7
Spiegare quale filosofia politica muova le scelte politiche dei vari Stati è utile
ad introdurre le scelte fatte in Europa in materia di partecipazione politica degli
stranieri. Il secondo capitolo tratta, infatti, delle diverse esperienze di quattro Stati
europei: Regno Unito, Francia, Paesi Bassi e Svezia. Il Regno Unito si dimostra
un caso peculiare, in quanto i cittadini dell’ex Commonwealth residenti nel paese
votano a tutte le elezioni.
La Francia, invece, non concede il diritto di voto amministrativo ai non cittadini,
però ha sperimentato negli anni diverse modalità di consultazione locale, Consulte
e Consiglieri aggiunti, simboliche e di efficacia variabile. La Francia è un paese di
ius soli, coloro che nascono nel paese anche da genitori stranieri, sono francesi e
godono del diritto di voto, è interessante, quindi, notare quale sia il comportamento
elettorale dei cittadini “di origine straniera”. Paesi Bassi e Svezia hanno invece
concesso il diritto di voto amministrativo ai residenti stranieri affiancandolo ad altri
metodi di consultazione.
Questi esempi possono servire a dare un quadro di quali potrebbero essere le
conseguenze dell’estensione del diritto di voto amministrativo ai residenti stranieri.
Introducono, inoltre, al terzo capitolo che tratta l’esperienza italiana nell’ambito
della partecipazione politica degli stranieri e i principali aspetti del dibattito in meri-
to all’estensione del diritto di voto amministrativo.
Varie forme di consultazione locale sono state attuate in Italia, con tentativi
anche più coraggiosi di estendere la partecipazione politica oltre l’elezione o la
nomina simbolica di Consiglieri o consulte, attribuendo agli stranieri il diritto di
partecipare ai referendum locali o alle elezione circoscrizionali, in virtù dei poteri
conferiti agli Enti Locali dalla riforma del Titolo V della Costituzione.
Il quarto capitolo è il resoconto di un’analisi sul campo da me condotta sulle
elezioni dei Consiglieri Aggiunti a Roma, tenutesi il 28 marzo 2004. Tale analisi è
stata condotta su dati raccolti tramite interviste, visite agli Uffici comunali e analisi
della stampa a riguardo.
Il materiale bibliografico è stato reperito a Roma, presso il CIES di via delle
Carine e presso il Cser di via Dandolo, oltre che presso la Biblioteca Nazionale, la
biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di via Caetani, la biblioteca
8
dell’ISTAT, la biblioteca di studi giuridici di piazza Cavour e quella delle facoltà di
Sociologia, Demografia ed Economia e Commercio della Sapienza.
È stato prezioso il contributo dell’Ufficio elettorale di via dei Cerchi, della
Commissione Elettorale presieduta dal Consigliere Maurizio Bartolucci e
dell’Assessorato per le Politiche della Multietnicità della Consigliera delegata
Franca Coen, e di un funzionario di tale ufficio, il dott. Rossi.
Si ringrazia anche il dott. Pittau, direttore del Dossier Statistico Caritas Migran-
tes, per l’invito a vari incontri dove ho potuto reperire il materiale Caritas. Ringrazio
le persone che si sono lasciate intervistare all’uscita dal seggio della IV e V Circo-
scrizione, il giorno delle elezioni di Roma.
E infine ringrazio la Consigliera Aggiunta Irma Tobias Perez, e i signori Insa
Ndiaye e Godwin Oyebuchukwu, che pure hanno dedicato il loro tempo alle mie
interviste.
9
1
LA PARTECIPAZIONE POLITICA DEI RESIDENTI STRANIERI.
CENNI GENERALI.
1.1. Residenti Stranieri
Il discorso che si intende qui sviluppare riguarda la partecipazione politica de-
gli immigrati, intendendo con partecipazione politica una sorta di cittadinanza atti-
va per coloro che, in effetti, cittadini non sono e che non intendono diventarlo, al-
meno per il momento. Si tratta di persone che vivono in Italia, pagano le tasse,
hanno figli che frequentano la scuola italiana e non di rado hanno qui trascorso
gran parte della loro esistenza. Costoro sono formalmente stranieri, ma hanno or-
mai acquisito uno status definitivo di residenti, non hanno la cittadinanza, ma un
forte legame con il paese dove, di fatto, vivono. Come suggerisce Hammar
(Hammar T., 1991), usando un’antica parola inglese, potremmo definirli “denizen”,
residenti, in modo da indicare, con questo termine, una categoria ulteriore rispetto
a quella di “cittadino” e di “straniero”.
In Italia i “residenti”, dopo l’ottenimento del permesso di soggiorno, dopo
l’inserimento nel mondo del lavoro, la ricerca di una casa, l’apprendimento di una
nuova lingua, si ritrovano ad aver solo espletato i propri doveri di “immigrati”, ma
non hanno ancora riscosso i vantaggi dell’essere da tanto qui e dell’essere divenu-
ti soggetti economicamente attivi in Italia. Ovvero non hanno la possibilità di acce-
dere a quel coinvolgimento profondo rappresentato dalla partecipazione politica,
dal diritto di influire sulle agende politiche del territorio in cui vivono.
Un’integrazione intesa come integrità della persona (Zincone G.,2000), richie-
de che l’individuo si possa percepire nel pieno delle proprie facoltà e dei propri di-
ritti, non ultimo quello di partecipare alla vita politica e sociale del luogo nel quale
risiede. L’individuo dovrebbe sentirsi sia libero di esprimersi politicamente, sia ri-
spettato nelle proprie idee e opinioni, una condizione che può realizzarsi solo at-
traverso la sua accettazione nell’arena pubblica. Inoltre l’integrazione come intera-
zione a basso conflitto richiede che gruppi e individui entrino in contatto e abbiano
10
occasioni per conoscersi reciprocamente. Partecipazione politica significa discute-
re, scambiare opinioni, frequentare sedi politiche: strumento di partecipazione poli-
tica per eccellenza è senza dubbio il voto.
Alcune importanti democrazie hanno ammesso gli immigrati alle elezioni am-
ministrative (regionali, e/o provinciali, e/o municipali) aprendo un varco nell’antico
legame tra partecipazione e cittadinanza, in favore del binomio residen-
za/partecipazione (Zincone G., 2000).
Con la categoria “immigrati” si possono intendere gruppi di persone piuttosto
eterogenei: dai cittadini naturalizzati fino agli stranieri clandestini, passando per le
persone con permesso di soggiorno. Tale raggruppamento identifica, quindi, indi-
vidui che hanno un accesso differenziato alla partecipazione politica e alle istitu-
zioni. La categoria di persone cui qui si fa riferimento è quella che si potrebbe de-
finire degli “stranieri residenti”, essa non si riferisce agli stranieri comunitari, per i
quali il diritto al voto per le elezioni europee e amministrative è stato sancito a Ma-
astricht e Amsterdam, né alle persone prive di permesso di soggiorno. Si tratta, in-
vece, di donne e uomini provenienti da Paesi non europei che risiedono in Italia da
un certo periodo, tale da rendere necessario un coinvolgimento politico tale da
fornire loro lo status di attore sociale, e non solo di mero fruitore di politiche spes-
so assistenzialistiche o di emergenza.
“Le esperienze di voto degli stranieri permettono di progredire un po’
nell’armonizzazione degli status di residenti extra-comunitari e verso l’obiettivo di una cit-
tadinanza di residenza dal momento che questa è fortemente minacciata dalla cittadinan-
za di reciprocità istituita dal trattato di Maastricht. Essa permette, poi, di lottare contro i
comunitarismi identitari volti ai paesi di origine o verso solidarietà chiuse, a base etnica o
di religiosità tradizionale, e di fare emergere delle élite cittadine” (Wihtol de Wenden C.,
1996b, p. 34).
La consultazione politica in ambito postmigratorio può essere considerata co-
me una forma di riconoscimento simbolico della presenza o meglio della legittimità
della presenza di immigrati e dei loro discendenti in seno alla società. Infatti, se
una persona o un gruppo di persone Consulta una controparte e quest’ultima ac-
cetta di essere interpellata, automaticamente riconosce quella controparte come
un interlocutore legittimato e credibile. Dando agli immigrati la possibilità di una
11
consultazione politica, si offre loro la reale opportunità di accedere alla vita pubbli-
ca. Come sottolineato dalle parole riportate della de Wenden, si auspica, per gli
stranieri residenti, il conseguimento di una cittadinanza di residenza, non di reci-
procità come quella che coinvolge i cittadini comunitari
1
.
Voto degli immigrati in Europa
Paese Nazionalità
Residenza ne-
cessaria
Tipo di elezioni Dal
Unione Europea
Danimarca Tutte 3 anni
Comunali e pro-
vinciali
1981
Finlandia
Scandinavi e i-
slandesi
2 anni Comunali 1981
Tutte 6 mesi Comunali 1963
Britannici 6 mesi Tutte 1984
Irlanda
Cittadini UE 6 mesi Europee 1984
Paesi Bassi Tutte 5 anni Comunali 1985
Portogallo
Lusofoni
(reciprocità)
2 anni Nazionali e locali
1971
revisionata in
1997
Cittadini NCW,
irlandesi e paki-
stani
… Tutte …
Regno Unito
Cittadini UE …
Comunali e Eu-
ropee
1992
Spagna
Tutte
… Comunali 2000
Svezia Tutte 3 anni
Comunali, regio-
nali e referen-
dum
1975
Belgio Tutto 5 anni Comunali 2004
Estonia Tutte
5 anni nel Co-
mune
Comunali 1996
Lituania (*) Tutte … Comunali 2002 (applicabile
1
Si concede il diritto di voto ad un cittadino straniero comunitario perché a sua volta il Paese di
quel cittadino lo riconosce agli stranieri ivi residenti.
12
dal 2004)
Malta Britannici
6 masi negli ul-
timi 18 mesi
Comunali Regio-
nali
1993
Repubblica Ceca
(*)
Tutte … Comunali
2001 (applicabile
dal 2004)
Slovacchia (*) Tutte …
Comunali e Sin-
daco
2002
Slovenia (*) Tutte …
Comunali e Sin-
daco
2002
Ungheria Tutte …
Comunali, Sin-
daco Contea
1990
Altri Europa
Islanda Scandinavi 2 anni Comunali 1981
Norvegia Tutte 3 anni
Comunali e pro-
vinciali
1982
Svizzera:
Belgi e francesi 5 anni Comunali 1849
Neuchatel
Tutte le altre 10 anni Comunali 1849
Jura Tutte 10 anni
Comunali e can-
tonali
1979
(*) In questi paesi, nonostante non si preveda una durata minima di residenza per accedere al
diritto di voto, è necessario avere un permesso di residenza permanente, per ottenere il quale sono
necessari 10 anni di residenza in Slovacchia, 8 in Slovenia e Repubblica Ceca, 5 anni il Lituania.
Fonte: Caritas, 2004, p. 195.
Fino ad ora le esperienze più positive sono quasi tutte orientate, in Italia ed in
Europa, in direzione di consultazioni di vario genere ma, per un eventuale esten-
sione del diritto di voto, almeno al livello locale, andrebbero toccate non solo la le-
gislazione ma, secondo parte della giurisprudenza, anche la Costituzione. Il dibat-
tito quindi si accende e, spesso, si rivela essere trasversale alle forze politiche.
Il diritto di voto vero e proprio (alle elezioni locali, poiché si tratta sempre di
soggetti non aventi la cittadinanza) è concesso solo in pochi paesi in Europa, a te-
stimoniare il fatto che di questa materia si discute un po’ ovunque da molti anni ma
senza incidenza nelle agende politiche nazionali. A questo proposito si veda la ta-
bella precedente.
13
Chi parla di mostruosità giuridica, in riferimento all’estensione del voto ai resi-
denti stranieri, mostra innanzitutto una qualche ignoranza dei fatti: il voto locale a-
gli stranieri provenienti dai paesi dell’Unione esiste già nei paesi che hanno ratifi-
cato l’articolo 8 b del trattato di Maastricht, divenuto poi articolo 19 del trattato di
Amsterdam. Tali articoli prevedono, infatti, che gli stranieri, cittadini dei paesi
membri dell’Unione, possano votare, sia per le elezioni locali, che per quelle euro-
pee, nei paesi dell’Unione nei quali si trovino a risiedere. Inoltre, alcuni paesi
dell’Unione (la Spagna, la Svezia, la Danimarca e i Paesi Bassi) assegnano il di-
ritto di voto locale a tutti gli stranieri residenti, dopo un periodo di tempo che varia
tra i tre ed i cinque anni. Il Portogallo applica una clausola di reciprocità: oltre ai
capoverdiani, dal 1971 ammette al voto locale i brasiliani e, dal 1997, gli argentini,
i peruviani, gli uruguaiani, i norvegesi, gli israeliani. La Finlandia lo estende solo ai
cittadini di paesi dell’area nordica. Nel Regno Unito gli irlandesi, i pakistani ed i cit-
tadini del nuovo Commonwealth possono votare anche alle elezioni politiche. Altri
paesi europei, come la Norvegia, concedono il voto locale a tutti gli stranieri,
l’Islanda solo a quelli provenienti dai paesi dell’area nordica.
1.2. Culture politiche.
Nel trattare il tema della partecipazione politica, risulta doverosa una breve
analisi di quale sia il rapporto tra migrazioni e culture politiche (Delle Donne M.,
2003). Per cultura politica si intende l’insieme di idee che, nel lungo periodo, orien-
tano un paese sui temi dello Stato, del popolo e della nazione, la concezione del
popolo in termini di ethnos o demos, la visione etico-politica o etnico-culturale del-
la nazione, le relazioni esplicite o implicite tra etnicità, nazionalità e cittadinanza, i
principi che regolano l’acquisizione di quest’ultima e i diritti e i doveri che ne con-
seguono.
L’ostacolo più grande alla concessione del diritto politico per eccellenza, quello
di voto, è ancora oggi dettato dal legame di identificazione esistente trai concetti di
nazionalità e cittadinanza. Viene considerato cittadino colui che è nazionale. Ecco
perché, specie dove vige lo ius sanguinis, la cittadinanza è ottenuta solo a seguito
di una difficile naturalizzazione, requisito che non comprende solo la residenza da
un certo numero di anni (15 anni richiesti in Germania) o la semplice padronanza
14
della lingua, ma una rinuncia completa alla propria identità in favore di una totale
assimilazione. La naturalizzazione è una “operazione di annessione profonda e to-
tale” come sostiene Sayad (Sayad A., 2002, p. 303). Si tratta da una parte di an-
nettere, dall’altra di lasciarsi annettere:
“perciò bisogna avere una grande fede (come può essere la malafede) per fare in
modo che la relazione inscritta nella naturalizzazione e offerta come uno scambio equili-
brato dal punto di vista della nazionalità giuridica (acquisire assieme alla nazionalità i diritti
a cui fa accedere e accettare come contropartita i doveri collegati a questi diritti) non sia o
non appaia quello che in fondo è, cioè una relazione di forza” (ibidem).
Questo è, ad esempio, il caso tedesco, dove solo dal 1 gennaio 2000 la legge
della cittadinanza è stata relativamente ammorbidita dal punto di vista della
naturalizzazione, introducendo una qualche idea di ius soli. La visione tedesca
della nazionalità è chiusa e vige una sostanziale estraneità nei confronti dello
straniero, visto fino a non molto tempo fa esclusivamente come una figura di
passaggio, il cosiddetto lavoratore ospite (Gastarbeiter) del cui inserimento non ci
si preoccupava. La Germania è il paese europeo con il tasso più alto di
popolazione immigrata (8 milioni) e ha a lungo rifiutato di riconoscersi come paese
di immigrazione. Fino a pochi anni fa si poteva parlare di una politica sintetizzabile
nei termini “né integrazione, né segregazione”. Gli immigrati sono a lungo rimasti
solo stranieri, di cui l’apporto economico era certo apprezzabile, ma di cui non si
favoriva affatto l’insediamento definitivo. Esiste una tendenza a mantenere gli
stranieri in una condizione giuridicamente precaria, considerata funzionale alla
flessibilità sul mercato del lavoro e all’auspicato futuro rientro in patria. Il modello
di estraniazione dello straniero, nato prima del crollo del muro, sembrava fatto
apposta per coltivare odii e pregiudizi. L’integrazione non era vista come lo
sviluppo di relazioni tra persone, ma come il risultato di un processo guidato
dall’alto, ad interesse della componente tedesca.
In Francia, invece, vige una normativa sulla cittadinanza legata al diritto del
suolo, le politiche di accoglienza sono sempre state legate all’idea
dell’assimilazionismo, dell’apertura a tutti coloro che fossero disposti ad accettare i
costumi francesi. Storicamente le migrazioni sono state utilizzate in Francia, non
solo per colmare occasionali mancanze di manodopera, ma anche per sopperire
15
ad una grave crisi demografica. L’État-Nation francese si è sempre identificato
profondamente con un forte stato accentrato che non ha mai riconosciuto al pro-
prio interno né nazionalità minoritarie, né gruppi etnici locali, in modo da contrasta-
re ogni pretesa di mediazioni particolaristiche fra istituzioni e cittadini. In cambio
dell’assimilazione, lo Stato concede la cittadinanza
2
. D’altra parte gli immigrati che
non possono o non vogliono naturalizzarsi mettono al mondo figli francesi (in
Francia vige lo ius soli) o che potranno facilmente scegliere di diventarlo al com-
pimento della maggiore età. Oggi il progetto assimilazionista francese appare
sempre meno legittimo, mano a mano che si dissolvono le convinzioni della mis-
sione civilizzatrice della Francia, si diffonde un maggior rispetto per la diversità
culturale ed emerge una nuova consapevolezza dell’iniquità del subordinare il ri-
conoscimento di alcuni diritti fondamentali all’acquisizione della cittadinanza. Si va
diffondendo la consapevolezza che l’assimilazionismo comporti, di fatto, la rinun-
cia alla propria identità culturale, il cui mantenimento si configura oggi sempre più
come un diritto della persona.
In Francia resta certamente più facile che in altri paesi acquisire la cittadinan-
za: la partecipazione politica viene legata alla cittadinanza, e quindi acquisire il vo-
to senza di essa viene visto come qualcosa di incostituzionale e assurdo. Il voto
andrebbe a coloro che non si sentono francesi, che non sono nazionali, e questo
non è facilmente concepibile.
Nel Regno Unito, questo legame tra nazionalità e cittadinanza risulta ben più
flebile, alla luce di una visione pluralista della società , di una cultura pragmatica
che riconosce i particolarismi etnici e culturali, promuove autonomia e decentra-
mento, valorizza il ruolo delle formazioni sociali intermedie. Questa tendenza alla
“parcellizzazione” multietnica, è anche il risultato della tradizione coloniale: ancora
oggi si mantiene un legame con i paesi appartenenti all’ex Commonwealth.
L’etnocentrismo caratterizza fortemente la cultura politica francese come quel-
la britannica, ma secondo modalità opposte. Nel Regno Unito lo straniero si accet-
ta per la sua “irrecuperabile diversità”. Ci si preoccupa di porre gli immigrati nella
posizione di nuocere il meno possibile. Qui l’arrivo degli stranieri non ha mai svolto
2
Gli stranieri che hanno acquisito ogni anno la cittadinanza francese sono stati, in media, 100 mila
negli anni ’80 e 115 mila negli anni ’90.
16
funzione demografica importante ed è stato anche poco motivato da una domanda
inappagata di lavoro. A determinarlo sono state piuttosto le vicende storico-
economiche dei paesi di esodo. Di conseguenza è stato un esodo non tanto indi-
viduale, quanto un movimento collettivo. Queste “popolazioni trapiantate” hanno
potuto formare nel Regno Unito le loro comunità (mentre in Francia solo dal 1981
si riconosce il diritto all’associazionismo ai non cittadini). Le comunità etniche sono
qui divenute importanti punti di riferimento per gli interventi delle autorità ammini-
strative (mentre in Francia si è privilegiato il rapporto con i singoli). Qui la distin-
zione tra cittadini e non cittadini sembra molto meno netta rispetto agli altri paesi
europei. Esistono molte situazioni intermedie dettate della provenienza dal Com-
monwealth (con differenze tra i vari paesi membri o ex membri), dalla data di arri-
vo, da una eventuale ascendenza britannica (partiality), eventuali passate presta-
zioni per l’amministrazione britannica. Gli immigrati del Commonwealth godono di
diritto di voto attivo e passivo per tutte le elezioni e la concentrazione di alcune
comunità in determinati collegi assicura loro, dato il sistema elettorale vigente, una
notevole influenza. Anche il sistema britannico oggi mostra i suoi limiti a causa di
una indebita tendenza ad etnicizzare i problemi e a considerare le differenze come
irriducibili, relegando intere comunità a posizioni subalterne. La configurazione a-
prioristica delle minoranze non può che evocare l’immagine di un pur blando
apartheid.
La risposta al perché di un dato trattamento degli stranieri risiede nell’idea di
comunità, nell’importanza che si dona all’individuo piuttosto che al gruppo, nella
concezione della nazione. Gli stranieri sono da considerare degli individui, dei
gruppi, o semplicemente dei generici immigrati?
In tutta Europa, lì dove il voto ai non cittadini non è stato concesso, vige una
discussione sull’opportunità di tale tipo di partecipazione. Dibattito profondamente
segnato dalle culture politiche locali. Questo dibattito, è da sottolineare, si rivolge a
persone che già hanno superato uno stadio particolarmente problematico del loro
percorso migratorio. Persone che hanno un lavoro, una casa, un permesso o una
carta di soggiorno. Si tratta di persone relativamente avvantaggiate, con un mini-
mo livello di integrazione, che possono, quindi, indirizzarsi verso uno stadio suc-
cessivo a quello del conseguimento dei diritti sociali.
17
È solo dalla seconda metà del XX secolo che l’Europa è interessata da feno-
meni migratori su larga scala. Entzinger fa notare (cit. in Marta C., 1990) che negli
anni ’50 quasi tutti i paesi non hanno adottato strumenti politici speciali nel tentare
di favorire l’integrazione degli immigrati. L’integrazione avveniva principalmente
attraverso l’acquisizione della cittadinanza, in un modo possibilmente indolore, so-
prattutto per la società di accoglienza. L’immigrato ben integrato era, come affer-
ma Marta (Marta C., 1990, p. 117), “colui che fosse assuefatto ai modelli culturali
dominanti” .
POPOLAZIONE STRANIERA O NATA ALL’ESTERO E FORZA LAVORO IN ALCUNI PAESI
EUROPEI
Popolazione straniera Forza di lavoro straniera
migliaia % sul tot. pop. migliaia % sul tot. pop.
1986 1996 1986 1996 1986 1996 1986 1996
Austria
315 728 4,1 9 155 328 5,3 10
Belgio
853 912 8,6 9 270 341 6,8 8,1
Danimarca
128 238 2,5 4,7 60 84 2,1 3
Finlandia
17 74 0,4 1,4 … 19 … 0,8
Francia
3714 3597 6,8 6,3 1556 1605 6,5 6,3
Germania
4513 7314 7,4 8,9 1834 2559 6,8 9,1
Irlanda
77 118 2,2 3,2 33 52 2,5 3,5
Italia
450 1096 0,8 2 285 332 1,3 1,7
Lussemburgo
97 143 26,3 34,1 59 118 35,6 53,8
Paesi Bassi
568 680 3,9 4,4 169 218 3,2 3,1
Norvegia
109 158 2,6 3,6 49 55 2,3 2,6
Portogallo
95 173 1 1,7 46 87 1 1,8
Spagna
293 539 0,8 1,3 58 162 0,4 1
Svezia
391 527 4,7 6 215 218 4,9 5,1
Svizzera
956 1338 14,7 19 567 709 16,4 17,9
Regno Unito
1820 1972 3,2 3,4 815 878 3,4 3,4
Fonte: Sopemi, in Zincone, G., 1999, p. 25.
L’intervento volto a inserire gli immigrati nella società come “uguali”, in realtà
mirava alla loro “conformità”. Dagli anni ’70 questa politica ha cambiato tendenza.
18
Molti paesi hanno adottato politiche più pluraliste. Soprattutto quando è apparso
chiaro che la maggior parte dei migranti non erano “lavoratori di passaggio”, ma
intendevano stabilirsi e crescere i propri figli nel paese di accoglienza. La politica
assimilazionista, inizialmente adottata in tutta Europa, è oggi peculiare della Fran-
cia; altri paesi, già dagli anni ’70, come si diceva, hanno optato per politiche di
stampo pluralista, ed è questo il caso di Regno Unito, Paesi Bassi, Svezia.
Esistono due modelli alla base della concezione dell’integrazione
dell’immigrato in una società: una concezione assimilazionistica e una plurali-
sta. Occorre premettere che si tratta di modelli astratti e inesistenti allo stato puro:
il primo, e più antico modello, attribuisce valore assoluto all’omogeneità culturale, il
secondo invece punta alla convivenza culturale. Come sottolinea Marta:
“L’accento viene, prevalentemente, posto sull’aspetto “culturale” della problematica”
(Ivi, p. 118).
Sintetizzando, la prima visione non concede nulla ai gruppi, tutti i cittadini si ri-
conoscono nei valori della nazione e qualsiasi particolarismo è relegato al privato
di ciascuno. Il pluralismo, invece, riconosce la società come estremamente fram-
mentaria e divisa in gruppi cui si riconosce un trattamento diversificato secondo le
esigenze. Nel dibattito su quale dei due modelli sia il più efficace, il multicultura-
lismo risulta una moderna risposta data da alcuni stati come, ad esempio, la Sve-
zia, i Paesi Bassi, il Canada o gli Stati Uniti. In questi Paesi si prende atto della
coesistenza di più culture all’interno dello Stato. La diversità culturale è esaltata
come una ricchezza della società, e va salvaguardata come un patrimonio comu-
ne. L’identità di un gruppo viene preservata in nome del suo essere diversa e sin-
golare. I gruppi minoritari, per rivendicare spazi e diritti, tendono così a presentarsi
come omogenei, pur essendo percorsi al loro interno da fratture culturali, genera-
zionali, di genere, politiche, economiche.
La diversità culturale, presa come indiscutibile dal pluralismo, può ritorcersi
contro gli stessi immigrati, perché può anche ostacolarne la piena integrazione.
Nel Regno Unito e in Svezia, ad esempio, è stato dimostrato come l’”educazione
multiculturale” abbia finito per caratterizzarsi più come uno strumento di controllo
e stabilità, che di cambiamento (Marta C., 1990).
19
La questione del multiculturalismo ha trovato posto nel dibattito che oppone,
fin dagli anni ’60, due tendenze della filosofia politica: liberali e comunitaristi. In
merito al riconoscimento della diversità culturale ed identitaria nello spazio pubbli-
co, i primi sono tradizionalmente diffidenti. Al centro della società c’è l’individuo,
egli è cittadino titolare esclusivo dei diritti e dei doveri. Per i comunitaristi, invece,
la comunità è, per l’individuo, un’esigenza ontologica e normativa, perciò è giusto
concedere diritti alle minoranze etniche e culturali. Il dibattito ha portato i primi a
prendere posizione in favore dell’assimilazionismo e i secondi a non considerare i
pericoli di chiusura e separazione tipici del comunitarismo. Sono poi state tentate
delle sintesi come quella di Kymlicka (Kymlicka W., 1999), che ha proposto un
modello di cittadinanza multiculturale molto elaborato. Egli sostiene che lo Stato
non deve essere neutrale nel campo della cultura e dell’identità, perché i diritti
dell’uomo non sono sufficienti ad arginare le discriminazioni. Sono necessari, a
suo avviso, dei diritti speciali per le minoranze. Si tratta di una sintesi possibile,
quello che appare è che nonostante i pericoli di certi suoi eccessi, il multiculturali-
smo esercita un certo fascino. I rischi insiti in questa politica restano, comunque,
ben evidenti, come sottolinea Marta:
“C’è un’insidia incombente nel discorso sulla società multiculturale: che una volta
scongiurato il pericolo della negazione delle differenze, affiori quello della loro assolutizza-
zione. La rivendicazione del mio diritto alla differenza diviene allora, il paravento ideologico
dietro cui si cela la volontà di escludere e discriminare chi rappresenta una differenza di-
versa dalla mia. Capire e rispettare le differenze significa ridurre le distanze che intercor-
rono tra culture diverse e agire in modo che la società multiculturale dia vita ad identità
nuove e dinamiche, invece di riprodurre identità vecchie e cristallizzate, e produca scambi
e unioni, invece di chiusure e divisioni”. (Marta C., 1990, p. 121).
Serve, quindi, un’attrezzatura concettuale nuova perché il pluralismo culturale
possa valorizzare la molteplicità delle identità culturali espresse da individui e
gruppi che vivono in una società e che sono sottoposti a molteplici dinamiche e
relazioni di potere.
20
Oggi si parla molto di società multietnica o multiculturale, locuzioni solitamente
usate come sinonimi. In genere con queste formule non si intende identificare
precisamente il modello basato sull’integrazione collettiva (quello anglosassone
cui si è detto prima), ma si vuole alludere a società in cui sia riconosciuta e rispet-
tata la diversità culturale, in cui si realizzi una pacifica convivenza fra comunità di
origine diversa. Il difetto maggiore è quello di una tendenza di questo modello,
che è una derivazione moderna di quello pluralista, a considerare i soggetti collet-
tivi come delle etnie o delle comunità statiche e immutabili nel tempo.
“Quando si parla di multiculturalismo, anche se in termini ragionevoli o favorevoli […], si
è già accettato il falso presupposto che i migranti costituiscono frammenti o avanguardie di
culture diverse, si ipostatizza la loro differenza e si scava un solco tra noi e loro […].” (Dal
Lago A., 1999, p. 169).
In un’altra accezione messa in evidenza da Rivera (Rivera A., 2001), il multi-
culturalismo può auspicare una società in cui le diverse appartenenze culturali dei
cittadini non siano d’ostacolo al riconoscimento e al godimento dei diritti di cittadi-
nanza. La diversità culturale in tal caso dovrebbe essere considerata come qual-
cosa di attinente alla sfera privata e che quindi non deve condizionare la sfera dei
diritti universali , né impedire la partecipazione di tutti alla vita pubblica, indipen-
dentemente dalle origini. In questa visione la libertà di fare scelte culturali resta il
valore principale, il che implica anche il diritto ad abbandonare una cultura, oltre
che di conservarla o di assumerla.