10
D’altro canto il mondo politico non si interessava a questo settore dello Stato che, tutto
sommato, era dato per scontato e incastonato in un sistema, quello dell’Alleanza
Atlantica, che, per ogni schieramento politico, era indiscutibile (Battistelli 2004, pag.
123).
Se il crollo del bipolarismo lasciava intravedere un bivio negli sviluppi
futuri per la pace mondiale, di duratura assenza di guerre da una parte e il timore di un
clash of civilizations dall’altra, l’undici settembre sembra preludere ad un nuovo
difficile confronto, quello tra il sud e il nord del mondo. Il terrorismo internazionale,
estraneo ad una logica statuale e quindi non localizzabile geograficamente in alcuna
nazione precisa, sembra essere il nuovo protagonista con il quale il mondo militare deve
confrontarsi (Battistelli 2004, pag. 25). Nel recente passato le operazioni militari sono
state condotte sotto varie formule e coalizioni, da quelle targate Consiglio di Sicurezza
ONU a quelle condotte dalla NATO fino alla coalition of the willing nata in occasione
dell’intervento in Iraq. Con un po’ di immaginazione si può usare un termine caro agli
esperti della guerra fredda e parlare di “escalation delle operazioni di peacekeeping”.
Il fenomeno del peacekeeping solleva una serie di quesiti che è stata oggetto
di studio sia in geopolitica che in sociologia. Guerra o non guerra? Operazioni
umanitarie o nuova fase del colonialismo? Militare alla “Rambo” o figura atipica,
esperta di etnie e diplomazia? Le dicotomie per la lettura del nuovo periodo di interventi
di stabilizzazione dei conflitti etnici o intestini scoppiati dopo la guerra fredda si
rincorrono. Tutte però sono accomunate dalla stessa necessità: l’interpretazione del
ruolo del militare nelle società postindustriali dopo l’esperienza della guerra fredda. Le
contrapposizioni oscillano tra due correnti di pensiero. Nel riepilogo della sociologia del
peacekeeping emerge una domanda finale: warrior oppure humanitarian soldier?
(Miller e Moskos; pp. 615-637). La prima visione è quella di un mondo militare
ancorato al tradizionale modello del soldato dedito alla conduzione della guerra contro
un nemico riconoscibile e rapportabile ad un luogo preciso. Nella seconda tipologia si
situa la figura del militare impegnato in interventi di peacekeeping. Quest’ultima
categoria impone una rilettura delle caratteristiche che hanno definito da sempre il
militare come “l’istituzione preposta all’amministrazione della violenza”. La natura
incerta delle operazioni di pace conferisce al militare un ruolo che è più da mediatore
piuttosto che da conduttore della battaglia per il conseguimento di una vittoria.
11
La peculiarità degli interventi di peacekeeping è nella loro ambivalenza. La
tesi della duplicità dell’istituzione militare, vista come un Giano bifronte collocabile in
due ambienti diversi e contrapposti, quello della pace e quello della guerra (Battistelli
1990; pag. 21), si rafforza e informa l’intera struttura in un contesto dominato da questo
tipo di operazioni. La strategia militare le ha classificate, secondo una scala, in vari
gradi di turbolenza, fino al più elevato, il peace enforcement, al quale corrisponde la
possibilità di usare le armi e quindi l’eventuale ricorso alla violenza come in un vero
conflitto. Nella strategia NATO sono state definite “military operations other than war”,
operazioni militari diverse dalla guerra per identificarne il carattere polivalente che
richiede addestramenti differenti da quelli tradizionali. In una delle prime ricerche sui
giudizi dei militari riguardo il loro impiego nelle operazioni di pace, Moskos ha usato
un’espressione paradigmatica: “peacekeeping is not a soldier’s job, but only a soldier
can do it” (Moscos 1975). C’è una incongruenza che affiora tra un soldato addestrato a
fare la guerra e un soldato inviato a ristabilire la pace. L’identità del militare è dominata
dalla fuzziness, il suo ruolo sembra diventare più sfumato e sfocato (Ammendola 1999;
pag.73).
Ma se leggiamo questa incertezza di ruolo attraverso le lenti della politica,
emerge un nuovo significato della guerra. L’azione politica internazionale inizia a
tradurre in pratica sempre più ricorrente il principio ONU di risolvere le controversie tra
gli stati anche, come extrema ratio, con l’azione militare. La pace è considerata non più
soltanto un principio morale ma un bene irrinunciabile per gli equilibri dei sistemi
democratici occidentali. La guerra fredda, nonostante qualche conflitto locale, aveva
saputo mantenere una stabilità mondiale effettiva fondata sulla deterrenza nucleare. Le
economie democratiche e avanzate, metaforicamente classificate come il Nord del
mondo, sono ora impegnate in un compito impegnativo: tenere a bada un Sud
economicamente e democraticamente sfavorito. Gli USA, unica superpotenza superstite,
definiti da molti “gendarmi del mondo”, guidano la prima compagine in questa
contrapposizione alla cui base si muovono e prendono corpo le varie paure della società
attuale. Il rischio è una variabile sociologica fondamentale per l’analisi della società
postindustriale e si declina secondo varie categorie. La sicurezza dal terrorismo, dalla
guerra, dagli scontri di civiltà, dalle ondate migratorie di massa e dal pericolo di armi
atomiche sono obiettivi politici irrinunciabili perché legati a doppio nodo al benessere
12
delle democrazie avanzate e alla stabilità dei mercati internazionali. Dietro questo
coacervo di minacce si nasconde la paura di perdere non tanto la pace ma tutto quello
che essa simboleggia per il mondo democratico, compresi benessere e ricchezza.
Lasciando la prospettiva macro, utilizzata per inquadrare l’attuale contesto
politico sociale, ci spostiamo nella dimensione puramente sociologica degli attori che
sono chiamati a gestire questo turbolento scenario sul campo dei conflitti. I militari si
trovano a rivivere una stagione di incessante e frenetica attività. In Italia, dal 1989 a
oggi, gli interventi fuori area condotti dalle Forze Armate si contano a decine. Basti
ricordare quelli più noti all’opinione pubblica: Somalia, Kuwait, Bosnia, Kosovo, Timor
Est ecc. Se si pensa che nel periodo precedente, dal dopoguerra fino al 1989, l’Esercito
ha avuto soltanto dieci semplici operazioni da “osservatore ONU” (le altre Forze
Armate ancor meno) tra le quali solo il Libano, nel 1982, di dimensioni maggiori
(Ammendola 1999; pag. 85) ci si rende conto del differente impegno per i militari di
oggi.
Senza dubbio l’immagine dell Forze Armate ha fatto leva su questa stagione
di straordinario dinamismo. Soprattutto in Italia il militare ha vissuto un lungo oblìo da
parte dell’opinione pubblica. Ci si trova adesso a fronteggiare un improvvisa fase di
rinascita dalla quale emergono luci e ombre. La gestione di questa popolarità, che si
riflette in modo massiccio nel mondo dei media, presenta aspetti anche problematici. La
posizione del militare si incunea nel difficile triangolo sul quale si basa la politica estera
attuale. Le crisi internazionali si dibattono tra classe politica, opinione pubblica e mass
media. Gli interventi militari sono decisi spesso tra i contrasti che oppongono i vari
movimenti di pensiero. Il militare agisce in uno scenario che si rivela infine turbolento
all’estero e contrastato in Patria.
Il militare italiano si mostra rinnovato e rinfrancato da questa nuova
stagione di impegni e, come rilevato in alcune ricerche recenti (Ammendola 1999), ha
metabolizzato appieno il ruolo di peacekeeper. Il militare esce così da una grave
impasse che lo vedeva isolato rispetto alla società civile ed assume definitivamente un
ruolo primario sulla scena politico-istituzionale. Abbandona un atteggiamento
autoreferenziale basato su una immagine valorosa a priori e riattualizza i principi della
lealtà e della fedeltà alla Patria secondo una nuova concezione del servizio che non può
rinunciare al consenso della cittadinanza.
13
1.2 La professione militare nella società post-industriale: istituzione, motivazioni e
bisogni occupazionali
Dalle considerazioni introduttive del primo paragrafo emerge un primo dato
di interesse: l’istituzione militare è, al pari di ogni altra organizzazione, sensibile ai
mutamenti del contesto sociale in cui si colloca. Spesso considerata un’istituzione totale
refrattaria ad ogni mutamento esterno, secondo la definizione di Goffman (Goffman
1961; pag. xii), quella militare si dimostra invece reattiva ai frequenti cambiamenti che
agitano la scena mondiale e le società attuali. Il processo di isomorfismo (Bonazzi 2002;
pag 111), ampiamente valido per molte organizzazioni, può essere valido anche per la
struttura militare? I tipici “miti razionalizzati” che informano le logiche manageriali,
come ad esempio quello sulla qualità totale, possono applicarsi anche al mondo
militare?
Le organizzazioni del mondo economico sembrano vivere in una
atemporalità innovatrice e l’isomorfismo che le caratterizza si basa su una marcata
apertura alla novità (Battistelli 1998a; pag. 83). Nel mondo militare le evoluzioni si
fanno strada con molta cautela. La lettura sociologica del militare ha sottolineato sia il
ruolo preminente della tradizione ma anche il fervore innovativo che alimenta la
strategia e l’interesse per la tecnologia. C’è una sorta di compromesso tra il passato,
come conservazione di tradizioni storiche ed esperienza, e il futuro che rappresenta la
dimensione temporale di riferimento per l’addestramento del militare. Battistelli (1990;
pag. 30) parla di un dilemma organizzativo tra conservazione e innovazione in cui
“l’esito è un evoluzionismo che potremmo definire lamarckiano, più che darwiniano,
fondato sulla continuità piuttosto che sulla rottura, sullo sviluppo delle tendenze
esistenti piuttosto che sulla radicale introduzione di tendenze nuove”.
C’è una oggettiva recalcitranza dell’organizzazione militare alla invasiva
omologazione del managerialismo aziendalista della società postindustriale. Le società
che sono ad uno stadio di sviluppo economico avanzato sono imbevute dei principi del
management. La crescita del terziario rappresentato dalle attività finanziarie scalza le
industrie hard e sforna un esercito di figure aziendali e di pseudo-manager. Secondo
Battistelli (1990; pag. 30), “la progressiva razionalizzazione cui il capitalismo sottopone
14
ogni singola articolazione, materiale e simbolica, della società moderna” non si
manifesta del tutto nel militare. Mentre l’onore, il sacrificio, la solidarietà e la disciplina
simboleggiano l’attività del militare, il capitalismo si pone in antitesi ad esso a partire
da un universo etico basato sul profitto, l’edonismo, la competizione e il libero
contratto. La priorità che viene data alla dimensione umana rende l’organizzazione
militare un ambiente atipico nell’isomorfismo organizzativo contemporaneo.
C’è una folta serie di studi sociologici statunitensi che trattano
l’incongruenza delle tecniche manageriali applicate all’organizzazione militare
(Ammendola 2004; pag. 47). Il fondamento che rende l’attività militare unica rispetto
alle altre è il suo scopo che prevede il combattimento e, come estrema ipotesi, il
sacrificio della vita. Nulla può essere comparato al costo della vita umana nel
perseguimento di un obiettivo sul campo di battaglia. Sia in campo militare che nel
management si parla molto di motivazione per credere ai propri obiettivi e perseguirli
con convinzione. Tuttavia, lo scarto che differenzia i due ambiti è enorme e spiega
l’incompatibilità tra l’approccio manageriale e quello militare. Mentre nel manager la
motivazione esula dalla sfera emotiva e si limita alla professionalità, la motivazione che
richiede l’organizzazione militare è totalizzante e investe ogni ambito individuale.
La motivazione è una categoria psicologica che distingue le capacità
attitudinali a condurre un determinato compito. La persuasione, nell’accezione che ne
dà Carlo Michelstaedter (cit. in Battistelli 1998a; pag. 21), può essere applicata anche al
militare in relazione al coinvolgimento emotivo e cognitivo che il compito richiede.
L’immagine ideale del militare travalica una esecuzione meccanica del dovere e
richiama, piuttosto, un’agire diretto dal senso dell’onore e dell’eroismo. La persuasione
ad agire penetra la superficie e coinvolge l’essere nel suo profondo. L’essere militare
attraversa ogni esperienza del vivere e non può essere guidata soltanto da una visione
soltanto tecnica e manageriale. Janowitz (1960; trad. it. pag. 389) osserva che
“l’immagine ideale della professione militare continua ad essere il comandante
strategico, non il tecnico militare” e riferendosi alle ripercussioni che questo dualismo
comporta per il reclutamento conclude: “la professione militare deve reclutare e
trattenere per la propria elite ufficiali che siano abili nel management militare ma, nello
stesso tempo, molti dei propri ufficiali, compresi quelli più in vista, devono essere
capaci di perpetuare le tradizioni del comandante eroico.”
15
La dicotomia istituzione-occupazione è considerata ormai una ripartizione
convenzionale nelle classificazioni sociologiche che interessano il militare. La categoria
“istituzione” distingue un universo valoriale tipico della tradizione militare basato su
una motivazione che si rifà al senso del dovere, al sacrificio, al patriottismo e
all’eroismo. All’opposto si colloca l’ ”occupazione” che invece distingue un ambito di
motivazioni direttamente mutuato dalla ricerca di lavoro. Emerge un aspetto
problematico nella crescita del reclutamento professionale che interessa
l’organizzazione militare quale luogo definitivamente consolidato per la ricerca di
occupazione. L’istituzione militare deve mediare tra una componente di reclutamenti di
matrice occupazionale e le necessità di un’organizzazione che si basa fortemente su
valori che differiscono dalla pura ricompensa monetaria.
Direttamente collegato a questo ambito problematico che fa del militare
un’appendice anomala del mercato del lavoro, vi è l’aspetto della selezione del
personale, soprattutto degli Ufficiali che sono destinati alla carriera di comandante. Il
settore della selezione dei militari è sempre stato oggetto di attenzioni da parte degli
stati maggiori presso tutti i paesi. Non è stato mai semplice riuscire a determinare i
requisiti che rispondano efficacemente alle esigenze di un’attività che, almeno sul piano
potenziale dell’eventualità di una guerra, risulta così impegnativa. Nella società
postmoderna lo è ancor meno. A livello individuale emergono bisogni che si richiamano
a priorità differenti dal sacrificio e dalla disponibilità all’impegno incondizionato.
Prevale, semmai, una tendenza all’edonismo e all’individualismo palesemente
discordante dal senso di appartenenza al gruppo primario e allo spirito di corpo che
emergevano nella ricerca di Stouffer e dei suoi collaboratori e relativi all’American
Soldier. Nella lettura che Shils (1950; tr. it. pag. 323) dà della ricerca, le motivazioni
che provengono dal gruppo primario si compenetrano con quelle del patriottismo:
“Sarebbe un errore affermare che il tacito patriottismo dei soldati non giocasse una parte
significativa nel disporre gli uomini all’accettazione, all’obbedienza[…]inoltre,
fornendo un universo comune di discorso, assicura le basi per una delle più importanti
pre-condizioni per la formazione dei gruppi primari.”
Le spinte motivazionali devono, allora, essere attualizzate rispetto alle
esigenze che caratterizzano gli attori della società postindustriale. Successivamente la
lettura stoufferiana viene ampliata da Moskos (1986; trad. it. 1990 pp. 523-529) con
16
l’innesto della motivazione occupazionale. In una duplice e impegnativa ricerca
effettuata sui militari di due contingenti italiani (in Albania e Somalia), Battistelli
(1996a; pag. 157), seguendo un tracciato sociologico ideale, recupera il modello di
Moskos e lo articola su una tricotomia introducendo le tre categorie di atteggiamenti per
il militare italiano: paleomoderno, moderno e postmoderno. L’aggiunta del terzo polo di
motivazioni ben raffigura la complicazione presente nella personalità degli attori che
popolano le economie più avanzate. Battistelli fa notare come per questa categoria sia
ancora più urgente la ricerca di appagamento interiore espresso in motivazione. Nella
parte più alta della piramide di Maslow, dopo i bisogni di sopravvivenza e di sicurezza,
si collocano quelli che sono i desideri di autorealizzazione. Ronald Inglehart estende
questa visione al comportamento della società postindustriale, riferendosi al passaggio
da valori di tipo materialista, incentrati sul conseguimento di beni e di sicurezza, a
quelli da lui denominati postmaterialisti (idem; pag. 34). Per Battistelli (idem; pag. 158)
“sarebbe un grave errore ritenere che in un’organizzazione programmata e formalizzata
in grado elevato come le Forze Armate non vi sia spazio per la motivazione” che si
rivela invece una preziosa “risorsa da sviluppare”.
Il recupero della motivazione nell’azione del militare peacekeeper e dalle
competenze fuzzy diventa un passaggio fondamentale per due ordini di motivi: la
leadership degli Ufficiali e le relazioni col mondo esterno. In primo luogo, nel rapporto
tra comandanti e subordinati la motivazione risulta collegata al carisma e alle capacità
relazionali. Un campo che investe la sfera della motivazione interiore e che fa appello a
competenze non soltanto manageriali. In questo campo la persuasione diventa
l’elemento che distingue l’atteggiamento del leader relazionale da quello del leader
impegnato soltanto all’esecuzione del task (Ammendola 2004; pag. 80). La persuasione,
come convinzione sentita del proprio essere militare, rafforza le doti di guida nei
confronti dei subordinati.
In secondo luogo, nel rapporto con la società civile, il militare deve
recuperare la risorsa della fedeltà alla istituzione, non come arma retorica, ma come
fondamento della propria attività. I valori etici tradizionali del militare, come il
coraggio, lo spirito di sacrificio, lo spirito di corpo, la lealtà e l’integrità morale, sono un
patrimonio innovativo di fronte al paradigma economico-aziendalista che domina
l’attuale società. Nel dialogo con la società civile, l’innovazione è rappresentata dalla
17
dimostrazione di come gli attuali impegni militari, più o meno identificabili nella
cornice approssimativa del peacekeeping, riconfermano la solidità dell’istituzione e la
sua integrità all’interno dell’ordinamento statale. La persuasione del proprio agire
diventa un elemento di mediazione tra le risorse individuali e professionali e la natura
specifica dell’organizzazione militare (Ammendola 2004; pag. 69).
1.3 Lo “spirito militare” degli italiani: repulsioni e contrasti di un orgoglio
nascosto
In antropologia culturale il pericolo più insidioso, relativamente alle analisi
degli usi, degli atteggiamenti e dei costumi, è rappresentato dal ricorso sconsiderato agli
stereotipi che comunemente identificano un popolo. Il termine “spirito”, che dal punto
di vista semantico è una delle espressioni linguistiche più astratte, se riferito ad un
popolo, come è nel caso dello spirito di una nazione, raffigura un’area di significato
fuorviante. Spesso le classificazioni “spirituali” per i popoli denotano una rigidità
mentale e possono, nei casi più gravi, degenerare in vere e proprie categorie razziste.
Espressioni come lo scarso spirito combattente degli italiani, l’arroganza campanilista
dei francesi o l’insensibilità culturale degli americani sono generiche e, dal punto di
vista scientifico scarsamente dimostrabili.
La diceria circa lo scarso spirito militare degli italiani circola sia dentro che
fuori il Paese. Anche Moskos (trad. it. 1990; pp. 524) in un suo saggio si esprime così:
“La spiegazione più popolare del come gli uomini vengono condotti a uccidere e a
essere uccisi in combattimento ha a che fare con il presunto carattere nazionale del
soldato. Eserciti nazionali diversi si comportano meglio o peggio a seconda del presunto
spirito marziale dei rispettivi cittadini. Gli italiani formano soldati “mediocri”, i tedeschi
invece “buoni” soldati.”. Riguardo agli stereotipi Battistelli (2004; pag. 104) specifica:
“gli stereotipi sono strumenti di comprensione della realtà, ricorrenti nella psicologia e
nella cultura degli esseri umani. Vengono appresi nel corso del processo di
socializzazione degli individui, che li utilizzano come punto di riferimento “economico”
e facilmente accessibile per selezionare i dati dell’esperienza. Pur basandosi su
percezioni della realtà empirica, lo stereotipo si diffonde e si riproduce nel tempo
all’interno di uno o più gruppi sociali senza più avere un riscontro con l’esperienza
18
originaria. La sua forza, quindi, consiste non tanto nell’essere “vero”, quanto nell’essere
ritenuto tale e nell’essere condiviso socialmente.”.
Quello della presunta attitudine di un popolo a combattere è sicuramente un
dato difficile da verificare ma lo stereotipo ad esso collegato, che eventualmente circola
nelle espressioni comuni, ha effetti reali. Il funesto epilogo della seconda guerra
mondiale ha sicuramente contribuito allo stereotipo dell’italiano imbelle. Tuttavia, vari
studi storici e le testimonianze dei reduci sopravvissuti hanno portato alla luce prove
certe dell’eroismo dei soldati italiani.
Non vorrei qui anticipare un tema, quello del profilo storico del militare
italiano dal dopoguerra a oggi, trattato in maniera diffusa più avanti. In questa parte
introduttiva mi limito a fare cenno a un argomento di alto interesse per la sociologia del
militare italiano: il livello di efficacia attuale delle nostre Forze Armate e il conseguente
livello di apprezzamento dell’opinione pubblica. Una delle peculiarità
dell’organizzazione militare, spiega Battistelli, è proprio la difficoltà quotidiana di
“controllare l’incertezza proveniente dall’interno della propria struttura…Mentre infatti
la continuità e la frequenza delle prestazioni mette le altre organizzazioni nelle
condizioni di effettuare continui test sulla propria capacità di performance, la
discontinuità e la rarità della prestazione bellica impediscono la verifica
dell’adeguatezza dell’organizzazione al proprio compito, se non nel momento estremo
(e tardivo) della sua esecuzione.” (1990; pag. 23).
Lo stesso Battistelli, in uno studio recente, ritorna sulla questione dei
pregiudizi riguardanti l’opportunismo e il cinismo del carattere nazionale e lo scarso
spirito militare degli italiani. Gli stereotipi sbiadiscono e perdono di efficacia di fronte
alla lettura dei dati che la sociologia estrae dalle indagini demoscopiche e, più in
generale, dalla analisi empirica della realtà. E’ con questa convinzione, insita nel
metodo delle scienze sociali, che l’autore sgombra il campo dalle “nuvole
dell’ideologia, della chiacchierata e della brillante esposizione dei giudizi
personali…Mentre è molto difficile, per non dire impossibile, ricostruire in tutta la sua
complessità quell’inestricabile intreccio di cause, di effetti, di oscurità e di trasparenze
che è il carattere di una popolazione, è invece possibile ricostruire con notevole
19
precisione quali sono le sue opinioni, i suoi atteggiamenti, i suoi orientamenti di valore
circa questo o quell’argomento.” (2004; pag. 10).
Esistono, quindi, da una parte il pregiudizio sulle capacità belliche degli
italiani e la difficoltà, propria del militare, di misurare a priori le effettive capacità di
combattere e, dall’altra, l’opinione pubblica come unico parametro di giudizio per la
credibilità dell’istituzione. Questo dilemma è alla base di un fondamentale obiettivo del
militare: salvaguardare l’integrità e il valore dell’istituzione di fronte al Paese. Deriva
da questa necessità il binomio Forze Armate - opinione pubblica che non può essere
evitato senza danneggiare un puntello essenziale per il funzionamento democratico dello
Stato.
I risultati delle rilevazioni demoscopiche recenti non sono scoraggianti e
offrono un quadro interessante sulle opinioni degli italiani riguardo i temi della
sicurezza e delle Forze Armate. Gli studi di Battistelli (2004; pag. 16) confutano la tesi
che vuole il Paese cinico e perennemente in bilico sui temi della Difesa: “emerge che
l’atteggiamento degli italiani sui grandi temi internazionali – primo fra tutti l’uso della
forza – è un atteggiamento di grande buon senso. La riluttanza a risolvere le crisi
internazionali con le armi, la preferenza per strumenti politici, l’opzione a favore di
decisioni multilaterali (posizioni che del resto gli italiani condividono con la
maggioranza dei cittadini di tutti i paesi europei) appaiono ispirate non da viltà od
opportunismo o indifferenza, bensì dalla memoria e dalla interiorizzazione delle
esperienze attraverso cui sono passati il paese e l’intero continente…I risultati delle
nostre ricerche appaiono sorprendenti: indicano infatti una larga maggioranza di
cittadini che è consapevole dei rischi e delle minacce…che apprezza e sostiene le
proprie Forze Armate, che è propensa a inviarle nei teatri di crisi…che sarebbe disposta
a combattere per difendere il proprio paese…[e] confermano la più volte osservata
capacità di elaborare posizioni articolate, coerenti e ragionevoli sugli “esotici” terreni
della politica strategica e internazionale.”.
Emerge dunque un Paese decisamente maturo nell’affrontare i temi della
sicurezza ma, soprattutto, con un sostegno alla politica estera nazionale, e di
conseguenza, alle operazioni delle Forze Armate, che non è affatto scontato. L’opinione
pubblica osserva con attenzione i temi che riguardano le politiche della Difesa e si
20
mostra capace di riflessioni e giudizi anche di carattere tecnico sulla efficacia delle
operazioni militari. Le Forze Armate operano sotto lo sguardo vigile di un’opinione
pubblica attenta alla Difesa, all’impiego delle risorse finanziarie in questo settore e al
comportamento dei militari nelle difficili prove internazionali così frequenti in questa
fase storica.
Le Forze Armate ricoprono una funzione delicata all’interno della
compagine statale. Il militare del nuovo millennio è dedito non solo alla tradizionale
difesa della Patria e alla salvaguardia delle libere istituzioni ma i suoi compiti si
estendono alla tutela del diritto internazionale. La difesa dei diritti umani di base è il
presupposto per una solidarietà di intenti all’interno delle organizzazioni internazionali,
in primo luogo dell’O.N.U. A questa solenne promessa non corrisponde, però, un
organismo militare, autonomo, permanente, composto da soli “caschi blu” e operante in
seno all’O.N.U. Un esercito del genere, alla luce della scena politica attuale, appare
utopico se soltanto ci si riferisce alle lungaggini e alle diatribe che ostacolano finanche
la costituzione di una difesa comune europea. E’ una funzione delicata che viene
affidata ai militari dei paesi con le maggiori possibilità economiche, tra i quali ci sono
anche quelli italiani.
Il militare italiano trova collocazione in un contesto difficile caratterizzato
da missioni che non sono né facili da compiere, né facili da illustrare al cittadino.
L’intervento delle Forze Armate nelle crisi internazionali è accompagnato, poi, da un
interesse dei media che può apparire come una ulteriore complicazione. Abituate per
decenni al sistematico disinteresse dei media, le Forze Armate si sono trovate ad
affrontare non solo le sfide degli impegni attuali, ma anche il confronto con i giornalisti.
E’ in atto una decisa inversione di tendenza nel rapporto tra Forze Armate e
giornalismo, e nella conseguente opinione pubblica sul militare. In proposito Battistelli
si esprime così: “…spesso esponenti delle Forze Armate hanno espresso
insoddisfazione per la carenza di comunicazione e di comprensione manifestata da parte
degli ambienti accademici e, soprattutto, da parte dei mezzi di comunicazione di
massa...Tuttavia la situazione sta cambiando anche in questo ambito. Al vittimismo di
alcuni anni or sono, si è andata sostituendo nelle Forze Armate italiane una maggiore
capacità di dialogo, fondata sull’apertura e sulla disponibilità a rendere pubbliche fonti e
21
notizie che non siano esplicitamente classificate, così come una maggiore perizia nel
dialogare da pari a pari con i mass media.” (2004; pag. 125).
Quella attuale è una fase di smantellamento di tutto l’apparato simbolico e
concettuale dello stato inteso, da una parte, come visione economica antitetica al
liberismo e, dall’altra, come potente valvola di sfogo della domanda di lavoro. Il
militare emerge come figura superstite di uno stato ormai in via di ridimensionamento e
amministratore di quelle sole attività, come la difesa e l’ordine pubblico, che non sono
privatizzabili. L’immagine del militare subisce una trasformazione profonda. I nuovi
compiti di stabilizzazione delle crisi internazionali ampliano “l’offerta” di lavoro per il
militare. Il militare diventa un cardine fondamentale della politica governativa e si
rivela un testimonial inaspettato del “pubblico” e un settore chiave del rapporto tra Stato
e cittadino.
La dimostrazione delle responsabilità nazionali e del carattere militare degli
italiani passa anche attraverso la chiara illustrazione degli impegni politici nella Difesa.
Nelle varie rilevazioni demoscopiche sulla fiducia nelle istituzioni, il Paese dimostra un
largo apprezzamento nei confronti delle nostre Forze Armate
1
. Questo sentimento,
simile anche per altri cardini dell’unità nazionale, come il Quirinale, la magistratura o la
Chiesa, si contrappone a quello di sfiducia verso la politica, che invece si reputa
incostante e immorale.
Da questo quadro emerge un dato importante sulla fiducia degli italiani ai
militari: il cittadino è pronto a sostenere gli sforzi delle Forze Armate nelle missioni
internazionali ma anche a riflettere sulla opportunità politica di ogni intervento
2
. Anche
nella fiducia alle Forze Armate esiste un passaggio fondamentale che è quello della
1
In una ricerca condotta dall’Istituto Cattaneo e dall’Associazione Italiana della Comunicazione Pubblica
nell’ottobre 2005 dal titolo “Istituzioni, politica e informazione, cosa pensano gli italiani” alla tab. 1.10, sul
livello di fiducia degli italiani nelle istituzioni, mentre ai primi posti appaiono nell’ordine la polizia, la Chiesa e
i militari, in ultima posizione vengono posti i mass-media e il governo; inoltre il 50% degli intervistati ritiene la
classe politica peggiore della società italiana (consultabile sul sito www.agcom.it).
2
In un sondaggio SWG-Archivio Disarmo del settembre del 2005 il 61.3% degli intervistati risulta contrario
alla missione in Iraq. La grande maggioranza chiede dunque il ritiro del contingente, ma distingue tra l'operato
dei soldati, e l'indirizzo politico del governo. «Questi risultati - spiegano i ricercatori - confermano la
ragionevolezza del pubblico italiano che è in grado di distinguere tra gli obiettivi politici dell'impiego dei militari
all'estero ed i comportamenti organizzativi ed individuali di questi ultimi; il pubblico boccia i primi e premia i
secondi». A riprova di ciò il 74,8% ritiene ad esempio che i soldati stiano facendo "un buon lavoro" (consultabile
su www.archiviodisarmo.it).
22
coscienza civica del cittadino. Il cittadino partecipa allo sforzo dei militari attraverso il
vaglio della scelta assunta dal politico.
Il feedback che proviene dal cittadino sembra dividersi in due specie, quello
del consenso incondizionato alle Forze Armate e quello, problematico, della valutazione
delle scelte politiche di Difesa. Il rapporto di fiducia tra Forze Armate e cittadinanza
appare decisivo e, talvolta, riparatore della crepa evidente che incrina la credibilità del
politico. In questo senso le Forze Armate costituiscono una risorsa per il Paese, come
emerge dalle indicazioni della opinione pubblica. Dalla parte dell’organizzazione
militare si tratta invece di valorizzare questo prezioso rapporto con la popolazione. Un
dialogo sereno e partecipato con il cittadino rinforza la motivazione nel militare. La
crescita del modello occupazionale negli arruolamenti ha fatto crollare le motivazioni di
ordine istituzionale. Anche il militare diventa un campo professionale dove si
esauriscono le spinte morali e le aspirazioni idealistiche. La sensazione di prestare un
servizio indispensabile per l’immagine del Paese con il sostegno concreto del cittadino
si rivela, allora, un passaggio determinante per le convinzioni del militare.
23
1.4 Una ricerca “partecipata” per un campo tutto da esplorare
Quello delle relazioni tra Forze Armate e mondo civile è un campo di
estrema attualità in una stagione che, per gli impegni accennati, può essere definita di
rinascita del militare. L’area della comunicazione istituzionale rappresenta una materia
di punta negli interessi degli stati maggiori di oggi. Si è spesso parlato di comunicazione
come risorsa strategica del militare, vista come strumento per la ricerca del consenso del
cittadino alle Forze Armate (Bechelloni 1996). Si tratta, tuttavia, di un settore di attività
ancora sperimentale, nel quale il militare si cimenta con capacità in via di
perfezionamento. Proprio per il suo carattere di novità e di work in progress, si rivela,
però, un territorio fertile per gli studi sociologici e, soprattutto, una dimensione ideale
per analizzare lo spirito di iniziativa del singolo attore che opera nella comunicazione
istituzionale militare. Il focus sull’individuo diventa, allora, la linea guida che orienta la
ricerca in questo campo.
Quello relativo agli atteggiamenti del militare che si avvicina alla
comunicazione istituzionale è un campo in cui non è semplice addivenire a parametri
precisi per classificare i dati empirici. In esso ci sono evidenti caratteri di provvisorietà
e apprendimento culturale progressivo. Leggere questa porzione della realtà diventa
piuttosto un tentativo di scorgere le tendenze principali che identificano l’agire del
militare che si affaccia all’esterno e si relaziona con il mondo dei media e con il
cittadino. Significa anche dare un senso plausibile all’agire comunicativo
dell’istituzione nel senso di individuare tra i comportamenti degli attori la cultura
organizzativa prevalente.
Il carattere di provvisorietà che identifica il settore della comunicazione
istituzionale soddisfa, allora, un approccio di ricerca poco strutturato e capace di
rilevare le tendenze dell’agire individuale, piuttosto che una logica organizzativa stabile.
Gli strumenti prescelti - l’intervista strutturata e l’osservazione partecipante - sono stati
utilizzati in una impostazione di ricerca che segue il filone dell’approccio qualitativo.
L’interesse prevalente è stato quello di far parlare i militari che vivono la realtà della
comunicazione istituzionale, in maniera aperta e con l’intento di afferrarne l’aspetto
dell’iniziativa individuale. La descrizione di come si sviluppa il processo della