cenni anche in REGINA, voce
Esercizio di un diritto e adempimento di un dovere, in Enc. Giur. Treccani, XIII, Roma, 1989. p. 1
ss.
2
Il diritto sorge per regolare singoli casi pratici, ma la coscienza giuridica, quando riconosce che
da un numero indeterminato di essi, per l’esistenza di note comuni, sono reclamate regole che
presentano delle caratteristiche identiche che si ripetono costantemente, le universalizza per
costruire una regola generale, ed allora non ha bisogno di dettarne una per ogni caso, perché
questi, man mano che si verificano, quando presentano quelle note, trovano la loro regola nel
principio generale.
2
Già nel diritto ebraico era esclusa l’esistenza del reato
nell’uccisione del ladro colto, prima del sorgere del sole, nell’atto di
fare uno scasso
3
.
E così anche nel diritto greco era esclusa la punibilità di chi
uccideva l’usurpatore dei diritti popolari degli Ateniesi, perché una
legge di Solone lo dichiarava “innocente e puro”
4
.
Il diritto romano – col geniale intuito giuridico di quel popolo –
intravide il principio prima di ogni altro e, per quanto genericamente,
lo formulò. Più che fare riferimento all’abusato brocardo “qui iure suo
utitur neminem laedit”, la regola è espressa con particolare chiarezza
in un passo del Digesto, in cui si afferma che «colui il quale si serve
del diritto pubblico non sembra che lo faccia per recare offesa, perché
l’esecuzione del diritto non contiene iniuria»
5
. Considerando il
concetto romano di iniuria, che si riferisce a qualsiasi fatto contra ius,
bisogna riconoscere il valore grandissimo del principio che per secoli
è rimasto nell’ombra; si è dovuto attendere il secolo XVIII per vederlo
affiorare esplicitamente nelle legislazioni.
Però anche i Romani – nella pratica – non valorizzarono il
principio de quo come meritava, poiché rimase una pura massima
3
V. Exodus, Cap. XXII, § 2: “Se il ladro, colto nell’atto di fare uno scasso, è percosso e muore,
non v’è delitto d’omicidio”.
4
Cfr. THONISSEN, Le droit penal de la Republique Athenienne, Paris, 1885, p. 251 ss.
5
V. Digesto, XLVII, 10, 13, §1: «is, qui iure publico utitur, non videtur iniuriae faciendae causa
hoc facere: iuris enim executio non habent iniuriam».
3
teorica, avendo anche essi regolato specificamente i singoli casi col
dichiarare l’esclusione della pena quando l’agente agiva nell’esercizio
del diritto
6
.
L’evoluzione del principio ristagna completamente nel diritto
penale germanico, che detta delle regole per casi determinati. Ed
infatti si riscontrano varie disposizioni in cui è dichiarata l’esclusione
della pena del reato, quando l’agente agisce nell’esercizio di un diritto,
ma non si riscontra una formulazione generale del principio
7
.
Neppure nel diritto canonico si ha una formulazione della
regola generale, anche qui si registra tutta una serie di disposizioni che
6
Così veniva esplicitamente riconosciuto il diritto di uccidere un individuo colto a rubare di notte
dalla Legge delle 12 Tavole, VIII, 12: «si nox furtum faxsit, si im occidit, iure caesus est, nonché
Digesto XLVIII, 8, 9: furem noctorum si quis occiderit, ita demum impune feret, si parcere ei sine
periculo suo non potuit»; si è sostenuto però che siano interpolazioni del passo le parole “ita
demum” e “sine periculo suo non potuti”: sull’argomento cfr. BRASSLOFF, in Sozialpolitische
Motive in der romischen Rechtsenwiklung, Wien, 1933, p. 41, n. 71. Ed infine era riconosciuto il
diritto di esercitare le proprie ragioni e di difendere la proprietà, escludendo la pena pei reati che
nell’esercizio di esso si fossero commessi, il diritto di uccidere l’adultero, ed il diritto al derubato
di togliere la cosa propria anche con violenza al ladro fuggitivo, cfr., FERRINI, Esposizione storica
del diritto penale romano, in Enc. dir. pen. it., a cura del PESSINA, vol. I, p. 74 ss.; ID., Diritto
penale romano, Milano, 1859, p. 161.
7
Così dal momento che la legge autorizzava il diritto della faida, si dichiarava esente da pena chi
avesse ucciso l’homo faidosus, v. sul punto CALISSE, Svolgimento storico del diritto penale in
Italia dalle invasioni barbariche al secolo XVIII, in Enc. dir. pen. it., a cura del PESSINA, vol. II, p.
232; parimenti non rispondeva di reato chi violentemente impediva ad altri di penetrare nel suo
terreno chiuso quando il raccolto era maturo: si quis messem suam aut pratum seu qualibet
clausura vindicanda homini prohibuerit, id est antesteterit ut non ingrediatur, non sit culpabiles
sicut ille qui hominem sempliciter viam ambolantem antesteterit, eo quod laborem suum
vindicavit. V. anche, DI TOCCO, in Lombarda, I, 15, 3, dove in glossa Culpabilis commenta: per
hoc quidam male dixerunt quod imo debet esse culpabilis in aliquo, sed non est, ita, quia nemini
iniuriam, sed tantum rem suam vindicavit et hanc legem intellige, ubi qui ingredi prohibetur
nullam habet ingrediendi causam. Così, ancora, non era considerato reato l’entrare in casa altrui
contro la volontà del padrone per rivendicare una cosa propria che vi si trovasse nascosta; né si
condannava chi uccideva coloro che, facendo parte di una sedizione potevano attentare a togliere il
peculium.
4
si riferiscono a casi determinati
8
.
La situazione si presenta identica nel diritto statutario, ove
trova implicita vita in casi specifici previsti e disciplinati ad hoc
9
.
I codici del secolo XVIII si modellano sul codice francese
successivo alla rivoluzione del 1789, la quale mentre con la
restaurazione dei diritti dell’uomo avrebbe dovuto formulare il
8
Così è indicata tra le varie cause di uccisione, in modo indistinto, come esercizio di un diritto o
adempimento di un dovere, l’obbedienza da parte del giudice e del carnefice, veniva dichiarato
esente da pena chi uccideva alcuno in virtù di una facoltà concessagli dalla legge, v. GRAZIANO,
Decretum II, c. 41. C. XXIII, qu. 5: si homicidium est hominem occidere, potest occidere
aliquando sine peccato. Nam et miles hostem, et iudex vel minister eius nocentem et cui forte
invito atque imprudenti telum manu fugit, non michi videntur peccari cum hominem occidunt. Sed
nec etiam homicidae isti appellari solent. E parimenti era esclusa la punibilità di coloro che per
zelo verso la madre Chiesa uccidevano gli scomunicati, v. GRAZIANO, Decretum, c. 42. C. XXIII,
qu. 5: non sunt homicidae qui adversus excommunicatos zelo matris ecclesiae armantur.
Excommunicatorum interfectoribus (prout in ordine Romanae ecclesiae didicisti) secundum
intentionem modum congruae satisfactionis iniunge. Non enim eos homicidas arbitramur, quos,
adversus excomunicatos zelo cattolicae matris ardentes, aliquos eorum trucidasse contingit. Ne
tamen eiusdem ecclesiae matris disciplina deseratur, tenore, quem diximus, poenitentiam eis
indicito congruentem, qua divinae simplicitatis oculos adversus se complacare valeante si forte
quid duplicitatis pro humana fragilitate in eodem flagicio incurrerint.
9
Sul punto cfr. CALISSE, op. cit., p. 232 ss.; PERTILE, Storia del diritto italiano, Milano, 1892, vol.
V, passim. Così in molti statuti si dichiara esente da pena l’omicidio commesso nell’esercizio del
diritto all’inviolabilità del domicilio, tanto se l’ucciso era entrato nei recinti domestici, quanto se si
aggirava intorno ad essi con fare sospetto per attendere il momento di penetrarvi, ad es. v. Statuta
Parmae, 1255, in Monumenta Historica ad provincias Parmenses et Piacentiam pertinentia,
Parma, 1868, p. 279: si quis aliquem in nocte invenerit in domum suam furtive sive absconse et
eum ferierit vel interfecerit vel aliquis de sua familia, vindictam in eum non faciam; v. pure Statuta
Veronae, 1450, vol. III, 40; Statuta Ferrariae, III, 79; Statuta Aviani, c. 47; Statuta Cenedae,
1339, III, 95. Così pure erano dichiarate impunite, perché considerate commesse nell’esercizio del
diritto della patria potestà, dell’autorità maritale, o del diritto di correzione, le percosse che il
marito infliggeva in danno della moglie, il padre in danno dei figli, il padrone in danno degli
schiavi, dei domestici e dei giornalieri, ed il maestro in danno dei discepoli, v. Statuta Florentiae,
1415, III, 32: impuniti...si fuerit commissum aliquod gravem maleficium, pater et mater qui filio
offensam fecerit, vir uxori, domina vel dominus vassallo, famulo, famulae, sclavo, sclavae,
magister discipulo, frater carnalis, vel patruelis fratri vel sorori, soror fratri, avunculus vel
patruus nepoti; ed infine erano dichiarati impuniti coloro che commettevano dei delitti per
particolare finalità degne di considerazione, cfr. TIBERIO DECIANO, Tractatus criminalis VI, XLIV,
17: «l’azione volontariamente compiuta può andare esente da pena o essere meno gravemente
punita se essa fu compiuta per fini giuridicamente apprezzabili. Così non incorrerà nella pena del
delitto di violazione di sepolcro il chirurgo o lo scolaro che assumerà dei cadaveri ut ex eis fiat
anatomia, e ciò per una ragione di pubblica utilità ut medici in curandis corporis fiant peritiores,
(...) in iis quae fiunt favore repubblicae nulla fit iniuria». Sarà scusato pure il delitto di corruzione
se compiuto bono zelo per evitare danno allo Stato, scusata ed esente da pena l’uccisione
dell’assassino se compiuto anch’esso bono zelo, v. ID., Lettore di diritto, consulente, criminalista,
Bologna, 1934, p. 114.
5
principio nella sua ampiezza, si limita invece ad affermare che «non vi
è reato quando il fatto è ordinato dalla legge e comandato
dall’Autorità».
In tali codici il principio difetta di un’autonoma formulazione
perchè, richiedendosi insieme l’ordine della legge e il comando
dell’Autorità per dichiararsi il fatto non punibile, non è distinto
l’esercizio del diritto dall’adempimento del dovere. Inoltre esso ha una
sistemazione imperfetta, perchè è situato nella parte speciale, ed
infine, essendo riferita solo ai reati contro la persona è, quindi,
limitato nella sua applicabilità
10
. L’evoluzione del principio in tali
codici segna certamente un progresso, perchè esso viene formulato in
una disposizione generale, ma non va oltre la fase a cui erano già
pervenuti i Romani; anzi, dal punto di vista della formulazione la fase
può dirsi più involuta perchè sono insieme associati per l’esclusione
del reato l’ordine della legge ed il comando dell’Autorità e quindi il
diritto è confuso con il dovere.
10
Così cfr. il Codice Penale per gli Stati di Sua Maestà il Re di Sardegna del 20 novembre 1859,
Titolo X: “Dei reati contro le persone e la proprietà”, Cap. I “Dei reati contro le persone”, Sez. IV,
“Degli omicidi, ferite e percosse non imputabili”, art. 558: “non vi è reato quando l’omicidio, le
ferite o le percosse, sono ordinate dalla legge e comandate dall’Autorità legittima”. Identicamente
dispone l’art. 558 del Codice Penale esteso alle province napoletane ed in vigore dal 1 luglio 1861.
Tale impianto si ritrova pure nel Codice Penale per le Due Sicilie all’art. 372: “non vi è crimine,
quando l’omicidio, le percosse o le ferite erano ordinate dalla legge e comandate dall’Autorità
legittima”; così pure il Codice Parmense all’art. 355 ed il Codice degli Stati Estensi che lo sancisce
all’art. 378.