4
mondo.
3
L’avere voltate le spalle a Eco è stato il gesto di allontanamento che ha lacerati
i vincoli che legavano l’uomo all’universo e di cominciamento dello sviluppo di
un’individualità separata e distinta. Indipendente e autoreferenziale. Presuntuosa.
Hibristica. Una sorta di nous aristotelico, pensiero di pensiero, destinato ad una
speculazione infinita. Il cartesianismo solidificherà questa mens pura et abstracta e la
coscienza, furtiva e lasciva, si insinuerà per decretare insormontabile lo iato che aveva
disgiunti il soggetto, sempre protagonista, dall’oggetto, sodomizzato; tra loro non
rimarrà niente; tra loro il nulla. L’obiettivo sarà pertanto quello di (cercare di) palesare
il recondito rimasto non detto dell’"enigma metafisico"
4
di cui l’autoritratto si fa
portavoce: il non detto, imprigionato nelle strette maglie del mito che si risolve nella
disgraziata morte del bel giovinetto, è stato svelato (o stelato)
5
in maniera del tutto
eccezionale, con originalità e ardimento, dagli autorittrattisti contemporanei che,
avventuratisi come pionieri nell’arduo cammino (non solo) interiore cui l’arte di sé
costringe durante un "secolo iconoclasta"
6
quale il XX, sono stati capaci di esporre
come mai prima tutto il bagaglio luttuoso del decesso del loro predecessore,
facendosene carico in virtù di un (eventuale) superamento. Gli autoritrattisti
contemporanei si assunsero il meritevole nonché gravoso incarico "di portare alla luce
[traire au jour] il fondo stesso"
7
di una morte che ha percorsa tutta la cultura
dell’Occidente, "perché in Narciso non muore un altro qualsiasi, ma è l’io stesso che
3
Cfr. A. Boatto, Narciso infranto. L’autoritratto moderno da Goya a Warhol, Laterza, Roma-Bari 1997,
1998².
4
P. Bonafoux, "Specchio & fotografia. Dove ci si rende conto che l’immagine di sé è sempre l’immagine
di un altro", capitolo compreso in P. Bonafoux (a cura di), Moi! L’autoritratto nel XX secolo, Skira-
Rizzoli illustrati-Bompiani Arte, Milano 2004, p. 253.
5
Il pittore "si espone e si eclissa, uscendo da sé e facendo entrare nel quadro noi che lo guardiamo. In
questo senso, lo svelamento -come dice Nancy- è sempre uno stelamento, il portare al di fuori della tela e
della superficie pittorica".
R. Kirchmayr, "Jean-Luc Nancy e 'l’esposizione' del soggetto", postfazione all’edizione italiana di J. L.
Nancy, Le regard du portrait, Galilée, Paris 2002, a cura di R. Kirchmayr, Il ritratto e il suo sguardo,
Cortina, Milano 2002, p. 99.
6
P. Bonafoux, "Corpo & vanità. Dove ci si accorge che la comparsa del corpo, della sua sessualità, non
modifica quella che è la vera posta in gioco della rappresentazione di sé: tenere testa alla morte",
compreso in P. Bonafoux (a cura di), op. cit., p. 196.
7
J. L. Nancy, Il ritratto e il suo sguardo, cit., p. 39.
Si tratta quindi di "trarre [traire], far uscire: questo è il primo valore del tratto. Il tratto è anzitutto ex-
tratto. La pittura è l’estrazione del tratto. […] Ritrarre è tracciare evidenziando [tirer en avant], al di fuori,
è presentare così come 'repraesentatio' (anteriore a 'praesentatio') è messa in evidenza [mise en avant],
messa in presenza".
Ibidem.
5
muore e che si guarda morire"
8
. Dover elaborare un lutto simile significa praticamente
chiedersi "cosa significa sentirsi e 'dirsi' io"
9
, in via del tutto eccezionale oggi, nella
società occidentale caratterizzata dal ridicolo cruccio sociale dell’immagine di sé che ha
rimpiazzati i valori per i quali tutti i filosofi e tutte le religioni si erano appassionati,
fino alla comparsa della psicoanalisi, per secoli e nei secoli.
10
Nella radicalità
dell’interrogativo portante, l’edificio narcisistico si verticalizza su una varietà quasi
inesauribile di ulteriori questioni che investono il corpo. Nonostante il termine
narcisismo rinvii al Circolo psicoanalitico di Vienna e alla psicanalisi in generale, nel
cui dominio venne introdotto a partire dal 1898, in tale sede si farà di tutto per evitare
un qualsivoglia approccio psicologico.
11
Investigare l’arte di sé "insidiosamente,
equivale a parlare non tanto di pittura, quanto di psicologia […], a domandarsi se
l’autoritratto non sia […] indizio di una crisi, di un’angoscia, di un’inquietudine. […]
Le probabili risposte di ordine psicologico, se non psicanalitico, […] non possono
valere che come ipotesi"
12
. Si preferirà quindi privilegiare la natura estesiologica di uno
studio il cui perno verrà naturalmente a coincidere con l’estetica del corpo, il corpo
dell’artista che mai come adesso si è fatto corpo dell’opera; il corpo umano insomma,
indiscutibile cardine dell’esperienza pittorica, o meglio dell’irradiazione pittorica, viene
coinvolto nella sua totalità sensoriale rendendo ogni autoritratto assolutamente
corporeo. Carnale. Le biotecnologie costringono oggi a riformulare molti dei parametri
8
F. Rella, "Per selve. Negli occhi di Narciso", capitolo compreso in F. Rella, Negli occhi di Vincent. L’io
nello specchio del mondo, Feltrinelli, Milano 1998, p. 40.
9
M. Carbone e D. M. Levin, "Prefazione" a M. Carbone e D. M. Levin, La carne e la voce. In dialogo tra
estetica ed etica, Mimesis, Milano 2003, p. 7.
10
In proposito cfr. M. Zambrano, La confesión: género literario, Mondadori-Bolsillo, Madrid 1988, tr. it.
di E. Nobili, La confessione come genere letterario, Mondadori, Milano 1997.
Commovente testo nel quale la filosofa spagnola si occupa di analizzare quali ragioni abbiano invece
condotto ad un vero e proprio disinnamoramento della filosofia.
11
Il termine narcisismo: da H. Ellis, che vi fece ricorso per esprimere l’amore del proprio corpo come
perversione. In ambito propriamente psicanalitico venne utilizzato a partire dal 1899, ossia da quando se
ne servì P. Näcke come vocabolo psichiatrico e poi I. Sadger che lo collegò all’omosessualità. Fu
sicuramente S. Freud, da una nota aggiunta ai Tre saggi sulla sessualità nel 1909, a consacrarlo come
perversione avente la forza di assorbire tutta la vita sessuale della persona che ne è affetta.
Le precedenti informazioni sono state tratte da A. Tagliapietra, note 21-22 al cap. "Medusa con la morte
negli occhi", compreso in A. Tagliapietra, La metafora dello specchio. Lineamenti per una storia
simbolica, Feltrinelli, Milano 1991, p. 209.
In proposito cfr. S. Freud, Drei Abhändlungen zur Sexualtheorie, Deuticke, Leipzig-Wien 1905, tr. it. di
J. Sanders, L. Breccia e D. Agozzino, "Tre saggi sulla sessualità", compreso in S. Freud,
L’interpretazione dei sogni, Psicopatologia della vita quotidiana, Tre saggi sulla sessualità, Newton
Compton, Roma 1982, pp. 517-575.
12
P. Bonafoux, "Somiglianza & diversità. Dove si accostano opere che non hanno nulla in comune e
mettono in risalto obiettivi e contraddizioni impliciti nella rappresentazione di se stessi", compreso in P.
Bonafoux (a cura di), op. cit., p. 47.
6
sui quali, per millenni, si sono orientate tanto l’esperienza scientifica quanto la vita
quotidiana e l’architettura delle passioni umane. Trasformatosi il senso della corporeità
e il sistema dei sentimenti che scandiscono i momenti più solenni dell’esistenza, come
nascita e morte, anche la coscienza della propria identità personale è radicalmente
mutata. Chi meglio di un esperto autoritrattista potrebbe dire di tutto questo? Che il
narcisismo debba poi per forza di cose avere a che fare con l’eros non lo si vorrà
mettere in discussione; piuttosto se ne farà un ulteriore motivo di convincimento
estetico. Pertanto, nell’aggettivare come estetico il taglio del presente lavoro, il
riferimento è all’etimologia greca del termine: αίσθητικός.
13
Appunto per questo
risulterà inevitabile interrogarsi sul corpo. "Quali sono i suoi confini? Che relazione con
lui ho io e che relazione hanno gli altri? E, a mia volta, che relazione ho io con i loro
corpi?"
14
"Può dirsi davvero mio il corpo che animo?"
15
Nell’analisi che Jean-Pierre
Vernant fa dell’individuo della polis nella Grecia tra i secoli VIII e IV viene stabilita
una netta distinzione tra "l’individuo fuori dal mondo e l’individuo nel mondo"
16
. La
pratica rinunciataria del primo permette, e promette, di uscire dal tempo attraverso
un’askesis morale, vera e propria "anacoresi in se stesso"
17
che implica una concezione
della psuche come anima soprannaturale oltrepassante ogni singola persona capace di
staccarsi dal corpo e di viaggiare nell’aldilà. Ma questa "è l’anima in me, piuttosto che
la mia anima"
18
, un daimon che si definisce solo in opposizione al corpo e a tutto ciò
che ad esso si ricollega. L’individuo greco era un soggetto estroverso che, per
concepirsi, doveva guardare altrove, fuori di sé, negli altri e in tutti gli specchi riflettenti
la sua immagine. L’esistenza, banalmente, veniva prima della coscienza di esistere e,
per un greco, il cogito ergo sum non avrebbe potuto avere alcun senso. Il suo Io non lo
si sarebbe potuto delimitare o unificare perché vero e proprio campo aperto di forze
molteplici. I pagani non erano dei rinunciatari; la religione intra-mondana che
praticavano non permetteva loro di staccare gli occhi da terra. Questa è una delle ragioni
per cui si tenterà di mantenere serrato il confronto con la cultura greca degli albori, non
13
L’impressione sensoriale, αίσθησις, che nel latino medioevale ha come corrispettivo il termine sensatio,
estende l’ambito di indagine al di là dell’esperienza del bello stricto sensu.
14
M. Carbone e D. M. Levin, op. cit., p. 7.
15
Ibidem.
16
J. P. Vernant, L’individu, la mort, l’amour, Gallimard, Paris 1989, tr. it. di A. Ghilardotti, L’individuo,
la morte, l’amore, Cortina, Milano 2000, p. 187.
17
Ibidem, p. 206.
18
Ibidem, p. 203.
7
per sottolinearne tutta la distanza storico-culturale quanto per rivelarne l’eccezionale
vicinanza alla contemporaneità come controcanto ad un possibile atteggiamento
nostalgico teso alla riattivazione del paradiso perduto. Quando nel III secolo d.C.
comparvero le figure dell’asceta e dell’anacoreta, progressivamente l’individuo andò
staccandosi dal sociale per mettersi alla ricerca di Dio; fu proprio (interrogandosi) al
Suo cospetto che il soggetto-uomo approdò alla scoperta dell’immensità prodigiosa e
insondabile dell’Io. Si preferirà mantenere marginale il riferimento alla mistica, seppur
imprescindibili saranno gli accenni al Padre Gesuita Michel de Certeau, esperto
investigatore delle zone liminari dell’esperienza che spesso si trovò a dover fare i conti
col paradosso e il contrasto.
19
Sant’Agostino con le sue Confessioni fu comunque il più
celebre e meritevole testimone, nonché il progenitore, di questa tendenza.
20
Fu così che,
insomma, in seno alla stessa cristianità occidentale, la comunità che circondava il
singolo iniziò ad apparire composita da persone fisiognomicamente distinte ed
emotivamente eterogenee che si andavano stagliando dalla massa degli illuminati
precedentemente compattata dalla grazia della fede. L’esigenza predominante era
divenuta quella di affermarsi come uomini, anzi: come individui. E chi sono io?
l’interrogativo al quale però la risposta homo sum di Sant’Agostino più non sarebbe
bastata.
21
Nell’Incoronazione della Vergine (1441-1447, Galleria degli Uffizi, Firenze)
il pittore Filippo Lippi si raffigurava tra la folla degli angeli, dei santi e dei devoti, non
in un atteggiamento di ossequio bensì di esitazione: l’identità del «tu sei questo!»
provenuta dall’esterno come valore di investitura, dalla Chiesa e dalla religione prima,
dalla potenza statale e dalla società laicizzata(si) poi, si tramutò nel cammino
introspettivo del nosce te ipsum. Nell’arte pittorica, l’avventura conoscitiva iniziata con
l’Oracolo di Delfi si sviluppò a partire dal quinto decennio del Millequattrocento,
quando i primi autoritratti fecero la loro comparsa come indiscussi esponenti del
maggiore genere profano nella storia della civiltà, il ritratto, proponendosi di rispondere
alla spigolosa questione. Il pittore cominciò a sottoporsi ad una vera e propria forzatura,
dal momento che dall’uno occorreva estrarre il due per poter asserire di essere (quel)
19
In proposito cfr. M. de Certeau, L’Etranger ou l’union dans la différence, Desclée de Brower, Paris
1969, tr. it. di V. Lanzarini, a cura di E. Bianchi, Mai senza l’Altro. Viaggio nella differenza, Fabbri,
Milano 1997.
20
In proposito cfr. Agostino, Confessiones, tr. it. di R. De Monticelli, Le confessioni, Garzanti, Milano
1991.
21
"E poi mi sono rivolto a me stesso e mi sono chiesto: 'Tu chi sei?'– 'Un uomo'".
Ibidem, X, 6.9., p. 178.
8
qualcuno. Insomma: il giro da compiere per la definizione di ciò che pare essere
incomparabilmente familiare, l’Io, è in verità molto lungo. Basterebbe pensare al
celebre Autoritratto di Johannes Gumpp (1646, Galleria degli Uffizi, Firenze),
prodigiosamente riecheggiato dal Triplo autoritratto di Norman Rockwell (1960,
Collection of Norman Rockwell Museum, Stockbridge, Massachussets). Soggetto
agente e oggetto paziente, al reversibile artista si impone di recitare
contemporaneamente due ruoli. Nonostante la rottura col passato pagano, l’individuo e
l’individualismo continueranno a definirsi in rapporto al gruppo di appartenenza e alle
istituzioni reggenti; alla valorizzazione della vita privata in relazione alla sfera delle
attività pubbliche; e all’intensità dei rapporti intersoggettivi.
22
L’uomo moderno ha
sicuramente perdute le caratteristiche che facevano del greco un "homo aequalis"
23
,
eppure ha affermata e vissuta la propria individualità con caparbietà: l’artista lo
testimonia e la storia dell’autoritratto lo accerta. L’uomo moderno si è preso cura di sé,
ha lavorato assiduamente sul sé mettendosi quotidianamente alla prova, arrivando anche
al punto di ammalarsi e morire. Tutto per amore di sé. Tutto per amore.
Seguendo scrupolosamente i suggerimenti di Pascal Bonafoux, curatore della mostra
sull’autoritratto che si tenne alla Galleria degli Uffizi di Firenze,
24
a partire dal primo
capitolo ci si addentrerà nel tentativo di definire un genere complesso quale
l’autoritratto, insistendo soprattutto sulla sua natura palindroma ed enigmatica: "un
gioco di prestigio"
25
, propone Bonafoux. Irrinunciabili risulteranno essere anche le
indicazioni di Alberto Boatto: ripercorrendo l’avventura spesso drammatica dell’uomo-
artista solo di fronte a se stesso, dall’inizio del moderno fino al suo tramonto, da Goya a
Picasso, da David a Boccioni, da Ingres a Bacon, Boatto rende disponibile il complesso
sostrato dal quale muovere per meglio carpire l’orientamento del post-moderno. Boatto
invita infatti a riflettere sul questo sono io: una proposizione che, nel pronunciarla,
attesta familiarità, vicinanza e appartenenza. Arrivò però il 1890:
26
il suicidio di Vincent
Van Gogh (sulla cui produzione autoritrattistica ci si soffermerà con speciale
22
Cfr. M. Foucault, Le souci de soi, Gallimard, Paris 1984, tr. it. di L. Guarino, La cura di sé. Storia della
sessualità 3, Feltrinelli, Milano 1995.
23
J. P. Vernant, L’individuo, la morte, l’amore, cit., p. 208.
24
Si tratta della mostra Moi! Autoritratti del XX secolo tenutasi alla Galleria degli Uffizi di Firenze dal 18
settembre 2004 al 9 gennaio 2005.
25
P. Bonafoux (a cura di), op. cit., p. 19.
26
Une saison en enfer, sottotitola A. Boatto.
In proposito cfr. A. Boatto, "Une saison en enfer", capitolo compreso in A. Boatto, op. cit., pp. 53-67.
9
dedizione), l’ingresso quasi euforico nella follia di Friedrich Nietzsche e la morte
miserabile di Arthur Rimbaud completano la deriva che travolge l’uomo e che
capovolge l’autoritratto, che allora si disgrega. Nel corso degli ultimi due secoli, dal
questo sono io si è approdati all’incertezza del io sono quello!? Incredulità, sgomento,
estraneità. Le mani del pittore hanno smarrita la disinvoltura con la quale puntavano il
dito indice sul modello. Non so più chi sono! sembrerebbe essere invece destinato a dire
l’artista, facendosi drammaticamente portavoce di un disorientamento comune. Si
potrebbe essere tentati di imputarlo alle atrocità del moderno; o all’evoluzione
tecnologica; o all’inflazione meccanica dell’immagine (della faccia) umana che ci ha
consegnati a quella che è, al momento, la "nostra condizione di rivedenti, piuttosto che
di vedenti: non possiamo neanche più dirci 'visionari', vista la nostra condizione di
'televisionari', appagati dalla ripetizione tautologica dello stesso 'oggetto' che […] ha un
ben determinato corrispettivo nella 'desertificazione' percettiva e nei prodotti delle
'macchine che vedono'".
27
La verità è che, indipendentemente da qualsiasi moderna
tecnologia o insistente ripetizione seriale, non è facile riconoscersi. Neanche nel riflesso
di una vetrina. Il pittore tenta di distinguersi primariamente grazie ad un nome. La firma
infrange l’anonimato: si tratta infatti di farsi ri-conoscere. "L’autoritratto è il luogo
appunto in cui si compie questa sfida"
28
. Eppure basterebbe pensare alle opere dipinte
da Lucian Freud intorno al 1970 per rendersi conto di quanto in realtà un nome non dica
poi molto: abitualmente, le persone non pensano a se stesse come a un nome. "In parte
ciò ha a che fare con l’esigenza di rispettare la privacy, ma mi sembra anche che i nomi
siano irrilevanti"
29
, mette in guardia Freud. E i suoi dipinti comprovano che l’anonimia
non toglie davvero nulla all’individualità.
30
Ma come farsi riconoscere, posto che il
ritratto poco somigliante non sia affatto un’eccezione? Il pittore non percepisce che
istanti di apparenza, involucri di comportamenti artificiali dovuti allo scambio che
27
U. Fadini, "Il luogo dell’incidente. Modelli di vita futura in Ballard e Cronenberg", compreso in
Millepiani, numero 4, (numero monografico dedicato a W. Benjamin, Il carattere distruttivo. L’orrore del
quotidiano) Mimesis, Milano 1995, p. 44.
28
P. Bonafoux (a cura di), op. cit., p. 34.
29
W. Feaver (a cura di), Lucian Freud, Mondadori Electa, Milano 2005, p. 23.
Per quanto concerne una panoramica esaustiva dell’opera completa di L. Freud, si rinvia alla mostra
tenutasi al Museo Correr di Venezia (11 giugno-30 ottobre 2005).
30
Che il terrore per l’anonimato derivi dalla cultura greca così ancorata all’idea della morte (considerata)
indegna dei nonumnoi, i senza nome e senza volto, destinati a scomparire senza mnema né memoria nel
buio dell’Ade?
In proposito cfr. J. P. Vernant, L’individuo, la morte, l’amore, cit.
10
intercorre tra l’artista e il suo modello.
31
Nel caso in cui invece si dia la coincidenza dei
due, le cose parrebbero forse essere più semplici. "Guardare un autoritratto equivale
forse a guardare se stessi, non è forse essere indotti a porgli […] questioni riguardanti
solo me stesso che lo guardo?"
32
Ciò che si andrà scoprendo, di capitolo in capitolo, è
che le cose non stanno affatto così. A rendere la questione seriamente ostica e
problematica
33
contribuì la consuetudine che si consolidò nel XVII secolo di comprare
la copia del ritratto delle persone in vista: quasi una moda.
34
Dal XVII secolo a oggi,
l’opera d’arte si è trasformata in opera infinitamente riproducibile. Questo è il
problema: l’immagine umana viene duplicata ad infinitum attraverso gli strumenti che
la tecnica mette a disposizione. La forma antropomorfa si è fatta prodotto, sussunta alla
logica di una mercificazione che è totale, cui nulla sfugge. Per queste ragioni, l’identità
di ognuno pare essere definitivamente sfuggita a qualsiasi tipo di volontà e progetto
individuale. Allora Jean-Jacques Wunenburger può disperatamente concludere:
"nessuno è più estraneo a sé che l’Io"
35
. Vera e propria inversione dei rapporti mimetici;
deficienza nei confronti della propria esteriorità; vano tentativo di guardarsi come gli
altri farebbero; prigionia nella condizione di vedente e al contempo visto; autogestione
di un volto per colui che non ha mai potuto contemplare il proprio volto; "l’adeguazione
31
Cfr. P. Sorlin, Persona. Du portrait en peintre, Presses universitaires de Vincennes, Paris 2000, tr. it. di
S. Guindani, Persona. Del ritratto in pittura, Tre lune, Mantova 2002.
In particolare cfr. P. Sorlin, "Il ritratto introvabile", capitolo compreso in ibidem, pp. 31-69.
Racconta infatti Sorlin dell’esperienza di J. J. Rousseau: convinto che si sarebbe ben ritratto solo se
avesse fatto da sé, era ossessionato dalle medesime difficoltà contro le quali si devono scontrare tutti
coloro che pretendono di tracciare un (auto)ritratto; persuaso che il mondo non l’apprezzasse e che si
accanisse invece contro di lui, condannò in anticipo tutte le allusioni fatte alla sua persona: schizzi,
rappresentazioni, disegni di cui non fosse lui medesimo l’autore. Il pastello raffinato e ricco di sfumature
fattogli da M. Q. de La Tour gli piacque. Al contrario ebbe in odio la muta lontananza in cui lo colse il
lavoro dal pittore inglese A. Ramsay durante l’anno che trascorse in Inghilterra: elaborato in lunghi
momenti di posa, emanante finezza e intelligenza, divenne il più noto tra i ritratti dello scrittore, che
invece preferì le lusinghe cortigiane di de La Tour. Questo per dire che lo stesso Rousseau non aveva
dubbi: non c’è un vero (ritratto di) Jean-Jacques.
32
P. Bonafoux (a cura di), op. cit., p. 47.
33
Dice J. Derrida: "problema può significare […] proiezione o protezione, ciò che si pone o si getta
davanti a sé, la proiezione di un progetto, il compito da realizzare, ma anche la protezione di un sostituto,
di una protesi che mettiamo davanti per rappresentarci, sostituirci, proteggerci, dissimularci o nascondere
qualcosa di inconfessabile, come uno scudo (problema vuol anche dire scudo, il vestito come barriera o
guardabarriere) dietro il quale mantenersi in segreto o al riparo in caso di pericolo".
J. Derrida, Apories. Mourir – s’attendre aux "limites de la verité", Galilée, Paris 1966, tr. it. di G. Berto,
Aporie. Morire – Attendersi ai "limiti della verità", Bompiani, Milano 2004, p. 12.
34
Questo provocò l’insurrezione di J. J. Rousseau contro la volgarizzazione del disegno.
In proposito cfr. P. Sorlin, op. cit.
35
J. J. Wunenburger, "Vita e morte nell’autoritratto", compreso in S. Guindani e S. Pierri (a cura di), Il
ritratto come questione filosofica, Cuem, Milano 2004, p. 180.
11
a sé […] rimane un’utopia"
36
. Le parole di Wunenburger sembrerebbero condurre
all’aporia di un paradosso di fronte al quale arrendersi. Perché voler proseguire? Perché
anche Andy Warhol ha voluto (di)mostrare come pure l’automatismo della macchina
fotografica vacilla dinnanzi all’Io, che è più forte.
37
L’infinito numero di potenzialità
creative che la modernità tecnologica offre respinge l’unica possibilità, l’unico (o
ultimo?) orizzonte della prospettiva planimetrica e della chiarezza cartesiana. La storia
dell’autoritratto porta con sé un logos sfinito e non più in grado di dare voce ai
soprassalti dell’anima. "L’autoritratto costituisce addirittura, per un artista, una delle
esperienze più conturbanti poiché fondamentalmente paradossale"
38
: letteralmente,
para-dossale. In contrasto con la doxa, con ogni opinione corrente largamente diffusa e
qualsiasi common sense. In Campo di grano con corvi (1891, Rijksmuseum Vincent
Van Gogh, Amsterdam) Van Gogh si è (dis)perso proprio dopo essersi avvicinato alle
cose, con un movimento contrario a quello di Narciso ma che lo ha portato a perdersi,
comunque e completamente, in esse: Narciso e Van Gogh possono essere visti come
due figure antitetiche eppure vittime del medesimo dilemma. Due estremi che
sollecitano a voler capire dove stia la mesotes: basta questo a voler insistere,
rimettendosi di fronte ad uno specchio.
Il secondo capitolo verrà interamente dedicato alla "metafora dello specchio"
39
, alla
ricchezza simbolica di questo strumento inscindibilmente legato al problema
dell’identità. Per un autoritrattista poi, che mai ha potuto vedere i suoi lineamenti, la sua
nuca o la schiena se non attraverso degli intermediari, lo specchio prontamente
interviene in suo aiuto. L’attenta indagine di Andrea Tagliapietra invita a ritornare,
nuovamente, alla vicenda di colui che fu la prima vittima dello specchio: Narciso,
l’indiscusso protagonista di questa tragedia. Narciso suonò per i greci come un
avvertimento: Françoise Frontisi-Ducroux e Jean-Pierre Vernant si occupano appunto di
capire perché, nella Grecia antica, gli uomini si rifiutassero di guardarsi allo specchio.
40
36
Ibidem, p. 184.
37
Ci si riferisce agli Autoritratti del 1964 (Collezione Gerald S. Fineberg) e del 1967 (Bayerische
Staatsgemäldesammlungen, Monaco).
In proposito cfr. A. Boatto, "Il flash fotografico", capitolo compreso in A. Boatto, op. cit., pp. 127-139.
38
J. J. Wunenburger, "Vita e morte nell’autoritratto", compreso in S. Guindani e S. Pierri (a cura di), op.
cit., p. 179.
39
Il riferimento è a A. Tagliapietra, La metafora dello specchio. Lineamenti per una storia simbolica, cit.
40
Cfr. F. Frontisi-Ducroux e J. P. Vernant, Dans l’œil du miroir, Odile Jacob, Paris 1997, tr. it. di C.
Donzelli, Ulisse e lo specchio. Il femminile e la rappresentazione di sé nella Grecia antica, Donzelli,
Roma 1998.
12
Perché il suo uso era riservato solo alle donne? Nella cultura greca solo i maschi
parevano avere il diritto all’identità; le donne erano comunque costantemente presenti
nella loro ricerca di sé: senza le donne il riconoscimento dell’uomo greco non sarebbe
stato possibile. Lo specchio, messo in mano alle donne, molto più che semplice
strumento di vanità diventava il mediatore simbolico del rapporto tra i sessi, la via per il
riconoscimento di sé attraverso la mediazione dell’Altro. Alla duplicazione del mondo
cui questo instrumentum philosophiae conduce, bisognerà addizionare la sua funzione
invero primaria, ossia quella di includere nel mondo l’osservatore stesso: "colui che
guarda può ora guardarsi"
41
. Esattamente questo è l’input di cui si necessitava per
introdurre il secondo ineliminabile protagonista della vicenda: Dioniso.
42
Una parentesi
prima di soffermarsi sulla figura del dio capretto: il costante riferimento al mito che
caratterizza gran parte del presente lavoro dipende inoltre dalla volontà di rivitalizzarne
la funzione nel nome di un progetto gnoseologico innovativo finalizzato alla
ricostruzione di un linguaggio che possa nuovamente raccontare il mondo, obiettivo non
estraneo al linguaggio pittorico che, a discapito del grande inganno della verità,
costruisce metafore, immagini e simboli che permettono di comprendere il mondo
vivendolo. Inoltre, dal momento che il quotidiano reca le stimmate del tragico, non
sarebbe neppure congetturabile di estromettere proprio il dio della tragoidia. Le
continue metamorfosi di Dioniso e Narciso riconducono nel cuore della storia
dell’autoritratto: la metamorfosi.
43
"La tendenza a mutare è insita nella natura umana
ma è difficile che tale natura caratteristica sia percepita come una ricchezza. Il
41
A. Tagliapietra, "La cornice dello specchio", introduzione a A. Tagliapietra, op. cit., p. 13.
42
La figura di Dioniso verrà analizzata seguendo le articolate argomentazioni di due tra i maggiori
conoscitori della grecità antica: W. F. Otto e K. Kerényi. Per quanto concerne Kerényi, si potrebbe
addirittura dire che il mondo di Dioniso abbia accompagnata tutta l’intera vita dello studioso.
In proposito cfr. W. F. Otto, Dionysos: Mythos und Kultus, Vittorio Klostermann Verlag, Frankfurt 1933,
tr. it. di A. Ferretti Calenda, Dioniso. Mito e culto, Il nuovo melangolo, Genova 1997, 2002² e cfr. K.
Kerényi, Dionysos. Urbild des unzerstörbaren Lebens, Langen-Verlag, München-Wien 1976, tr. it. di L.
Del Corno, Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile, Adelphi, Milano 1992.
Determinante sarà inoltre l’indagine di un altro maestro degli studi mitologici, M. Detienne: la sua agile
monografia sul figlio illegittimo del grande Zeus è capace di restituire immediatezza e vigore romanzesco
all’immaginario degli antichi in un’interpretazione biologica che segue le improvvise apparizioni del dio,
le sue epifanie, i suoi viaggi e le sue peregrinazioni che fanno di lui quello strano Straniero al quale sarà
possibile paragonare la figura dell’artista pellegrino e del soggetto di frontiera di cui si tratterà nei capitoli
successivi.
In proposito cfr. M. Detienne, Dionysos à ciel ouvert, Hachette, Paris 1986, tr. it. di M. Garin, Dioniso a
cielo aperto, Laterza, Roma-Bari 1987, 2000².
43
Molti saranno infatti i riferimenti alla rivista "graphíe", numero 2, agosto 2005, interamente dedicato al
tema della metamorfosi.
13
cambiamento fa paura"
44
perché la nostra intelligenza "parte dall’immobile e non
concepisce o non esprime il movimento se non in funzione dell’immobilità, si installa in
concetti già fatti e si sforza di prendere come in una rete, qualcosa della realtà che
passa"
45
. "La metamorfosi può benissimo essere sia il segno di una lotta essenziale, sia
quello di un gioco che resta in superficie"
46
. Gli artisti stessi non hanno avuta scelta.
"Nel Novecento la rappresentazione di se stessi non è quella della padronanza di sé. Con
le ideologie che hanno preso il potere nel XX secolo, ideologie che spesso non sanno
che farsene dell’individuo, gli artisti […] hanno […] dovuto parlare il linguaggio dei
miti e delle parabole"
47
: un simile linguaggio non smette mai di essere contemporaneo
potendosi permettere di eludere tutte le certezze e le esigenze del potere e della censura.
Il mondo consueto, in cui gli uomini vivono con tanto agio e tanta sicurezza non è più!
[…] tutto è mutato, ma non per trasformarsi in un’amabile favoletta, in un paradiso di
fanciullesca ingenuità. Il mondo primigenio è riemerso, le profondità dell’essere si
sono aperte, […] con l’infinito orrore sono salite alla superficie ed hanno mandato in
frantumi l’aspetto del mondo abituale […]: esse non recano né sogni né inganno:
recano la verità, ed è una verità che rende dementi.
48
Il nucleo dell’autoritrattistica è propriamente mitico: intessuto dell’immaginazione
mitica, in esso tutto è relazione e metamorfosi, trasformazione e confusione, in
un’affascinante (a)simmetria di contraddizioni che trasferisce nuovamente nel bel regno
della fantasia, nel caos erotico e originario della natura umana, e che permette di
annullare le ragioni di una Ragione solo ragionante.
49
Per il piccolo Dioniso lo specchio
non è che una delle esche grazie alle quali i suoi assassini ne svieranno l’attenzione per
intrappolarlo e sbranarlo: ancora una volta, pare proprio che si sia destinati a morire,
davanti allo specchio. O meglio: è la morte che, con effetto medusante, ogni volta,
osserva fissamente dalla superficie liscia e levigata del poculum,
50
lasciando attoniti e
44
F. Mazzei, Metamorfosi: da rospo a principe, compreso in ibidem, pp. 67-69, in particolare p. 67.
45
Ibidem.
46
P. Bonafoux, "Specchio & fotografia. Dove si comprende come essere anacronistici sia un modo per
essere contemporanei, e come per rivelarsi possa essere necessario subire una metamorfosi", compreso in
P. Bonafoux (a cura di), op. cit., p. 91.
47
Ibidem.
48
W. F. Otto, op. cit., p. 101.
49
In proposito cfr. F. Rella, Limina. Il pensiero e le cose, Feltrinelli, Milano 1987.
50
Specchio concavo che fu al centro dell’autentica iniziazione dionisiaca, simbolo della passione del dio
orfico.
In proposito cfr. A. Tagliapietra, "Dioniso: la maschera e lo specchio", capitolo compreso in A.
Tagliapietra, op. cit., pp. 17-32.
14
basiti.
51
Eppure fu grazie ad uno specchio che Perseo riuscì a vincere Medusa. Non
potrebbe essere che anche Narciso lo si possa liberare, e salvare, attraverso uno
specchio? Impossibile rispondere, ora che si è ancora così distanti dalla meta.
Quantomeno il mito di Perseo sprona a proseguire il cammino, nonostante la paura di
non farcela, di non riuscire a sopportare, "nell’assurda convinzione di poter superare la
paura della morte sottesa a tutte le altre paure"
52
. Seppur sia ancora prematuro parlare di
morte, nonostante già in molti siano morti, certamente il percorso compiuto fin ad ora
rivela che la superficie dello specchio è quel dove in cui "ci si rende conto che
l’immagine di sé è sempre quella di un altro"
53
, soprattutto nel caso in cui quell’Altro
venga a coincidere con l’assoluta alterità della maschera di Medusa.
L’autoritrattista del XX secolo dice di non sapere chi è. Questo perché l’Io è un mistero.
Nel terzo capitolo ci si concentrerà appunto sull’alea di mistero di cui tanto l’identità
quanto l’alterità sono avvolte. L’intenzione preminente sarà quella di voler mantenere
distinte la categoria di mistero da quella di enigma. L’Io non è un enigma, o potrebbe
essere svelato, perché un enigma contiene in sé la propria soluzione. L’Io è piuttosto un
mistero: si dà nel suo velo. Chi si avvicina al suo segreto lo dovrà sapere affrontare e
custodire così, nel suo velo.
54
Non c’è nessuna maschera da togliere dietro la quale
sperare di trovare dell’altro, perché non c’è dell’altro. Di maschere si sarebbe potuto
legittimamente parlare in riferimento alla (stereo)tipizzazione formale dei ritratti (e
degli autoritratti) classici: la spettacolarizzazione dei loro mascheramenti era finalizzata
all’eternizzazione di una figura tipica in una forma che sancisse la riconoscibilità futura
e in memoriam della persona in questione.
55
Solamente in questi casi, tolta la maschera
sepolcrale, si sarebbe potuto trovare dell’altro: la morte. Sulle tele del passato aveva
51
Oltre al testo di Tagliapietra a supportare il nesso che lega le mitiche figure di Narciso, Dioniso e
Medusa, per un’analisi approfondita della Gorgone si rinvia inoltre a J. P. Vernant, La mort dans les yeux,
Hachette, Paris 1985, tr. it. di C. Saletti, La morte negli occhi. Figure dell’Altro nell’antica Grecia, il
Mulino, Bologna 1987.
52
F. Mazzei, art. cit., p. 67.
53
P. Bonafoux (a cura di), op. cit., p. 253.
54
A questo punto diverrà imprescindibile seguire le linee della complessa argomentazione di F. Rella
attraversando gli impervi sentieri di alcuni dei suoi testi più noti.
In proposito si rinvia soprattutto a F. Rella, Confini. La visibilità del mondo e l’enigma
dell’autorappresentazione, Pendragon, Bologna 1996, e cfr. F. Rella, Ai confini del corpo, Feltrinelli,
Milano 2000.
55
"Persona: come il titolo di un film di Bergman sul tema della maschera e del doppio; persona: per
Sorlin 'allo stesso tempo maschera, ruolo e, per estensione, apparenza che si indossa di fronte al mondo'".
M. Carbone, "Il volto immobile della rappresentazione", paragrafo compreso nella postfazione a P.
Sorlin, op. cit., p. 207.
In proposito cfr. J. L. Nancy, Il ritratto e il suo sguardo, cit.
15
luogo "un’economia della vita e della morte"
56
, nel senso che di tutto si sarebbe fatto
pur di conferire al quadro la vita di ciò che sarebbe restato dopo la morte. Ciò che il
quadro guadagnava era "una vita spirituale più vera della vita"
57
, suffragando così ogni
volontà dietrologica, metafisica, escatologica e dualistica. Il caduco lo si voleva
insomma cancellare dalla vi(s)ta, dissimulandolo dietro i colori, le linee e le ombre,
perché la felicità veniva riposta nell’ascesa. Partendo "dalla premessa fondamentale che
l’esigenza dell’uomo di autoperpetuarsi, di diventare immortale è sfociata nel concetto
del doppio"
58
, non c’è da sorprendersi se la maggior parte degli artisti cimentatisi col
ritratto di sé vollero prendere delle precauzioni per difendersi dall’effigie annichilente,
memori della lezione del volto imbellettato e immobile del ritratto di Dorian Gray. "Il
'qualcosa d’altro', allora, quando vuole significare un’identità, può essere reso visibile
solo con un costo o un sacrificio"
59
: la cancellazione dell’esistenza. Jean-Luc Nancy ha
affrontato il tema della maschera intendendola come trasfigurazione del soggetto in
nome di un’idea, tendenza soggiacente tutta la pittura rappresentativa costruita secondo
le leggi dell’ottica geometrizzante cartesiana: disincarnata e ideale. Impossibile. "Ma se
dietro la maschera non ci fosse niente di più 'autentico'? O meglio, se dietro la maschera
non ci fosse che il gesto che l’ha posta?"
60
Questo è il dubbio cézanniano che si insinua
giunti che si è al bivio della modernità: persona, o l’enigma del ritratto in bilico tra
identità e alterità, ripetizione e creazione, che si pone al centro del dibattito filosofico
contemporaneo alimentandolo, come si vorrà mostrare, di nuove corpose domande.
L’eclissi del primato del volto (e dello sguardo) nell’arte contemporanea dimostra
l’esigenza di voler ritornare al corpo, alla sua massa e al suo peso; in una parola: al suo
movimento. "La pittura derappresentativa inaugurata da Cézanne mostra […] la crisi del
soggetto come limpido specchio del mondo, come coscienza assoluta"
61
. L’arte
contemporanea ha il merito indiscusso di deludere ogni illusione (o desiderio di
illusione) per smascherarne i meccanismi: levata la maschera, è la morte in persona che
si presenta, non la persona immortalata. Nessuna profondità soggiacente la superficie;
56
R. Kirchmayr, "Jean-Luc Nancy e 'l’esposizione' del soggetto", postfazione a ibidem, p. 71
57
Ibidem.
58
B. Goldberg, op. cit., p. 260.
59
R. Kirchmayr, "Jean-Luc Nancy e 'l’esposizione' del soggetto", postfazione a J. L. Nancy, Il ritratto e il
suo sguardo, cit., pp. 69-70.
60
M. Carbone, "Il volto immobile della rappresentazione", paragrafo compreso nella postfazione a P.
Sorlin, op. cit., p. 211.
16
nessun sub-jectum; nessun vero volto, somigliante, identificabile o nominabile. La
scomparsa del soggetto richiede allora una (nuova concezione di) maschera, che invece
si fa soggetto: "senza quadro e senza maschera non ci sarebbe neppure un’idea di
soggetto. Il quadro ci fa vedere questo paradosso"
62
. Senza velo, o ornamento, o abito, o
travestimento, o apparenza, ogni verità sparirebbe. Questo è il mistero. Ogni mistero
lascia certamente attoniti: basti pensare al primo autoritratto che Albrecht Dürer si fece
nel 1484 (Autoritratto a tredici o quattordici anni, Albertina, Vienna). Dürer indica lo
specchio con la mano sinistra esitante e poggiata al polso dell’altro braccio, come a
doversi sostenere in questo incerto indicare. Che cosa ha visto nello specchio? Secondo
Franco Rella la nascita dell’autoritratto nella storia dell’arte è databile 1505, quando lo
stesso Dürer dipinse Autoritratto nudo (Schlossmuseum, Weimar): come unico
indumento una reticella tra i capelli. Un corpo nudo come nessun corpo lo fu mai prima
di quel momento. Anche i genitali sono diversi da quelli degli eroi mitologici che lo
stesso Dürer aveva dipinti. Gli occhi sono sgranati: da quello sguardo inonda tutta la
tenebra attraversata dal pittore per giungere al trentesimo anno di vita.
63
Dallo sguardo
di un (auto)ritratto, che (ri)guarda e (ri)chiama,
64
si stela l’Io impensabile: il rovescio
oscuro che nessuna luce potrà rischiarare; l’invisibile supporto che è la "sostanza
informe dell’occhio stesso"
65
; proprio ciò in cui la speculazione fallisce in quanto
"rovescio invisibile nella visibilità del ritratto"
66
. L’Io è un mistero senza soluzione. Nel
momento in cui si decide di confessarsi, il problema dell’identità viene messo in gioco;
ma piuttosto che interrogarsi sull’identità perché non lasciarsi incuriosire dallo
specchio? E allora: cosa ha visto Dürer? Che cosa ha veduto Van Gogh? Dove voleva
arrivare Schiele scarnendosi, scorticandosi e sporgendo il suo sesso come un’orrenda
tumefazione? Lo specchio, eredità del mito di Narciso, è l’unico intermediario, o uno
dei pochi, di cui si dispone per vedersi. Ci si specchia e ci si deve rassegnare ad
assomigliare a quello che ci sta guardando, a quello che ci restituisce lo sguardo
61
S. Guindani, "'Dipingere che non si vede': lo sguardo cieco dell’arte contemporanea", paragrafo
compreso nella postfazione a ibidem, p. 217.
62
R. Kirchmayr, "Jean-Luc Nancy e 'l’esposizione' del soggetto", postfazione a J. L. Nancy, Il ritratto e il
suo sguardo, cit., p. 72.
63
Cfr F. Rella, Negli occhi di Vincent. L’io nello specchio del mondo, cit.
64
"Tutto è autobiografico e tutto è un ritratto", dice L. Freud.
W. Feaver (a cura di), op. cit., p. 22.
65
R. Kirchmayr, "Jean-Luc Nancy e 'l’esposizione' del soggetto", postfazione a J. L. Nancy, Il ritratto e il
suo sguardo, cit., p. 80.
66
Ibidem, p. 81.
17
interrogandoci sul tempo, sulla vi(s)ta, sulla morte, sulla vecchiaia e sulla vergogna. Ma
soprattutto è lo specchio che mette di fronte allo sguardo dell’Altro che ri-guarda.
Sguardo: anche Bonafoux gli dedica un paragrafo. "Questo sguardo del pittore che esce
dalla superficie pittorica per interpellare chi la guardi […] somiglia a una sfida quanto a
una scommessa. […] Questi sguardi guardati, specchi messi alla prova da altri specchi,
[…] si affacciano su un turbamento. […] L’autoritratto suscita sempre la stessa
osservazione inquieta di Sosia".
67
L’occhio nel volto dell’Altro è l’unico specchio in
grado di trascendere l’opposizione di Io e non-Io e di reintegrare l’unità di un Io
infranto. Tra l’Io e l’Altro si genera infatti una vera e propria metempsicosi che
costringe ad un incontro con l’irriducibile differenza dell’altro-da-sé.
68
"Esponendosi
nel quadro come sguardo per lo sguardo dell’altro, il soggetto si mette in gioco,
oscillando costantemente tra un guadagno e una perdita"
69
. Cosa c’è, dunque, al di là
dell’autocompiacimento e delle maschere? C’è di sicuro la volontà di autoritrarsi,
dettata dal paradosso dell’egotismo: si vorrebbe riportare tutto all’Io, al centro di un Io
ingordo che al contempo si vorrebbe disperdere in tutte le cose e le persone che ha
amato. O che ama. L’orribile mistero delle cose amate è che divengono continuamente,
introducendo(ci) così (nel)la dimensione della temporalità. L’arte non ha smarrito il suo
perpetuo compito, quasi una responsabilità ora: conoscere esteticamente ciò che è
inconoscibile concettualmente. Il suicidio di Narciso è evitabile. Negli ultimi due secoli
si è assistito ad un prepotente e disordinato ritorno di quel cosmo in cui Van Gogh si è
disperso e che Narciso ha rigettato dietro di sé. Siccome il patto di corrispondenza
logos/cosmo si è definitivamente infranto, c’è la possibilità di evitare (anche) il suicidio
di Van Gogh attraverso una nuova relazione con le cose amate che permetta di esporsi
ad esse senza più volerle dominare e possedere logicamente? Probabilmente sì, a
condizione di planare sul mondo con la leggerezza dell’arcangelo Rauschemberg
67
P. Bonafoux (a cura di), op. cit., p. 37.
68
In proposito cfr. G. Simmel, Rembrandt: ein Kunstphilosophischer Versuch, Wolff, Leipzig 1917, tr. it.
di G. Gabetta, Rembrandt. Un saggio di filosofia dell’arte, Abscondita, Milano 2001.
Anche G. Simmel ritiene che l’arte abbia il compito precipuo di superare ogni dualismo reintegrando
l’essere nell’unità vitale e psicofisica di un Io, difficilmente analizzabile e afferrabile in termini
concettuali, per il quale il Tu non è semplicemente qualcosa proveniente dall’esterno, come gli alberi o le
nuvole, perché interiormente più vicino all’Io di qualsiasi altra cosa. È in questo contesto di discorso che
Simmel parla della metempsicosi dell’Io e dell’arte come specchio magico.
69
R. Kirchmayr, "Jean-Luc Nancy e 'l’esposizione' del soggetto", postfazione a J. L. Nancy, Il ritratto e il
suo sguardo, cit., p. 83.
18
lasciando che le cose restituiscano lo sguardo precedentemente rivolto loro.
70
Non ha
importanza che l’Altro sia un altro uomo: potrebbe essere anche un oggetto silenzioso
che ri-guarda. O l’ego alter che irrimediabilmente abita in (ognuno di) noi. Al di là
dell’autocompiacimento c’è senza dubbio anche e specialmente l’Altro, "colui senza il
quale vivere non è più vivere"
71
; piuttosto "la tragedia incombe sull’uomo soltanto
quando rinuncia alla’ltro e se ne separa: 'Che io non sia mai separato da te'. […]
Dobbiamo […] imparare ad accettare il mistero e l’enigma di chi non conosciamo, di
chi appare come l’estraneo e non solo lo straniero…"
72
Per comunicare l’esperienza del
mondo, per trasmettere tutto il mondo che è in lui, l’uomo ha una sola strada: percorrere
la via impervia e scivolosa aperta da Dürer, che è la via dell’autorappresentazione,
dell’autorappresentazione come confessione. La confessione come strategia ostensiva: il
communicarsi altrui, il dirsi tutto, è un bisogno che l’uomo ha e l’artista ne è il
portavoce. Seguendo le fila tracciate da María Zambrano,
73
non resterà che tentare di
ghermire cosa l’autoritrattista abbia voluto dire quella o quell’altra volta in cui ha deciso
di raccontarsi, chiedendosi: "cosa significa guardare un autoritratto? Quale confessione
o quale confidenza mi sta facendo colui, o colei, che vi si è rappresentato?"
74
Nelle vesti di un testimone, nel quarto capitolo ci si disporrà finalmente a voler
ascoltare la voce silente dell’autoritrattista, qui per dire: ho paura. Il gesto significativo
col quale si traccia una linea, per scrivere o dipingere del confine che delinea
distinguendo dall’altro-da-sé, assume una responsabilità che mai ebbe così forte in
passato: un vero e proprio atto cosmogonico che mette in opera un’ipotesi del mondo
70
In proposito si veda Autobiografia, poster litografico di R. Rauschemberg del 1968 di cui parla A.
Boatto in "Il flash fotografico", capitolo compreso in A. Boatto, op. cit., p. 127-139.
71
M. de Certeau, op. cit., p. 14.
Il testo di M. de Certeau offre un’attenta cartografia dell’alterità, dal momento che proprio l’alterità è
l’elemento fondante di ogni rapporto con Dio. Nonostante il taglio mistico dell’opera, le argomentazioni
del Padre Gesuita rivestiranno importanza nel contesto del discorso sul mistero dell’alterità.
72
E. Bianchi, "Prefazione" a ibidem, p. 9.
73
Cfr. M. Zambrano, op. cit.
In proposito si veda anche A. Buttarelli, Una filosofa innamorata. María Zambrano e i suoi
insegnamenti, Mondadori, Milano 2004.
Il testo di A. Buttarelli avrà un’importanza non trascurabile nel seguito dell’argomentazione proprio per la
sua capacità di restituire l’eredità della filosofa spagnola nell’interezza della carica critica e trasformatrice
il cui punto di forza risiede proprio nell’amore, visto come possibilità di un nuovo inizio per la storia
dell’uomo.
74
P. Bonafoux, "Lo studio del pittore e lo sguardo. Dove si è portati a chiedersi quale intimità l’artista
invita a condividere e a porsi la domanda: chi guarda chi?", compreso in P. Bonafoux (a cura di), op. cit.,
p. 119.