2
inserito in un ambiente riconducibile a una Francia di fin de siecle con tutte le
suggestioni che questo comporta, va ad assumere tutta la serie di significati
attribuibili in origine ai soggetti secondari. Viene a crearsi quindi una sorta di
passaggio di senso: come ha esemplificato Corrigan
3
quando “il prodotto ha
catturato la realtà, la realtà del mondo proviene dal prodotto; il prodotto significa
realtà e, se vuoi esistere davvero, devi comprare quel prodotto”.
In questo processo di definizione di senso ha ruolo fondamentale il ricevente dei
messaggi, quanto chi li emette: uno giustifica l’altro fino ad un’influenza tale che
permetta la legittimazione di una nuova cultura sociale. “I media” dice
Meyrowitz
4
“non sono semplicemente dei canali che trasmettono informazione
tra due o più ambienti, ma piuttosto ambienti in se stessi o di se stessi”, essi
producono “una raffigurazione ridotta e semplificata della realtà sociale”
5
in cui
vengono a crearsi esemplificazioni dei vari ruoli sociali. Le informazioni di cui si
può disporre per l’apprendimento dei ruoli altrui e per l’identificazione della
situazione in cui ci si trova sono, secondo Goffman
6
, limitate e scarse. Pertanto
ogni individuo disegna, secondo un modello drammaturgico, una sorta di
palcoscenico in cui dispone ordinatamente i vari ruoli sociali che incontra nella
propria rappresentazione. Quando le informazioni non sono disponibili in modo
naturale, queste vengono formate rapidamente, a causa dei brevi tempi in cui si è
costretti a comporre l’immagine sociale; queste eidos platoniche si costruiscono
su di elementi semplici: l’abbigliamento, l’arredamento di un ambiente, i gesti e
una successione di elementi che verranno approfonditi nel Capitolo 3. In questa
“stenografia sociale”
7
è errato ritenere colpevoli di falsità coloro che investono la
propria vita nel personificare se stessi e gli altri in ruoli sociali predeterminati,
Goffman suggerisce piuttosto di porre l’attenzione sull’atteggiamento del
soggetto verso questi ruoli e la sua sincerità verso di essi. La maggior parte dei
3
Peter Corrigan, La sociologia dei consumi , Franco Angeli, Milano, 1999 cit., p. 135
4
Joshua Meyrowitz, Oltre il Senso del Luogo, Baskerville, Bologna, 1993
5
Codeluppi, 2001, cit. p.48
6
Goffman, 1959
7
Meyrowitz, 1993, cit. p. 49
3
concetti che vengono usati per definirsi sono relazionali e di tipo sociale, la
pubblicità si dimostra in quest’ottica un laboratorio di costruzione sociale e,
secondo una definizione di Pollay, uno “specchio deformante” che riflette ma, al
tempo stesso, modifica la realtà attraverso prototipi estremamente irreali, ma
fortemente strumentalizzati tali da poter essere compresi nella comunicazione
rapida e semplificata che è la pubblicità. Questo fenomeno, come già accennato
poco fa, si riconduce a Goffman ed è ciò che egli chiama “iperritualizzazione”; la
pubblicità va a costituire un macrotesto culturale che contiene tutti i legami di
una società disorientata. I consumatori non acquistano beni solo per specifici
bisogni materiali, bensì per una funzione immateriale e molto ampia: la propria
costruzione sociale. Una costruzione che il singolo individuo crede personale e
distintiva, ma che in realtà, come afferma anche Ronald Berman
8
, nasce da una
pubblicità che cerca tutt’al più “l’uomo che non si distingue”. La pubblicità
cerca, e talvolta crea, una massa scomponibile in sotto categorie che
corrispondono ai diversi target
9
. Ogni target di uno specifico oggetto si lega
indissolubilmente ad una situazione e, cambiando il tipo di situazione, osserva
Meyrowitz
10
, i media possono indurre ad un cambiamento per una “grande
quantità di ruoli sociali”.
I ruoli sociali di fatto sono molto cambiati nell’ultimo secolo e mezzo, piccoli
cambiamenti causati dalla pubblicità, e grossi cambiamenti che essa ha
accompagnato e visto crescere.
Possiamo affermare che essa nasca in un clima che la richiede fortemente: la
Rivoluzione Industriale e quella Francese sono interessate da forti cambiamenti
culturali, nonché sociali, economici, tecnici e distributivi. Aumentano i consumi,
si sviluppa l’informazione e nascono le classi sociali moderne. La pubblicità da lì
a poco diverrà saldamente legata al concetto di arte: da essa trae spunto
attraverso strumenti linguistici ed espressivi, ma di essa si diletterà a ricostituirne
8
Ronald Berman, Pubblicità e cambiamento sociale, ed. Angeli, Milano 1990 cit., p.16
9
nel linguaggio del marketing, analisi preventiva dei possibili compratori di un prodotto e relativa
programmazione delle vendite.
10
Meyrowitz, 1993, pag. 85
4
il tessuto. La seconda metà dell’Ottocento è l’epoca dei manifesti, basta pensare
a Henri Toulouse-Lautrec; ma da luogo alla nascita di una pubblicità
professionale che gode delle prime agenzie strutturate (la prima, si ricorda, nasce
nel 1841 a Philadelphia). Cominciano ad essere studiati modelli psicologici e
comportamentali da applicare alle teorie del consumo. E’ l’epoca poi del
futurismo, esso per conformazione abbraccia tutti i campi comunicativi, è
proiettato al futuro e non può che dialogare con la pubblicità stessa. Il Dadaismo
nasce già nel suo nome come trovata pubblicitaria, questo, formato da due lettere
ripetute, è un nome facile e molto mnemonico. Durante la rivoluzione bolscevica
(1917) la pubblicità converge nella propaganda politica così come avverrà per la
Grande Guerra. Negli anni Venti il proposito è suscitare desiderio per il
desiderio
11
, ma con la crisi economica del ’29 le imprese capiscono di dover
riuscire a vendere, anche in un mercato depresso. L’invito del modello T
12
non è
più valido, negli USA nascono le prime agenzie pubblicitarie moderne dove si
diffondono le prime vere teorie di marketing. La guerra porterà le energie
creative ad uno stato di crisi, la ripresa avverrà tra boom economico e nuova
società dello spettacolo. In Italia nasce la Rai (1954) ed il Carosello (1957), si
diffondono le conoscenze sulla pubblicità e nasce il primo dizionario tecnico. Da
vero spettacolo godibile, a seguito delle contestazioni Sessantottine la pubblicità
viene additata come fomentatrice di consumismo sfrenato. E’ il Convegno
Nazionale della Pubblicità nel 1986 a rilanciare la pubblicità in un ritrovato
consumismo, tutto diventa pubblicità. Consumare non è più una colpa
13
,
l’attenzione sociale si muove dall’interesse politico a quello meramente
personale. Ora, a differenza degli anni 70, è l’immagine, e non più la parola, a
calcare la scena. Gli anni Novanta non iniziano nel migliore dei modi. Le
11
Il primo comunicato radio (1922), influenzato dagli albori degli studi di Behaviorismo di J. B. Watson
recita: “Pensate alla vostra salute, ai vostri desideri, alla felicità di casa vostra […] lasciate la città
congestionata e godetevi ciò che la natura vuole che vi godiate: visitate i nostri appartamenti a Jackson
Height”.
12
“Sceglietelo di qualunque colore, purchè sia nero”, questo era lo slogan pubblicitaria dell’impresa
autmobolistica Ford ai tempi del modello T.
13
Annamaria Testa, La Pubblicità, Il Mulino, Bologna, 2004, cit. pag. 54
5
imprese possiedono uguali conoscenze di know-how pubblicitario e nei primi
anni il consumo di marca entra in crisi, gli hard discount, “capannoni persi nelle
periferie, dove oscuri prodotti ammucchiati in tetri scatoloni di cartone si
vendono a prezzi stracciati” (A. Testa, cit. p.56), rimpiazzano i consumi fino ad
allora tradizionale. Il consumatore impara a muoversi e, a seconda, delle sue
esigenze, predilige un consumo alto mescolato ad uno più basso. La seconda
metà del decennio apre nuovi scenari: la digitalizzazione informatica rende
possibile ciò che prima era riservato al disegno. Ad una riconfigurazione
dell’assetto strutturale delle agenzie pubblicitarie, si affianca la rivoluzione sul
concetto della marca: gli oggetti, dai più materiali, un frigo, un paio di scarpe, al
più immateriale, un profumo, non esistono più se non inseriti nella loro cornice
simbolica. L’atto di acquisto, dice Annamaria Testa, è spettacolarizzato, diviene
una shopping-experience che ha valore a prescindere dai beni acquistati.
Tirando le somme della storia della pubblicità possiamo individuare quattro fasi
di tecniche. Si inizia con una prima fase che Bernard Catheland chiama
persuasiva, le rèclame erano annunci elementari che si limitavano ad informare,
secondo principi e motivazioni razionali e funzionali, pochi privilegiati. Il
compratore veniva condotto per mano attraverso l’espediente narrativo della
prova dimostrativa delle ragioni che facevano di quell’oggetto un bisogno da
soddisfare. Il modello, che venne probabilmente individuato da St. Elmo Lewis
nel 1900 viene definito AIDA in base alle strategie usate per coinvolgere lo
spettatore: Attenzione, Interesse, Desiderio, Acquisto. Dalla critica che
argomenta che l’acquisto non è frutto di un processo logico, ma piuttosto una
lunga maturazione considerata tra pulsioni emotive e sociali si passa alla fase
meccanicista. Sono anni in cui aumenta la standardizzazione dei prodotti, fattore
che impedisce una più semplice differenziazione funzionale, e sono gli anni degli
studi di Pavlov relative al riflesso incondizionato. Il consumatore diventa ancor
più un soggetto passivo su cui agire condizionando la sua sfera incosciente. La
strategia cambia: non più motivazioni razionali, bensì l’impatto attraverso un
bombardamento di messaggi sul valore d’uso. Messaggi chiari che durassero nel
6
tempo (attraverso loghi e slogan univoci): una strategia però fallimentare per i
prodotti più emotivi e specialmente, per i prodotti già definiti nel senso comune e
cioè, la stragrande maggioranza dei modelli d’acquisto. Negli anni Quaranta si
passa all’USP
14
, una proposta esclusiva di vendita che, mediata dall’idea che di
ogni messaggio se ne ricordi solo un aspetto, forza sulla promessa di beneficio
che il prodotto offre. Negli anni Sessanta si comprende finalmente che le
motivazioni razionali sono spesso solo una giustificazione posteriore all’acquisto,
ciò che spinge al consumo è l’inconscio. La pubblicità diventa suggestiva,
supportata da ricerche di mercato, vende sogni. Il passo è breve: la pubblicità
oggi viene detta proiettiva, o sociologica. Essa è “un valore aggiunto di tipo
sociale al prodotto (di tradizione, di modernità, di moda, di elitarismo, di
democrazia, ecc.)”
15
, essa vende senso, e perciò è più che mai immateriale. Come
un profumo.
14
Unique Selling Proposition
15
Codeluppi 2001, cit p.81
7
CAPITOLO 1 - PRODURRE SENSI E SIGNIFICATI
Nell’introduzione si è detto come la pubblicità sia, a fronte di ogni analisi
possibile, un ordinato distributore sociale di significati. In effetti, un mercato
come quello dei profumi, inserisce i comunicatori che ne divulgano l’esistenza,
in un laboratorio di osservazione e costruzione sociale. Una situazione che
psicologi e sociologi potrebbero forse invidiargli, viste le ingenti somme che i
pubblicitari delle grandi aziende possono investire in analisi e studi del target.
Questo mercato infatti non vende funzioni, ma sensazioni e in particolare modi di
essere, mood. Le pubblicità dei profumi difficilmente propongono usi pratici,
come accadrebbe in un prodotto profumato quale un deodorante; quest’ultimo
gode di precise funzionalità, un profumo si limita a suggerire un umore,
un’atmosfera, un modo di essere per munirsi di una personalità o per incentivarne
la propria che già si possiede. Perciò, posto che il profumo non ha una vera
funzionalità, la sfida verte non tra i diversi prodotti, ma tra le loro
rappresentazioni e percezioni. E’ il marketing a farne le differenze, attraverso un
linguaggio sensoriale che da un odore trae le emozioni e con una continua
alimentazione dell’essenza di marca ne evita l’annichilimento.
1.1 La Marca
Laddove c’era USP, oggi Triani
16
suggerisce esserci USE, unique selling
emotion: di tanti concetti si ricorda solo l’emozione, la sensazione e la marca è
una persona, capace di comunicare con altre persone “tutto il carico immaginario
e onirico di una filosofia”
17
. Definiamo marca (o logo, marchio, brand) un
segno, verbale o grafico, di riconoscimento, distinzione e identificazione, di un
16
G. Triani, Sedotti e comprati, la pubblicità nella società della comunicazione, Milano, 2002
17
Triani, 2002, cit pag. 69
8
prodotto o servizio con una filosofia fortemente caratterizzante per chi le offre e
per chi le utilizza. Nata come funzione mercantile, è oggi soprattutto un
distintivo mentale essenziale per sensibilizzare un prodotto, togliendolo dal suo
meccanismo standardizzato di fabbricazione, rendendolo più umanamente
connotato, in un certo senso come artigianale. La griffe offre riconoscimento
sociale, i prodotti firmati sono identitari per chi se ne serve. Oltretutto in un
mondo saturato dalla produzione, Triani calcola che, in una media europea,
occorrerebbero più di dieci vite per provare tutti i prodotti in circolazione: in
questo senso la marca si rivela un palliativo per motivare la propria scelta. Le
ricerche motivazionali hanno svolto fin troppo bene il loro compito: ci si ritrova
con un target così segmentato che non solo giustifica una tale saturazione di
mercato, ma richiede una diversificazione dal prodotto, detta brand extension,
non necessariamente collegata alla sua innovazione che prevede per esempio 72
varietà per lo shampoo Pantene. Piccole variazioni sul tema imboniscono l’ego
del consumatore e conquistano più ripiani sui banconi dei punti vendita. In
termini aziendali, la brand extension permette di contare e guardare al futuro
grazie al valore assoluto che, in un mercato quasi del tutto indifferenziato, viene
a rappresentare quel marchio che Triani chiama ombrello. Pur rimanendo un
soggetto immateriale il marchio, di fatto ricopre buona parte dell’asset
economico di un’azienda, ha infatti un valore economico molto alto che viene
calcolato, ogni anno dalla rivista Business Week. Per l’anno 2005
18
il brand più
quotato è stato quello della Coca-Cola, il primo marchio che si occupa anche di
profumi (e tra l’altro il primo italiano in classifica) è Gucci al 49° posto, Chanel,
marchio storico, si situa “solo” al 65°. La Boston Consulting Group analizza
l’incidenza della marca in relazione al settore di appartenenza: quello del lusso e
della moda, in cui rientra il mercato dei profumi, si basa fino al 70% sulla
pregnanza del marchio contro una percentuale che si sposta tra il venti e il
18
Fonte Interbrand, società che si occupa della gestione della classifica annuale dei primi cento marchi
globali con un valore superiore a 1 miliardo di dollari, tenendo conto di quanto questo valore contribuisca
al profitto netto dell’azienda.
9
quaranta percento nel mercato manifatturiero (alimentari e detersivi). Il valore
del brand non è eterno e immutabile, occorre tempo e investimento per far sì
che lampi tumultuosi come le emozioni rimangano ancorati alla tradizione
culturale e simbolica di un’azienda. Il marchio deve perpetuare una sorta di
“relazione emozionale col cliente” (Triani, 2002) per non cadere nell’anonimato.
Un mindmark, più forte del trademark cui si era abituati, che promuove valori,
stili di vita, e talvolta, perfino eventi. Il finto trailer, girato da Baz Luhrmann,
regista di Moulin Rouge, con la partecipazione di Nicole Kidman, che
pubblicizza nel 2004 la bottiglietta del celebre Chanel n.5 venne annunciato con
articoli e curiosità circa due mesi prima di una osannata anteprima dell’intero
spot (due minuti per la versione long) lunedì 6 dicembre 2004 alle ore 20.30 su
Canale 5. Occorre, sempre e comunque, che un marchio rimanga in costante
riferimento ad una realtà “fisicamente sperimentata dagli individui”
19
e ai suoi
individui, prodotti e prestazioni. Va ricordato che essa non va considerata solo in
relazione ai suoi molteplici aspetti immateriali, in tal modo essa mancherebbe di
coerenza e sarebbe priva di quella concretezza che le permette di influenzare la
realtà fisica
20
.
1.1.1 Vettore di senso
21
La dote principale della marca che qui ci interessa analizzare è, come già
accennato, la capacità di produrre dei discorsi e di dotarli di un senso da
comunicare ai destinatari. In tale logica la possiamo definire un vettore di senso,
un principio quindi notevolmente astratto e suscettibile perciò di essere
modificato e declinato differentemente a seconda di situazione, emittente e
destinatario. Si comunica così che Envy Me prodotto da Gucci sia un profumo
19
Vanni Codeluppi in Prefazione per Andrea Semproni, La Marca, Milano, 2003
20
Negli anni 80 il brand subisce una strategia operante solo nelle sue caratteristiche immateriali, fu una
strategia erronea che portò all’insterilimento del brand stesso, si veda in seguito.
21
Questo ed il prossimo titolo dei sottoparagrafi sono mediati da Semprini, 2003, testo al quale si riferisce
l’analisi del brand.
10
audace e giovane, che Eternità Moment di Calvin Klein sia delicato e romantico,
nello stesso momento in cui Nazareno Gabrielli confeziona un package da
viaggio per un profumo fresco e solare. Ogni marca quindi, crea un suo personale
discorso ispirato alla sua storia e vocazione, ma anche e soprattutto orientato ai
gusti della sua clientela. Per individuare un nesso causale tra il senso ed il
prodotto, si può ricorrere alla semiologia. Barthes, negli anni sessanta, si occupa
in tale prospettiva di analizzare proprio la marca. Questa disciplina studia la
comunicazione e le sue manifestazioni come sistemi di segni ordinati secondo
schemi influenzati dalle lingue naturali. Ogni elemento che compare in una
campagna pubblicitaria (una boccetta di profumo, un velo che cade lungo il
corpo, un gatto) costituisce un simbolo, un segno che parla di altri significati
oltre la mera significazione dell’oggetto. In questa logica, ogni marca va a
costituire il proprio discorso in modo implicito servendosi dei “significati
espressi dai segni che utilizza nelle sue differenti manifestazioni”. Se una marca
alimentare può esprimere secondo questo principio la sua predisposizione ad
alimenti sani ed una banca dimostrare sicurezza e fiducia, il brand di profumo
propone, sempre a seconda dei casi, diverse estensioni da applicare al proprio sé.
L’analisi semiologica pur permettendoci di decodificare facilmente una serie di
segni, non ci aiuta però nel gerarchizzarli e nell’identificarli facilmente.
Interviene in aiuto l’analisi semiotica, questa considera il discorso del brand
come una narrazione vera e propria intesa come un sistema di significazione
complesso, ovvero composto da diversi attori, livelli, gradi di importanza e
pertinenza. Per studiare come un senso è comunicato, è necessario, se si segue
un’analisi semiotica (che verrà adottata in seguito nei casi studio), partire da
come esso viene costruito. In tal modo diventa possibile suddividere la
narrazione in diversi livelli. La peculiarità di storia illustrata permette di
concentrarsi sul contenuto manifesto del discorso e di individuarne lo sviluppo
progressivo del senso. Come in un film, una figura astratta di uomo o di donna,
diviene un personaggio preciso e caratterizzato grazie ad una continua