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ad una nuova visione del vantaggio competitivo, legato alla complementarità/coerenza tra le
attività strategiche basilari. A maggior ragione il capitolo introduttivo, descrivendo le
discontinuità con le precedenti teorie, aiuta una maggior comprensione della nuova. Infine si
applicano gli strumenti della teoria ad un caso pratico, valutando sia aspetti statici che aspetti
dinamici (Capitolo 3). L’azienda esaminata è la Baxi SpA di Bassano del Grappa. Le
conclusioni finali chiudono l’elaborato con considerazioni personali sul modello.
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La presentazione dei modelli segue un ordine cronologico. I primi studi sistematici sulla
ricerca delle cause di un vantaggio competitivo sostenibile si hanno a partire dagli anni ’60 nella
cornice della Scuola Havardiana, che formula un primo grande schema di riferimento per
l’analisi ambientale e per la pianificazione strategica: la matrice SWOT (Strenghts – Weaknesses
– Opportunities – Threats). L’analisi e la valutazione della situazione dell’azienda rispetto ai
concorrenti conduce alla definizione di punti di forza e di debolezza, mentre l’analisi
dell’ambiente esterno porta a individuare le opportunità e le minacce che potranno impattare
sulla formula imprenditoriale dell’impresa. I risultati, poi, dovranno essere aggiornati di volta in
volta per rendere le scelte strategiche consone ai mutamenti ambientali. Il framework SWOT
nasce e si sviluppa in un contesto storico che, grazie a una relativa stabilità ambientale, favorisce
l’impiego di metodologie fondate sulla convinzione che sia possibile conoscere a fondo la realtà
grazie a strumenti analitici, prevederne i cambiamenti e conseguentemente formulare una
strategia idonea e di successo.
Questa impostazione trova, però, dei limiti quando il contesto competitivo delle imprese si fa
più complesso e dinamico e l’accelerazione dei cambiamenti rende difficoltoso e oneroso
l’aggiornamento dell’analisi, che di per sé tende a fissare i punti di forza e debolezza. Inoltre si
hanno dei limiti applicativi, che riguardano prevalentemente il rischio fisiologico di
incompletezza delle informazioni sui concorrenti e l’altrettanto fisiologica soggettività nel
passaggio dal momento analitico di raccolta e classificazione dei dati e la valutazione sintetica
dei quattro punti della matrice.
Negli anni ’80 prende corpo il pensiero di Michael E. Porter, che domina la scena
formalizzando un modello di generazione e mantenimento del vantaggio competitivo tuttora
accolto e applicato nella realtà aziendali. L’essenza dell’impostazione è prendere come punto di
riferimento il settore in cui opera l’impresa: qualunque valutazione dovrà avere come pietra di
paragone l’andamento dei concorrenti e del settore. Infatti, il punto di partenza è determinarne la
redditività media. L’azienda, poi, cerca di ottenere rendimenti superiori attraverso un preciso
posizionamento strategico (leadership di costo o leadership di differenziazione). La risposta alla
questione di dove veramente nasca il vantaggio competitivo per l’impresa, si ha con la teoria
della catena del valore, che individua quali siano le attività che permettono di raggiungere la
leadership di costo o di differenziazione.
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Il terzo modello presentato è quello della Resource Based View (RBV), sviluppatosi negli
anni ’90. Esso nasce in contrapposizione ai modelli dell’Industrial Organization, che si
focalizzano sull’ambiente esterno, e si concentra, di contro, alle risorse interne dell’impresa.
Giunge alla conclusione che l’acquisizione, la trasformazione e l’accumulazione delle risorse,
dalle quali, in ultima istanza, scaturisce il vantaggio competitivo.
Nei paragrafi successivi si illustreranno più approfonditamente il modello di Porter e quello
della RBV, facendo risaltare di volta in volta le novità rispetto al modello precedente, ma anche
i limiti che aprono la strada ad ulteriori riflessioni.
Sarà questa, dunque, l’ouverture al modello sul vantaggio competitivo oggetto
dell’elaborato: la teoria delle complementarità.
Porter è un autore fondamentale negli studi di strategic management. I suoi contributi in
tema di vantaggio competitivo sono contenuti ne “La strategia competitiva (1980)”, che si
occupa della struttura dei settori industriali e del modo in cui si può scegliere di collocarsi al
loro interno; ne “Il vantaggio competitivo (1985)”, in cui presenta uno schema concettuale per
capire quali siano le fonti del vantaggio competitivo di un’impresa e di come possa essere
potenziato e/o mantenuto; ne “Competition in Global Industries (1986)”, dove applica il
modello elaborato nei precedenti libri al contesto competitivo internazionale. Il punto di vista di
Porter è squisitamente industriale: l’oggetto delle sua analisi è sempre l’impresa all’interno di un
settore. Una volta specificato l’assunto di partenza, l’universo di indagine, si comprende come
questo autore abbia fornito un modello esauriente e completo, diventando così una pietra di
paragone per una presa di posizione in campo di strategic management. Non si può, insomma,
prescindere dal contributo di Porter. La sua impostazione prevede che la redditività conseguita
nel medio termine da un’impresa dipende essenzialmente dall’attrattività del settore in cui opera
e dal posizionamento che l’impresa ha saputo raggiungere grazie alle scelte compiute e alle
azioni poste in essere.
La redditività media di settore è data dalla sua configurazione strutturale, rappresentata dallo
schema delle cinque forze competitive, che Porter descrive sia nel loro impatto sulla redditività
sia nelle loro determinanti. Le cinque forze sono: l’intensità della concorrenza orizzontale, il
potere contrattuale dei fornitori, il potere contrattuale degli acquirenti, la minaccia di prodotti
sostitutivi e la minaccia di nuovi entranti. Il loro impatto sulla redditività è la risultante sintetica
di condizionamenti sulle variabili economiche (es. il livello dei prezzi, dei costi fissi, dei
margini, l’ammontare degli investimenti, ecc..), e sullo “spazio operativo” (Invernizzi, 2004:
7
97), cioè, in senso orizzontale, la domanda potenziale del settore, che si traduce in fatturato
complessivo realizzato, e, in senso verticale, il numero di fasi mediamente svolte dalle imprese
operanti nel settore, che si traduce con il valore prodotto in ciascuna di esse. Le determinanti
delle cinque forze sono, invece, le caratteristiche economiche e tecniche del settore, come la
distribuzione sul territorio, la dimensione delle unità operative, la concentrazione della
produzione e dell’offerta, le economie di scala, le economie di ampiezza, le economie di
replicazione, il rapporto capitale/lavoro e le caratteristiche della manodopera impiegata, la
composizione del capitale, la forma giuridica dell’impresa, la struttura della domanda e la sua
evoluzione qualitativa e quantitativa (Rispoli, 2002: 193-207). Una volta compiuto l’esame delle
determinanti delle cinque forze, risulta possibile valutare la direzione e l’intensità della
pressione da loro esercitata sul settore e, quindi, la redditività strutturale di quest’ultimo.
Per conseguire risultati superiori alla media del settore, Porter indica come soluzione un
chiaro e ragionato posizionamento strategico. L’impresa può raggiungere un vantaggio
competitivo di differenziazione, ossia creando un valore unico per determinati acquirenti o
rispetto a determinati bisogni, poiché nel prodotto sono conglobate delle caratteristiche
distintive. In virtù di ciò, può imporre un prezzo più elevato (premium price). In alternativa,
l’impresa può detenere una leadership di costo, offrendo sul mercato prodotti con un prezzo
inferiore a quello dei concorrenti, giustificati da una consonante gestione dei costi.
Il quadro, però, non è ancora completo: manca ancora un tassello che vada a spiegare il
processo di formazione del vantaggio competitivo. L’autore allora identifica una serie di attività,
primarie (attinenti al processo produttivo e alla vendita) e di supporto. Queste permettono la
creazione di valore, grazie alla loro organizzazione e alle relazioni tra l’una e l’altra (catena del
valore). Ora, siccome è stata individuata la fonte di generazione del valore, il modello si
conclude asserendo che il vantaggio competitivo è il risultato della gestione d’insieme delle
attività della catena del valore ottenendo costi inferiori a quelli dei concorrenti o perseguendo
modalità di attuazione differenti e uniche.
Questo schema, molto solido, può essere ampliato ad un intero sistema di creazione di
valore, considerando cioè le catene del valore non soltanto dell’impresa, ma dell’intera filiera.
Come suggeriscono Normann e Ramirez (1993: 66): «il focus dell’analisi strategica
[dell’impresa di successo] non è l’impresa e nemmeno il settore, ma il sistema di creazione del
valore, all’interno del quale diversi attori economici – fornitori, clienti, partner, alleati –
lavorano insieme per co-produrre valore». O ancora, può essere ampliato alla concorrenza
internazionale (Porter, 1986): gli elementi di base analizzati sono sempre il settore industriale e
l’impresa; la nazione e il suo governo hanno un ruolo, ma un ruolo limitato.
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Il grande successo del modello di Porter è indiscutibile: qualunque manuale di strategic
management lo nomina. Come detto prima, non si può prescindere dalla conoscenza di questo
autore. A mio avviso, una delle ragioni del seguito che ha avuto è la completezza, che fornisce
sia concettualmente che operativamente, attraverso schemi di analisi. Apprendendo la teoria di
Porter si ha come l’impressione che “si chiuda il cerchio” sul tema del vantaggio competitivo, e
si è certi di avere in mano un modello molto solido ed esauriente.
Tale convinzione si ha perché Porter, come tutti gli studiosi di Industrial Organization, si è
sempre concentrato sui fattori esterni all’impresa, diventando il leader di questo approccio. Una
svolta rilevante di orientamento negli studi sul vantaggio competitivo si nota a partire dagli anni
’90, quando si cambia completamente approccio e l’obiettivo dell’analisi non è più il settore, ma
la singola impresa, in particolare le risorse e competenze interne.
E’ emersa la convinzione che l’analisi strategica non possa prescindere dal prendere in
considerazione il potenziale interno dell’organizzazione e quindi il rapporto tra strategia e
risorse e competenze dell’impresa. Questo cambio di vedute, in realtà, è dovuto in prima istanza
ad un gap esplicativo dei modelli di Industrial Organization, tra cui il modello di Porter, che non
danno ragione dell’eterogeneità delle imprese pur all’interno del medesimo settore. Ciò che si
mette in discussione è il determinismo ambientale sottostante, quell’idea per cui la struttura
implica la condotta che implica la performance1. Esso, infatti, assume che le imprese all’interno
di un settore abbiano risorse e competenze simili perché necessarie al perseguimento di una
strategia simile, dovuta all’appartenenza ad uno stesso settore (omogeneità nella distribuzione
delle risorse). I modelli industriali rispondono, allora, che l’eterogeneità che si riscontra
empiricamente è causata dalla capacità delle imprese di erigere barriere all’entrata. Ciò, però,
potrà mantenersi solo nel breve periodo, perché la perfetta mobilità di risorse, altro presupposto
dei modelli di Industrial Organization, annullerà l’iniziale differenza di performance2. Dopo
aver messo in discussione i due assunti principali dei modelli dominanti, si sviluppa allora l’idea
che la causa dell’eterogeneità non è da ricercarsi nel settore, ma nelle caratteristiche peculiari
interne all’azienda. Il focus si sposta su un’analisi interna, più specificatamente alle risorse e alle
competenze3.
1
Si precisa che con Porter viene riconosciuto per la prima volta all’impresa un ruolo attivo nella definizione della
strategia, ma l’indicazione di due solo scelte possibili (la differenziazione o la riduzione del prezzo), segna ancora
un forte legame causale tra settore-condotta-performance (Calcagno, 1996)
2
Si delinea come unica ipotesi conciliante quella di rendite monopolistiche, dovute alla capacità di erigere barriere
alla trasferibilità di risorse e competenze.
3
Il confronto tra la visione Resource Based e i modelli industriali (o modelli ambientali), in relazione ai due
fondamenti di questi ultimi, l’omogeneità nella distribuzione delle risorse e la loro perfetta mobilità, è proposta da
Barney (1991).
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Si consideri, poi, che i modelli di Industrial Economics, tra cui anche quello di Porter,
assumevano una relativa stabilità dei settori. Ma ciò che si sperimenta è una sempre maggior
variabilità ambientale, che addirittura rimescola i tradizionali settori: emerge l’esigenza di
dotarsi di strumenti innovativi di analisi strategica.
Inoltre, alcuni autori (Wernerfelt, Montgomery, 1986) hanno rilevato che l’attrattività di
settore non rappresenti, in realtà, un indicatore oggettivamente determinabile, ma sia una
dimensione relativa, il cui significato varia in relazione all’impresa considerata. (Cerrato, 2004).
Queste tensioni portano alla nascita di un nuovo filone di studi che prende il nome di
Resource Based View, dal nome coniato da Wernerfelt nel 1984.
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L’oggetto dell’analisi di questo nuovo modello sul vantaggio competitivo sono le risorse e le
competenze dell’impresa. Vediamo di darne una definizione, attingendo tra i numerosi
contributi economico-aziendali.
• Le risorse sono fattori produttivi a disposizione (posseduti o controllati) dall’impresa,
che sono trasformate in beni (prodotti e/o servizi) utilizzando un’ampia gamma di
attività aziendali e meccanismi organizzativi (Amit e Schoemaker, 1993). Ci sono risorse
materiali, che costituiscono il patrimonio fisico e finanziario dell’impresa, e che vanno a
determinare il capitale di un’azienda, così com’è iscritto in bilancio. Ci sono poi risorse
immateriali, di difficile determinazione e quantificazione, quali per esempio la
tecnologia, la reputazione, la cultura aziendale, nonché quelle risorse incorporate nelle
persone (queste ultime dette anche risorse umane).
• Le competenze sono le capacità dell’impresa di combinare e impiegare le proprie risorse
in vista del raggiungimento di determinati obiettivi (Amit e Schoemaker, 1993). Esse
sono dunque un qualcosa di assolutamente interno all’impresa. Si distinguono in
competenze tacite, incorporate nelle persone, e competenze codificate, che, al contrario,
sono formalizzate in modo esplicito in manuali, regole di comportamento e che possono
essere più facilmente apprese rispetto alle tacite.
La teoria Resource Based, dopo aver individuato l’oggetto di analisi, si dipana nella
spiegazione del nesso causale tra risorse/competenze e vantaggio competitivo. L’ipotesi di
partenza è che il vantaggio competitivo sia determinato dalla dotazione eterogenea di risorse,
che causa un differenziale di performance rispetto ad altre imprese, cioè un vantaggio
10
competitivo. La ricerca, dunque, prosegue per individuare la cause dell’eterogeneità (strutturale)
delle risorse.
La prima condizione è l’imperfetta mobilità delle risorse. Vuol dire che non è utilizzabile
al di fuori del contesto aziendale, oppure, qualora lo fosse, il suo valore all’interno del contesto
d’origine è nettamente superiore a quello ottenuto nel contesto trasferito. Ciò è dovuto in primo
luogo alla specificità che la risorsa ha acquisito nella sua permanenza all’interno dell’azienda, (è
diventata cioè firm-specific), ed è il risultato dell’accumulazione di asset stocks nel tempo, frutto
di una serie continuativa di investimenti (Dierickx e Cool, 1989). Il fatto che le risorse siano
legate a costi affondati ha un effetto vincolante all’impresa. La specificità delle risorse provoca
l’imperfezione dei mercati di scambio delle risorse stesse, che rinforzano l’effetto di
impedimento al loro trasferimento in contesti diversi da quello iniziale (Calcagno, 1996).
La seconda condizione è l’incertezza di fondo che domina il processo di costituzione del
vantaggio competitivo a partire dagli assets aziendali. Si pensi, ad esempio alle asimmetrie
informative, o ai meccanismi di isolamento, che rendono difficile l’imitazione delle risorse da
parte dei concorrenti, e di conseguenza del differenziale di performance. Uno di questi,
ovviamente dopo la specificità delle risorse, è l’ambiguità causale, la quale interviene
ogniqualvolta non si riesca a determinare un nesso causale tra un evento e l’altro, qui tra il
possesso di risorse/competenze e il raggiungimento del vantaggio competitivo4.
Una volta descritte le condizioni per cui rimane nel mercato un’eterogeneità di risorse, resta
da spiegare il passaggio da tale differenziazione alla creazione di valore e quindi di
raggiungimento di vantaggio competitivo.
Un primo passaggio sia ha dal possesso di risorse alla creazione di valore. E’ uno dei
punti più delicati dell’approccio Resource Based, perché in questa sede è irragionevole pensare
al valore in modo astratto: esso è sempre relativo alle richieste del mercato. In particolare,
l’impresa dovrebbe identificare le risorse maggiormente congruenti con i fattori critici di
successo del settore (Amit e Schoemaker, 1993). Proprio nel punto più delicato, la nuova teoria
non è in grado di fornire uno schema coerente e lascia aperti molti interrogativi (Golfetto, 2000).
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Calcagno (1996) individua tre determinanti dell’ambiguità causale: la presenza di numerose risorse tacite, la
complessità de sistema aziendale che dà come output un risultato derivante da numerose risorse impiegate, e infine
la social complexity, in cui la determinante principale è il contesto sociale in cui si è sviluppata l’impresa, il quale è
chiaramente firm-specific e di difficilissima esportazione. In quest’ultimo caso è contemplata l’ipotesi per cui il
meccanismo di formazione del vantaggio competitivo sia anche conoscibile, ma non esportabile.