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CAPITOLO I
1.1 IL CONCETTO DI CITTADINANZA
La nozione di cittadinanza è considerata una categoria
centrale nella concezione di democrazia. La sua
crescente diffusione nel lessico filosofico-politico, dalla
sociologia alla storiografia e più in generale nel
discorso pubblico odierno, testimonia quanto
l’importanza del tema si sia accresciuta.
Il concetto di cittadinanza si può definire come il
legame che esiste tra un individuo, per discendenza
familiare (jus sanguinis) o connessione territoriale (jus
soli), e la comunità dotata di istituzioni politiche della
quale egli fa parte. Il cittadino può essere distinto dallo
“straniero” perché è soggetto alla legislazione del
proprio ordinamento ed al set di diritti-doveri che lo
stesso garantisce-impone. La cittadinanza si profila
dunque come uno status soggettivo che denota
l’appartenenza ad una comunità politica ed ha come
conseguenza la titolarità di una serie di diritti,
riconosciuti e garantiti dalla comunità stessa per vivere
e per risolvere conflitti sia all’interno che all’esterno
possibilmente in pace.
Il concetto di cittadinanza ha subito uno sviluppo
storico che trae origine dalla cultura greco-romana e
dalla definizione di cittadino data da Aristotele.
Secondo il filosofo greco la cittadinanza doveva essere
concessa soltanto ai maschi adulti e liberi: il cittadino
perciò si contrapponeva non solo allo straniero ma
soprattutto al servo e alla maggioranza dei membri della
polis che non aveva diritto a mettere piede nell’agorà
per discutere ed occuparsi dei problemi della città.
5
Invece, agli inizi della storia romana, la cittadinanza era
un attributo pertinente alle gentes che discendevano dai
fondatori di Roma, ovvero i patrizi. Poi, a partire dalla
rivoluzione plebea del IV secolo a.C., patrizi e plebei si
collocarono su di un piano di parità e la cittadinanza
divenne un diritto di ogni paterfamilias della città di
Roma. Dopo la concessione dello status di cittadino a
tutti gli uomini adulti dell’impero (con l’editto di
Caracalla del 212 d.C.) la cittadinanza si svuotò della
sua valenza politica e si ridusse a poco più di una
semplice etichetta formale, priva di importanza.
Questa concezione classica viene scardinata con la
formazione dello Stato moderno: lo status di cittadino
conferisce adesso ai membri della comunità politica
statuale in quanto tali le libertà ed i diritti, acquisendo
una simbologia più strettamente passiva di godimento
degli stessi.
E’ proprio la nascita dello Stato nazionale
(riconducibile alla fine della Guerra dei Trent’anni, con
la Pace di Westfalia del 1648) che permette la piena
realizzazione concreta della cittadinanza, attraverso un
cambiamento del suo status da pura appartenenza
ascritta ad una determinata comunità a trasferimento
dell’origine della sovranità dal principe al popolo.
Il cittadino diventa prima di tutto colui nel quale risiede
la sovranità, che egli delega ad un ente superiore per la
pacifica convivenza con gli altri individui. Questo ente
è dotato di due caratteristiche fondamentali, la sovranità
e la territorialità, il che implica la potestà di emettere
comandi giuridicamente vincolanti entro un determinato
territorio all’interno del quale non si pongono entità
dotate di un potere maggiore. Il singolo è in questa
ottica prima ancora che destinatario del diritto, autore
6
dello stesso in quanto uomo. Nasce quindi l’idea di
popolo come soggetto politico ovvero insieme dei
cittadini che attraverso la sottoscrizione di un contratto
sociale decidono autonomamente e liberamente di vivere
insieme sotto un comune ordinamento
1
.
Alla vigilia della Rivoluzione francese va però
considerato come la società occidentale in genere si
trovava suddivisa in tre “stati”: l’aristocrazia e l’alto
clero, che costituivano una piccola minoranza di
privilegiati, e la sterminata massa del popolo, il
cosiddetto “terzo stato”, che non aveva parità di diritti
ma che doveva lavorare per mantenere la “macchina”.
Abbattendo il sistema dei “tre stati”, la Rivoluzione
francese dava origine ad una nuova figura di cittadino
che non era più membro di un ceto bensì dello Stato-
nazione, dinanzi al quale gli veniva riconosciuta parità
di diritti-doveri.
Emblematica in proposito è la Dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino del 1789: la coppia “uomo” e
“cittadino” non è separabile. Il cittadino dispone sì di
diritti inalienabili ed assoluti, ma il loro esercizio
dipende strettamente dalla legge e quindi dallo Stato
sovrano della cui volontà la legge si fa espressione. E’
l’appartenenza alla collettività che di fatto segna
l’identità politica dell’individuo: il cittadino esiste
come tale grazie al vincolo primario che lo lega al
proprio Stato-nazione.
A differenza dell’antica Grecia e Roma poi, il titolo di
cittadino non veniva conferito su basi elitarie bensì al
popolo intero, seppure con alcune limitazioni legate al
1
È con Rousseau che per la prima volta prende forma il concetto di cittadino-sovrano
che gode della pienezza dei diritti politici e che è chiamato ad auto-governarsi alla stregua
degli antichi cittadini ateniesi.
7
sesso, all’età ed al censo: donne, minorenni e domestici
rimanevano esclusi dalla pienezza dei diritti politici.
Nell’evoluzione dallo Stato protomoderno in repubblica
democratica, l’invenzione della nazione, come sostiene
invece Habermas, ha giocato un ruolo di
“catalizzatore”
2
. La cittadinanza democratica diventa da
un punto di vista politico-giuridico la piena
realizzazione del concetto di cittadinanza poiché va ad
identificarsi con il connubio di “appartenenza e diritti”
3
.
Le libertà individuali dei cittadini vengono in questa
ottica garantite sia come libertà private dei membri
della società sia come autonomia politica dei membri
dello Stato. Ma questa concezione rappresenta solo una
componente del concetto di cittadinanza, che richiede
per la sua piena realizzazione la soddisfazione anche
della componente culturale. Il concetto di nazione è così
venuto a riempire il vuoto lasciato da un ordinamento
costituzionale che non creava un popolo consapevole di
essere una comunità. Era necessario trovare una
motivazione forte che rendesse i cittadini di uno Stato
democratico politicamente e culturalmente consapevoli
di questo status. La nascita dello Stato nazionale ha
riprodotto in questo modo su larga scala un sistema di
affetti che implicano un forte senso di identità di
gruppo, del “noi”, tipico di comunità piccole o intime
unite da qualche tipo di parentela o da una sua
estensione. Attraverso strumenti concreti (quali la
lingua, l’educazione, il controllo all’immigrazione) lo
Stato moderno ha messo in atto un’opera di
omogeneizzazione culturale al suo interno, generando
nei membri della comunità politica la percezione di
2
Vd. J. Habermas, Die Einbeziehung des Anderen, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am
Main, 1996, trad. it., L’inclusone dell’altro. Studi di teoria politica, Milano, Feltrinelli,
1998.
3
Ibid.
8
appartenere ad un’unica comunità i cui membri
costituiscono un unico volk, insieme di cittadini che
condividono una stessa cultura, una stessa lingua, delle
stesse leggi, e che perseguono interessi omogenei.
L’ethnos si pone adesso come soggetto indispensabile al
demos e l’idea di ogni uomo libero ed uguale è negata
dalla logica di esclusione dello Stato-nazione, che
divide gli uomini in “noi” ed “altri”, e priva questi
ultimi dei diritti che sono invece garantiti ai primi. La
cittadinanza dunque, con il suo corredo di diritti, non è
un concetto astratto bensì va necessariamente a trovare
contesto nella comunità di appartenenza del soggetto,
comunità formata da individui legati da rapporti di
reciproco riconoscimento e fiducia.
9
1.2 IL CONTRIBUTO DI T. H. MARSHALL
Dal punto di vista sociologico, uno dei contributi più
efficienti a delineare concettualmente lo status di
cittadinanza è stato fornito da T. H. Marshall, autore nel
1950 del saggio “Cittadinanza e classe sociale”
4
.
L’autore presenta la cittadinanza come la «forma di
uguaglianza umana fondamentale connessa con il
concetto di piena appartenenza ad una comunità»
5
il cui
contenuto è dato da una serie di diritti.
Il sociologo inglese collega lo sviluppo dei diritti di
cittadinanza alle dinamiche della moderna società
industriale anglosassone affermando che l’attribuzione
di tale status e dei diritti e doveri ad esso collegati si è
arricchita dinamicamente col passare del tempo, sempre
nel contesto dell’appartenenza ad una comunità politica
(lo Stato nazionale), di nuovi diritti, che Marshall
suddivide concettualmente e cronologicamente in tre
classi: i diritti del “primo tipo” sono quelli civili, che
attengono alla piena affermazione della libertà
individuale (libertà di pensiero, libertà religiosa, libertà
di stampa, libertà di associazione); i diritti del “secondo
tipo” sono invece i diritti politici (l’elettorato attivo e
passivo e il diritto di partecipare all’esercizio del
potere politico); i diritti del “terzo tipo” sono i diritti
sociali (ovvero il diritto all’istruzione, all’assistenza
sanitaria, all’assistenza sociale in caso di
disoccupazione), diritti che presuppongono un’azione
dello Stato per consentire a ogni cittadino di vivere la
vita come un essere civile secondo gli standard
prevalenti nella società, e caratterizzanti l’evoluzione
4
T.H. Marshall, Citizenship and social class, London, Pluto, 1972, trad. it. Cittadinanza e
classe sociale, Torino, Utet, 1976.
5
Ivi, p. 7.
10
delle democrazie occidentali in Welfare State (o Stato
Sociale).
In questa accezione molto ampia l’espressione “diritti di
cittadinanza” denota l’insieme dei diritti, delle tutele,
delle garanzie, delle prestazioni (in una parola: gli
entitlements) di cui godono gli individui in virtù del
loro legame di totale appartenenza ad una determinata
comunità politica.
Tre classi di diritti quindi, a cui corrispondono tre
periodi formativi della cittadinanza e, sia pur con
qualche approssimazione, tre secoli: i diritti civili si
accoppiano al diciottesimo secolo, quelli politici al
diciannovesimo, quelli sociali al ventesimo.
È soltanto nella seconda metà del XX secolo che gli
effetti della cittadinanza sul sistema delle classi sono
finalmente maturati e, secondo l’interpretazione di
Marshall, hanno imposto alla società un vero e proprio
mutamento qualitativo: la loro azione coordinata ha
fondato un nuovo status che elimina il vecchio principio
del privilegio materiale e su base ereditaria.
Per Marshall il principio di uguaglianza insito nella
formulazione del concetto di cittadinanza, ossia
quell’essere a pieno titolo cittadini nella e della propria
comunità, dona agli individui la certezza di pari
possibilità iniziali; non già come affermato dall’etica
liberale di ideali pari opportunità, bensì la reale
capacità di partecipare alla vita della comunità partendo
da un’ugualitaria base di garanzie. In altre parole
mettere ognuno in condizione di poter effettivamente
giungere a godere di dette pari opportunità.
L’interpretazione marshalliana della cittadinanza
comporta quindi una sorta di “infiltrazione” dell’etica
ugualitaria, nella logica individualista e concorrenziale,
11
moderando il potere della classe capitalista e
subordinando la pratica del libero mercato a criteri di
giustizia sociale attraverso la promozione dei diritti dei
cittadini. L’obiettivo che si pone Marshall è quello di
individuare se «esista una forma di uguaglianza umana
fondamentale, connessa ad una piena appartenenza alla
comunità»
6
e se questa uguaglianza «una volta arricchita
di sostanza e incorporata nei diritti della cittadinanza»
7
possa sposarsi con le logiche del libero mercato o vada
ad interferire in questo circuito con graduale
avvicinamento ad un modello socialista. La risposta è
che dall’incontro tra esigenze di giustizia sociale e di
sviluppo dell’economia di mercato, lo status di
cittadinanza trovi forza attraverso «un arricchimento del
materiale di cui è fatto lo status e un aumento del
numero delle persone a cui è conferito questo status»
8
,
espandendo in avanti il limite della soglia
dell’eguaglianza tra individui ed individuando nel
Welfare State una soluzione regolatrice di questa
tensione.
Riguardo l’integrazione complessa tra i meccanismi di
inclusione e di esclusione legati alla cittadinanza
democratica, Marshall ha una visione della società
moderna come caratterizzata da una crescente
partecipazione e integrazione delle classi subalterne:
“cittadinanza” non è più un semplice strumento
identificativo della “nazionalità” di un individuo,
include piuttosto tutti gli indici necessari a delineare
l’effettivo rapporto intercorrente fra un individuo e la
società di cui fa parte.
6
Ivi p. 80.
7
Ivi p. 11.
8
Ivi p. 31.
12
Ciò che alla fine colpisce nelle conclusioni dello
studioso inglese è l’idea che un sistema sociale fondato
sulla cittadinanza democratica non si basi su equilibri
logici, ma su compromessi ed approssimazioni a volte
anche illogiche che però sono assolutamente legittime
purché diano un risultato effettivo. Mette perciò in
guardia politici ed economisti dal ricercare perfette
quadrature del cerchio, invitandoli in luogo a prendere
atto delle fertili contraddizioni della realtà.
Per Marshall la cittadinanza è una realtà politica creata
dallo Stato attraverso soluzioni meccaniche, pratiche.
La sua concezione è infatti strumentale, diversa nello
spirito e nei principi dalle elaborazioni teoriche di
matrice idealista secondo le quali i diritti e i doveri
della cittadinanza devono essere in primo luogo
interiorizzati dal cittadino in quanto attengono
alla dimensione assoluta del bene che è valido
indistintamente per l’individuo e per la società. Per il
sociologo inglese invece il complesso dei diritti sociali
non intende rispondere ai bisogni concernenti l’uomo in
quanto essere umano, ma consiste in
espedienti artificiali finalizzati al godimento materiale
creati dalla comunità e agganciati allo status della
cittadinanza, enfatizzando i diritti sociali a scapito di
quelli politici dal momento che solo questi ultimi
implicano ancora una discriminazione di principio, oltre
che di fatto, cioè la distinzione fra cittadino e straniero.
Col tempo, considerato anche che l’opera di Marshall
per quanto a suo tempo efficace è pur sempre risalente
al 1950, si sono sollevate critiche giustificate ai
paradigmi proposti dal sociologo inglese.
A Marshall mancava evidentemente l’esperienza post-
bellica delle socialdemocrazie europee e della
cosiddetta economia sociale di mercato. Il set dei tre già
13
citati diritti configura più una dimensione giuridica
dello status di membership relativa alla cittadinanza,
che va altresì interpretata come appartenenza ad uno
Stato-nazione per avere diritto all’erogazione di tale
status.
Marshall delinea lo sviluppo dello status di cittadinanza
come un processo graduale, una sorta di continuum che
emerge spontaneamente dal progresso delle istituzioni e
del libero mercato, sotto l’ala benevola dello Stato.
Parrebbe invece più logico sostenere l’ipotesi che tale
conquista derivi in modo diretto dagli esiti del conflitto
politico tra le parti sociali le quali fortificano e
concorrono allo sviluppo della cittadinanza moderna.
L’interpretazione marshalliana sembra invece ignorare
che l’acquisizione del complesso dei diritti civili,
politici e sociali si debba in gran parte alle
rivendicazioni dei ceti disagiati che, attraverso un lungo
confronto storico di scontri e contrattazioni, hanno
rivolto la loro protesta contro i settori dominanti
detentori del potere.
Allo stesso tempo Marshall considera assodata ed
irreversibile, anzi in continua espansione, la rete dei
diritti di cittadinanza. In realtà appare sempre più
chiaro come la diatriba sorta intorno al Welfare State
abbia ripercussioni negative su questa concezione,
colpendo in special modo la sostanza dei cosiddetti
diritti sociali, mai come ai nostri anni al centro di
un’aspra contesa.
Il secondo pilastro dell’enunciazione marshalliana della
cittadinanza, che fa coppia con l’altro riferito ai diritti
del cittadino, è dedicato al concetto di appartenenza alla
comunità.