3
fenomeno “nuove imprese” rappresenta un modo per andare al di là dei facili stereotipi
e cominciare ad approfondire tali problematiche e difficoltà.
Ma, allargando l’orizzonte e venendo al secondo possibile approccio al problema, il
tema delle nuove iniziative imprenditoriali appare di estrema rilevanza anche da un
punto di vista “macroeconomico”, considerando cioè i dati aggregati sulla natalità e la
dinamica delle nuove imprese di un sistema economico. In questo modo infatti si vanno
a toccare e ad analizzare i momento genetici, le radici della competitività: le regioni o i
paesi che sanno stimolare nuove avventure imprenditoriali, nonché selezionare e
premiare le migliori, saranno infatti capaci di adattarsi e resistere alle pressioni della
moderna economia globalizzata. Viceversa un sistema che non riesce a produrre nuove
realtà di eccellenza sarà inesorabilmente destinato al declino. La competitività di un
paese, la capacità della sua economia di innovare e rinnovarsi, di far fronte ai mutamenti
di scenario risiede infatti in ultima analisi proprio nella sua propensione a far crescere
nuova imprenditorialità.
Non a caso l’attenzione per queste tematiche si è sviluppata di molto negli ultimissimi
anni, specie in seguito alla constatazione di quanto la crescita della produttività in
Europa sia diminuita negli anni Novanta rispetto al decennio precedente e di come
questo rallentamento, accompagnato da uno scarso incremento dell'occupazione (che
rimane ben al di sotto dei livelli statunitensi o giapponesi), si sia tradotto in una bassa
crescita del Pil. Per porre un rimedio alle difficoltà del vecchio continente sono state da
più parti evocate (ed invocate) diverse riforme (tra le più auspicate quelle del mercato
dei prodotti e del lavoro) come l'unica vera risposta ad un'Europa che non cresce e che,
inoltre, invecchia rapidamente e quindi ha sempre più bisogno di alti tassi di
produttività del lavoro. In fondo, gli andamenti macroeconomici dipendono dal
comportamento delle singole imprese, dall'ingresso di nuovi soggetti produttivi e
dall'uscita di quelli meno produttivi dal mercato. Da qui l’attualità e l’importanza della
conoscenza di questi fenomeni.
Chiariti così brevemente i due possibili (ma non per forza alternativi) approcci al
problema, lo studio presente sui diversi fattori che concorrono attorno al fenomeno delle
nuove imprese sarà condotto perlopiù nella seconda ottica, cercando quindi non di
4
delineare un improbabile decalogo sul come avviare un’attività di successo, bensì di
analizzare dettagliatamente le principali difficoltà e occasioni che un dato contesto
economico (nella fattispecie quello italiano) offre al potenziale nuovo imprenditore, in
modo da individuare anche possibili ambiti e politiche di intervento pubblico per
migliorare la situazione esistente. Il tutto con uno sguardo particolare rivolto alla realtà
delle nuove imprese innovative, che possono dare un maggior contributo alla crescita
della produttività del sistema economico.
L’analisi comincerà nel Capitolo 1 andando a verificare, tanto da un punto di vista
teorico quanto empirico, la relazione esistente tra la nascita di nuove imprese e la
crescita del sistema economico, visto sotto le diverse variabili della produttività,
dell’innovazione e dell’occupazione. Ciò al fine di conoscere e chiarire quanto e in che
modo la nuova imprenditorialità può giovare all’economia di un paese.
Nel Capitolo 2 si passerà a descrivere l’attuale situazione italiana in termini di
dinamiche d’impresa (nati-mortalità ed evoluzione nei primi anni di vita), per poi
confrontarla con quella di altri paesi in modo da individuarne le principali peculiarità (in
termini di pregi e debolezze). Peculiarità che verranno approfondite in maniera puntuale
nei successivi Capitoli 3-4-5-6 e 7 attraverso un’analisi dettagliata delle cause che
contribuiscono a determinare le differenze empiriche riscontrate tra l’Italia e i principali
paesi sviluppati, fornendo così lo spunto per una ricognizione critica su cosa funziona e
cosa invece si dovrebbe migliorare (prendendo anche a riferimento le migliori
esperienze maturate a livello internazionale).
Il Capitolo 8 avrà infine il compito di chiudere il lavoro con una serie di considerazioni
conclusive sulla capacità del sistema Italia di creare e selezionare nuove imprese, e
sull’importanza che più in generale un ambiente aperto all’imprenditorialità può
rivestire anche al di fuori di una logica meramente economica.
5
Capitolo 1
IL RUOLO DELLE NUOVE IMPRESE SUL
SISTEMA ECONOMICO
SOMMARIO: 1. Nuove imprese e sviluppo economico: la parola alla teoria. 1.1. Schumpeter e la
“distruzione creatrice”. 1.2. Altri contributi sul ruolo giocato dalle nuove imprese. 2.
Nuove imprese e sviluppo economico: analisi empiriche. 2.1. Brandt: tassi d’entrata e
misure di performance economica. 2.2. Scarpetta-Hemmings-Tressel-Woo: entrata di
imprese come componente della produttività.
1. NUOVE IMPRESE E SVILUPPO ECONOMICO: PAROLA ALLA TEORIA
L’idea che la capacità di un sistema economico di produrre nuova imprenditorialità
possa beneficiarne i tassi di crescita e di sviluppo, così come esposta brevemente in sede
introduttiva, può per certi versi apparire oggi intuitiva e scontata. In realtà essa è il
frutto dell’intuizione e della riflessione di grandi studiosi del passato e, per assumerne la
validità, è opportuno anzitutto testarla attraverso appositi studi empirici.
1.1. Schumpeter e la “distruzione creatrice”.
L’economista che per primo e che più di tutti ha sottolineato la rilevanza della nuova
imprenditorialità all’interno di un sistema economico è stato senza dubbio l’austriaco
Joseph Alois Schumpeter. Il suo è un pensiero talmente brillante ed influente, da doversi
considerare assolutamente centrale in una seppur breve ricognizione teorica dei
principali contributi della letteratura economica sul ruolo delle nuove imprese.
L’acutezza del contributo di Schumpeter sta in fondo nella sua lucida essenzialità, dal
momento che può essere riassunto in due soli concetti fondamentali: la natura
prettamente dinamica ed evolutiva del sistema capitalistico e la centralità in esso
della figura dell’imprenditore.
6
Entrando più nel dettaglio, Schumpeter costruisce il suo schema teorico a partire da
quattro importanti ipotesi:
1. Le innovazioni comportano la costruzione di nuovi impianti e attrezzature e
richiedono un notevole dispendio di tempo e denaro.
2. Prima di introdurre le innovazioni non esiste concretamente alcuna risorsa
inutilizzata dal processo produttivo.
3. Le innovazioni sono incorporate in "nuove" imprese, che si pongono accanto
alle "vecchie", generando all'interno dell'industria una lotta di concorrenza,
dovuta all'abbassamento delle curve di costo totale unitario, dato proprio dal
progresso tecnologico. Più precisamente, sono le innovazioni che abbassano le
curve dei costi medi e provocano la lotta tra le imprese e lo sconvolgimento
dell'esistente struttura industriale. In “Capitalismo, socialismo e democrazia”
(1943) l'autore afferma che "la concorrenza creata dalla nuova merce, dalla
nuova tecnica, dalla nuova fonte di approvvigionamento, dal nuovo tipo
organizzativo…condiziona un vantaggio decisivo di costo e di qualità" (pag.
80).
4. Gli imprenditori sono degli "uomini nuovi"
1
che realizzano concretamente le
innovazioni. Nella “Teoria dello sviluppo economico” (1912) egli definisce
imprenditore chiunque "introduca una nuova combinazione". Gli imprenditori
non formano una classe sociale, la loro non è una professione e neanche una
condizione durevole. La loro identità è strettamente collegata all'agire
innovativo e cessa quando tale forma di agire si esaurisce.
La capacità di innovare dell'imprenditore è remunerata dal profitto, che gli
spetta giacché è il frutto della sua azione creatrice. Esso "è l'espressione del
valore del contributo dell'imprenditore alla produzione" (Schumpeter, 1912).
Con l'ipotesi degli "uomini nuovi" si spiega perché le innovazioni non vengano
1
Schumpeter con tale espressione probabilmente si riferiva agli homines novi dell'antica società romana.
Questi non nascevano da famiglie note per aver rivestito particolari cariche, non avevano un illustre
albero genealogico da mostrare come credenziale, ma si distinguevano per le loro particolari doti di
eloquenza e di capacità politica. Erano uomini come Catone il Censore, Caio Mario e Cicerone, i quali
sono stati personalmente artefici del proprio destino. Per Schumpeter, l'imprenditore è un vero homo
novo, che ha creato da solo un'invenzione e la ha sviluppata nella sua azienda. Soltanto in seguito, egli è
stato imitato dalle altre imprese.
7
introdotte contemporaneamente da tutte le imprese, ma lo siano solo da alcune
(le "nuove" imprese) e poi successivamente, passando attraverso una fase di
imitazione, si diffondano a tutta la struttura produttiva.
Ciò avviene perché innovare non è semplice, in quanto l'ambiente circostante
pone una certa resistenza di fronte alle novità, mentre accetta con benevolenza
neutrale la ripetizione di atti consueti. Di qui, la genialità e la rilevanza del
contributo dell'imprenditore innovatore. In conclusione, Schumpeter pone
l'imprenditorialità come unico elemento attivo del processo di sviluppo; essa è
incarnata dalla figura dell'imprenditore innovatore e riduce ogni altra figura
sociale ad un ruolo subordinato nel processo di evoluzione del sistema.
Poste le ipotesi, Schumpeter entra poi nel vivo della sua teoria del mutamento
economico. Per costruire il nuovo impianto ed introdurre moderni macchinari (che
ordina alle imprese esistenti), l'imprenditore si fa prestare i fondi necessari dai
capitalisti. La via dell'innovazione diventa così più semplice ed altri imprenditori
decidono di adottare tecniche di produzione più intensive di capitale.
Dato che inizialmente non esistono risorse inutilizzate, i prezzi dei fattori di produzione
(salario nominale e tasso di interesse) aumentano per l'incremento della domanda.
Quando le nuove merci della prima azienda entrano nel mercato, esse sono acquistate
proprio al prezzo cui l'imprenditore sperava di venderle: iniziano a comparire i profitti.
Le nuove imprese entrano in funzione l'una dopo l'altra e incrementano la produzione
totale dei beni di consumo, la quale era stata in precedenza diminuita per produrre gli
impianti ed i macchinari. Si ha così quello squilibrio che stimola il processo di
riorganizzazione di tutta l'industria: le imprese esistenti iniziano un doloroso processo di
modernizzazione e di razionalizzazione.
Finché sorgono però nuove imprese, che riversano il loro flusso di spesa nel sistema,
vengono compensati gli effetti negativi dell'innovazione (ovvero la disoccupazione da
ristrutturazione).
In conclusione, Schumpeter afferma che il mezzo principale di riassorbimento di questo
tipo di disoccupazione è la spesa dell'imprenditore, che si riduce man mano che i nuovi
prodotti entrano nel mercato ed i rimborsi dei debiti contratti inizialmente aumentano.
Ciò porta ad una "zona di equilibrio" da cui ripartirà l'attività imprenditoriale. Da tutta
la teoria del mutamento economico, risulta chiaro come Schumpeter veda il processo
8
innovativo come forza squilibratrice del sistema economico, anziché come un tipo di
trasformazione uniforme ed incessante.
Egli giustifica formalmente a tre livelli questa sua visione:
1. Innanzitutto, le innovazioni tendono a concentrarsi quasi esclusivamente in
alcuni settori chiave e nell'ambiente loro circostante. Ne risultano asimmetrie e
disarmonie, le quali causano problemi di aggiustamento strutturale tra i diversi
settori di ciascuna economia in crescita.
2. In secondo luogo, il processo di diffusione rappresenta il mezzo attraverso il
quale le innovazioni generano le maggiori sorgenti di investimento e di crescita
del prodotto. Il suo andamento è intrinsecamente irregolare con caratteri di
ciclicità. Infatti, in genere il lancio di un nuovo prodotto è caratterizzato spesso
da un avvio lento, ma di solito seguito da una rapida crescita, dovuta ad un certo
"effetto di trascinamento" sugli imitatori.
3. Infine, le aspettative di profitto cambiano durante il periodo di crescita, visto che
il processo di imitazione erode i margini di profitto degli innovatori. La
saturazione del mercato fa ridurre la produzione, la redditività e la forza di
attrazione di altri investimenti.
Fondamentalmente allora, le innovazioni costituiscono l'elemento di trasformazione
organica dell'industria. Esse stravolgono incessantemente e dall'interno le strutture
economiche distruggendo il vecchio e creando il nuovo.
L'innovazione genera maggior produzione sociale, la stessa somma totale di redditi
nominali, un minor livello dei prezzi (il mutamento economico è innescato dalla
variazione dei prezzi, non da quella dei salari nominali).
E' evidente che i risultati di lungo periodo dello sforzo innovativo si trasferiranno sui
consumatori sotto forma di un incremento del reddito reale. Insomma, innovare ha un
effetto netto positivo sul sistema economico in termini di maggiore benessere. A questo
proposito, in “Capitalismo, Socialismo, Democrazia” afferma che: "Il processo
capitalistico, ...in virtù del suo stesso meccanismo, determina un progressivo aumento
del livello di vita delle masse...comunque" (Schumpeter, 1943). Schumpeter in pratica
mette in evidenza come il progresso tecnico consista nella creazione di nuovi prodotti
ed industrie, cioè in ciò che egli definì propriamente "distruzione creatrice". Essa
elimina posti di lavoro nelle vecchie industrie e ne crea nelle nuove. "Questo
9
meccanismo di distruzione creatrice è il fatto essenziale del capitalismo, quello in cui il
capitalismo consiste" (Schumpeter, 1977, pag. 79).
Sintetizzando, la creazione di nuove imprese, considerata la loro attitudine a porsi quale
veicolo privilegiato per l’introduzione dell’innovazione, rappresenta allora per
Schumpeter il vero motore del progresso tecnico e dello sviluppo economico: esse
infatti innescano un movimento evolutivo nel mercato in cui la concorrenza porta alla
distruzione delle realtà meno efficienti ed obsolete per premiare le migliori e innovative,
aumentando così la produttività globale. Il tutto, appunto, in un processo incessante di
distruzione creatrice.
1.2. Altri contributi sul ruolo giocato dalle nuove imprese
Partendo dalle intuizioni di Schumpeter sono stati molti gli economisti che negli ultimi
decenni hanno provato a costruire modelli teorici interpretativi delle dinamiche di
sviluppo economico. In essi l'entrata e l'uscita di nuove imprese costituiscono un
meccanismo che agevola l'innovazione e la nuova adozione di tecnologia, aiutando così
a spostare risorse da unità meno produttive ad altre più produttive.
Alcune varianti dei modelli di obsolescenza sul cambiamento tecnologico, in
particolare, sottolineano il ruolo del turnover delle imprese per l'adozione di nuove
tecnologie. Questi modelli sono basati sull'idea che le nuove tecnologie sono spesso
incorporate nelle “sessioni” più recenti di capitale. Esse infatti implicano non solo costi
di investimento diretto, ma anche costi di riorganizzazione dei processi di produzione
esistenti e di riaddestramento dei lavoratori per adottare le nuove tecnologie (si veda per
esempio Solow, 1960; Cooper, Haltiwanger e Power, 1997). Poiché evidentemente le
nuove imprese non devono riorganizzare il proprio processo produttivo, alcune varianti
di questi modelli attribuiscono loro un ruolo importante nel processo di adozione delle
nuove tecnologie (Caballero e Hammour, 1994; Campbell, 1997). Le imprese che
entrano con tecnologia all'avanguardia sostituendo realtà già esistenti dotate di processi
di produzione sorpassati, risultano così in questi modelli fondamentali per la crescita
della produttività.
10
Collegati a queste idee sono anche i modelli di crescita economica basati sulla ricerca
e sviluppo (R&S) (Grossman e Helpman, 1991; Aghion e Howitt, 1992), secondo i
quali le nuove imprese giocano un ruolo determinante nelle innovazioni in via di
espansione. L'investimento in R&S porta con una certa probabilità alla creazione di un
nuovo prodotto o di una nuova tecnologia di produzione. A seconda della variante del
modello, gli innovatori efficaci entrano nel mercato per estendere la varietà esistente di
prodotti (Grossman e Helpman, 1991) oppure sostituiscono le imprese presenti con una
variante di qualità più alta del prodotto precedentemente già esistente, guadagnando il
monopolio sui profitti fino a quando essi non sono a loro volta rimpiazzati da un nuovo
innovatore (Aghion e Howitt, 1992). In entrambe le versioni del modello, le nuove
imprese sono cruciali per l’innovazione. La variante di “distruzione creatrice” di Aghion
e Howitt (1992) suppone che questa sia associata allo stesso tempo sia all’entrata che
all’uscita delle imprese dal mercato. Poiché secondo queste teorie l'innovazione e il
cambiamento tecnologico sono le forze guida principali della crescita della produzione,
ciò implica anche che il processo imprenditoriale di creazione e distruzione di imprese
dovrebbe avere un impatto positivo sull’occupazione e la produttività.
Una parziale svolta rispetto ai due filoni teorici precedenti sul ruolo delle nuove imprese
per l’innovazione e per il cambiamento tecnologico viene invece dagli studi sui cicli di
vita dei prodotti, basati sulla stilizzazione dei fatti che riguardano l’evoluzione
industriale. Secondo questi lavori la quantità di imprese create e la natura
dell’innovazione in un'industria sono collegate alla sua maturità (Gort e Klepper, 1982;
Klepper, 1996). E’ infatti un fenomeno osservato di frequente che nei settori industriali
giovani, la creazione di nuove imprese come pure l'innovazione di prodotto è elevata e
le quote di mercato cambiano rapidamente, visto che in esso entrano molte imprese con
nuovi prodotti. Negli stadi successivi del ciclo di vita del prodotto, invece, il numero di
nuove imprese cala, le quote di mercato si stabilizzano e gli sforzi innovativi si
rivolgono principalmente al miglioramento del processo produttivo piuttosto che
all’introduzione di nuove varianti di prodotto.
Klepper (1996) ha sviluppato un modello che spiega questi fenomeni con l’esistenza di
economie di scala nel processo di innovazione a causa dei costi fissi associati all’attività
di ricerca e sviluppo (R&S). All'inizio del ciclo di vita del prodotto la maggior parte
delle imprese sono ancora piccole e c'è incertezza sulle preferenze dei
11
consumatori/utenti e sui mezzi tecnologici per soddisfarle. In questi stadi iniziali, le
nuove imprese possono competere con quelle esistenti più grandi entrando con una
nuova versione del prodotto. Le innovazioni di prodotto vengono incorporate nei beni
standard del mercato ed il loro prezzo scende poi nel tempo a causa delle innovazioni di
processo. Il risultato è che le imprese più avanzate crescono, mentre quelle meno
produttive falliscono e vengono sostituite da produttori più innovativi e più piccoli. A
questo punto, dal momento che le imprese di maggior successo si espandono, il
vantaggio derivante dalle grandi dimensioni nel processo di ricerca e sviluppo mette
pian piano le nuove entranti in condizioni di un tale ritardo di costo che esse cominciano
a diminuire. Alla fine le imprese rimaste stabilizzano le loro quote di mercato e basano
la competizione principalmente sulle loro dimensioni e sulle innovazioni di processo.
E’ chiara allora la svolta, o almeno il parziale cambiamento di rotta, di queste idee
rispetto a quelle dei modelli di crescita di distruzione creatrice (e in ultima istanza di
Schumpeter): qui infatti le nuove imprese portano un vantaggio solamente per alcune
tipologie e fasi dell’innovazione, vedendosi così in parte delimitata e ridimensionata la
loro sfera di efficacia.
Sebbene gli studi sui cicli di vita dei prodotti non siano stati sviluppati direttamente per
spiegare le dinamiche d’impresa, è plausibile ipotizzare sulla loro base che gli alti tassi
di entrata di imprese all'inizio della vita di un nuovo prodotto coincidano con un’alta
crescita della produzione e dell’occupazione, in considerazione del fatto che sia le
nuove imprese che quelle esistenti si espandono quando ci sono ancora opportunità
tecnologiche e di business non sfruttate. Tuttavia queste ultime diventano invece più
scarse nelle industrie mature, cosicché ci si deve aspettare che l'entrata di nuove unità
così come l'espansione di quelle esistenti mano a mano si stabilizzi. La pressione
competitiva all’innovazione e all’incremento della produttività sarà allora
particolarmente alta negli stadi iniziali e più turbolenti del ciclo di vita del prodotto
determinando un grande rimescolamento di imprese, mentre negli stadi successivi
l’innovazione verrà portata avanti dalle grandi imprese rimaste con l’implementazione
di nuove formule di processo.
12
2. NUOVE IMPRESE E SVILUPPO ECONOMICO: ANALISI EMPIRICHE
Il framework teorico appena presentato dimostra come siano molti i modelli di crescita
economica che sottolineano, seppure con sfaccettature diverse, l’importanza delle nuove
imprese per l'innovazione e l'adozione di tecnologia e di conseguenza, visto che in essi
il cambiamento tecnologico viene ritenuto il driver principale della crescita economica,
per l’espansione della produzione e dei posti di lavoro.
Nel corso degli ultimi decenni sono stati realizzati numerosi studi empirici per cercare
di verificare la validità di tali modelli e per testare quindi il ruolo realmente esercitato
dalle nuove imprese nella crescita di un sistema economico. Per quanto possano essere
acute e convincenti le elaborazioni teoriche, non si può infatti stabilire a priori se
l’aumento del numero di nuove imprese sia desiderabile o meno e se si debba aspirare o
no a più alti tassi di sopravvivenza delle stesse.
Al fine di abbozzare una risposta convincente alle due questioni appena sollevate si
esporranno di seguito i principali risultati ricavati sul tema da due importanti e recenti
lavori dell’Ocse
2
(Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico),
2
L'origine dell'OCSE (OECD in inglese: Organisation for Economics Co-Operation and Development)
risale al dopoguerra allorché i paesi europei non comunisti firmarono l'OECE, un trattato di cooperazione
europea per la ricostruzione. A ricostruzione conclusa l'organizzazione si diede un nuovo obiettivo:
incrementare gli scambi commerciali nei paesi occidentali e far crescere la loro economia.
Così alla vecchia OECE si aggiunsero l'USA e il Canada e nacque l'OCSE. Dal 1963 si sono aggiunti altri
paesi tanto che oggi l'OCSE conta 29 membri (Australia, Canada, Finlandia, Francia, Irlanda, Corea del
Sud, Olanda, Polonia, Svezia, Gran Bretagna, Austria, Cecoslovacchia, Francia, Ungheria, Italia,
Lussemburgo, Nuova Zelanda, Portogallo, Svizzera, USA, Belgio, Danimarca, Germania, Islanda,
Giappone, Messico, Norvegia, Spagna, Turchia).
L'OCSE è stata definita come una struttura di monitoraggio, un'università "non accademica". Nessuna di
queste determinazioni, tuttavia, riesce a catturare la vera essenza dell'OCSE. Essa fornisce ai Governi una
piattaforma di discussione sullo sviluppo e sul perfezionamento della politica economica e sociale. Gli
Stati membri mettono a confronto le proprie esperienze, cercano risposte a problemi comuni e coordinano
le politiche nazionali ed internazionali al fine di costituire una rete di esperienze omogenee. Tali scambi
possono condurre alla conclusione di accordi formali - per esempio, regolamenti vincolanti per la libera
circolazione di capitali e servizi, accordi per eliminare la corruzione o far cessare i sussidi ai costruttori
navali. Ma più spesso la loro discussione è finalizzata a garantire una maggior informazione nell'ambito
della politica pubblica e a chiarire l'impatto delle politiche nazionali sulla comunità internazionale. Inoltre
offre la possibilità di riflettere e scambiare idee e progetti con altri Paesi a loro simili.
13
precisamente i paper “Business dynamics, regulation and performance” di Nicola
Brandt (17 marzo 2004) e “The role of policy and institutions for productivity and firm
dynamics: evidence from micro and industry data” di Stefano Scarpetta, Philip
Hemmings, Thierry Tressel e Joejoon Woo (23 aprile 2002).
Come si vedrà, i due lavori, pur partendo da tecniche analitiche diverse (calcolo di
correlazioni, equazioni di stima e regressioni il primo, scomposizione dei dati il
secondo), portano a conclusioni sostanzialmente complementari, fornendo insieme delle
precise indicazioni sul reale contributo dell’entrata delle nuove imprese per la crescita
dei principali indicatori del sistema economico.
2.1. Brandt: tassi d’entrata e misure di performance economica
Un primo modo abbastanza agevole di verificare in che misura le nuove imprese
influiscano sulla crescita di un settore economico è quello di calcolare la semplice
correlazione in un dato periodo tra i tassi d’entrata delle prime e l’incremento della
produttività, innovatività ed occupazione del secondo. Questo è proprio quello che fa
Brandt all’inizio del suo paper, utilizzando dati Eurostat riferiti alle imprese dei
principali paesi dell’area Euro e all’arco temporale rappresentato dagli anni 1998-2000,
un periodo di “boom” dei mercati caratterizzato da un’alta produzione e crescita del
lavoro praticamente in tutti i paesi investigati. La scelta di questi dati presenta per la
verità i difetti di una copertura limitata in termini temporali e di una scarsa variazione
nelle informazioni aggregate disponibili sull'entrata di nuove imprese e sulla crescita
dell’occupazione e della produzione, ma ciò non pregiudica comunque la possibilità di
trarne indicazioni interessanti.
Nella Tabella 1, ad esempio, sono riportati i dati ottenuti calcolando per i paesi e i
settori presi in analisi le correlazioni tra i tassi d’entrata e la crescita,
rispettivamente, della produzione, dell’occupazione e delle ore lavorate.
14
Tabella 1. Correlazione intersettoriale tra i tassi d’entrata e le misure di performance economica.
Ebbene la prima cosa che si può osservare è che tutte le correlazioni, sebbene di media-
piccola entità nella maggior parte dei casi, risultano significative ad ogni intervallo
indagato così come nella media del periodo campione. Ne consegue, evidentemente, che
a livello complessivo l’entrata di nuove imprese ha un effetto positivo e che pertanto si
dovrà in genere supporre che le industrie con più alti tassi d’entrata tendono anche a
sperimentare livelli maggiori di crescita della produzione e dell’impiego.
Questo primo risultato, relativo ai dati complessivi, subisce un’importante correzione se
si procede ad una disaggregazione per settori. Questa operazione mette infatti in luce
che i tassi di entrata di nuove imprese sono significativamente correlati con la crescita
della produzione e dell’occupazione nei comparti dei servizi (Tabella 2), ma la relazione
appare molto meno chiara (se non proprio priva di significatività) nei settori industriali.
Un dato, quest’ultimo, che a prima vista appare abbastanza sorprendente, perlomeno
stando ai modelli di crescita schumpeteriani, nei quali le nuove imprese influenzano in
maniera positiva la produzione e l’occupazione attraverso il loro contributo in termini di
innovazione e di adozione di nuova tecnologia.
Intervalli Correlazione Correlazione
Crescita produttività Crescita occupazione
0
1
2
Media
0,43***
0,37***
0,44***
0,57***
0,28***
0,18***
0,35***
0,40***
0,28***
0,24***
0,32***
0,38***
Correlazione intersettoriale tra i tassi d’entrata e le misure di
performance economica nell’economia totale
(tassi d’entrata nei diversi intervalli temporali e nella media del periodo 1998-2000)
Fonte: Brandt, 2004
Note: 1. *** indica significatività elevata (all’1%); ** significatività media (al 5%); * significatività bassa (al 10%).
2. I dati sulla crescita in termini di ore sono disponibili solo per Danimarca, Finlandia, Paesi Bassi e Svezia.
15
Tabella 2. Correlazione intersettoriale tra i tassi d’entrata e le misure di performance economica nei
servizi.
In realtà una spiegazione convincente a tale evidenza empirica esiste e la si può
ritrovare nelle teorie sul ciclo di vita del prodotto. Le industrie manifatturiere sono
infatti generalmente piuttosto mature. E poiché, come si è detto, secondo questi studi
negli stadi più avanzati l'attività innovativa è basata essenzialmente sulla spesa in
ricerca e sviluppo, caratterizzata da elevati costi fissi ed economie di scala, in esse le
grandi ditte esistenti presentano un netto vantaggio di costo nell’innovazione rispetto
alle piccole imprese nuove entranti. Non a caso la dimensione media delle imprese,
come dimostrano numerosi studi (si veda ad esempio Bartelsman e altri, 2003), è più
alta nella maggior parte dei settori industriali rispetto ai servizi e i comparti a più
intensa attività di ricerca e sviluppo sono proprio quelli manifatturieri.
Proprio perchè le industrie manifatturiere sono quasi tutte (ad eccezione dei settori dei
computer e delle macchine da ufficio) piuttosto mature e con bassi tassi d'entrata,
diventa allora logico attendersi che gli stessi dati di ingresso di nuove imprese giochino
un ruolo estremamente marginale nella spiegazione delle variazioni osservate
nell’innovazione, nella produzione e nella crescita di occupazione. Queste variabili sono
infatti qui guidate da altri fattori, come, appunto, l’ampia attività di ricerca e sviluppo
compiuta dalle grandi imprese esistenti.
Intervalli Correlazione Correlazione
Crescita produttività Crescita occupazione
0
1
2
Media
0,40***
0,36***
0,51***
0,59***
0,34***
0,29***
0,35***
0,53***
0,40***
0,50***
0,57***
0,57***
Correlazione intersettoriale tra i tassi d’entrata e le misure di
performance economica nei servizi
(tassi d’entrata nei diversi intervalli temporali e nella media del periodo 1998-2000)
Fonte: Brandt, 2004
Note: 1. *** indica significatività elevata (all’1%); ** significatività media (al 5%); * significatività bassa (al 10%).
2. I dati sulla crescita in termini di ore sono disponibili solo per Danimarca, Finlandia, Paesi Bassi e Svezia.
16
Diverso è invece il discorso relativo ai servizi, dove si ha una maggiore variabilità di
situazioni. Infatti, mentre il settore manifatturiero risulta piuttosto omogeneo in termini
di maturità, quello dei servizi comprende comparti con molti segmenti di mercato
giovani e dinamici e con alti tassi di entrata (come le telecomunicazioni e i servizi legati
ai computer e alla consulenza d’impresa) e comparti più maturi con tassi di entrata
inferiori (è il caso della vendita all'ingrosso, del commercio al dettaglio, degli hotel e
dei ristoranti per non parlare di alcuni ambiti dei settori assicurativi e finanziari).
Proprio in virtù di tale variabilità, e della presenza di un maggior numero di comparti
giovani, si spiega il dato per cui le nuove imprese esercitano nei servizi una maggiore
influenza in termini di crescita della produttività.
Una sostanziale conferma a questi primi importanti risultati, la si ha anche quando si
passa ad analizzare in maniera più approfondita il contributo delle nuove imprese sulla
crescita dell’occupazione facendo specifico riferimento alla loro attività innovativa.
Brandt, in particolare, suppone che i tassi di entrata d’impresa catturino l'attività
innovativa delle debuttanti e la pressione competitiva create da esse, che possono
forzare sia le nuove che le vecchie imprese a rinnovare ed aumentare la loro produttività
per restare sul mercato. Sempre l’utilizzo di semplici correlazioni suggerisce l’esistenza
di un legame positivo tra i tassi di nascita e la produttività del lavoro nel settore dei
servizi, che risulta più forte relativamente ad intervalli più lunghi (Tabella 3).
Tabella 3. Correlazione intersettoriale tra i tassi d’entrata e la crescita dell’occupazione e della
produttività delle ore lavorate.
Correlazione con la produttività del
lavoro in termini di occupazione
0
1
2
Media
0,17*
0,15
0,45***
0,19
0,23***
0,27***
0,45***
0,42***
Correlazione intersettoriale tra i tassi d’entrata e la crescita
dell’occupazione e della produttività delle ore lavorate
(tassi d’entrata nei diversi intervalli temporali e nella media del periodo 1998-2000)
Fonte: Brandt, 2004
Correlazione con la produttività del
lavoro in termini di ore
Note: 1. *** indica significatività elevata (all’1%); ** significatività media (al 5%); * significatività bassa (al 10%).
2. I dati sulla crescita in termini di ore sono disponibili solo per Danimarca, Finlandia, Paesi Bassi e Svezia.