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Tuttavia, se la critica ha rivalutato solo di recente queste opere, lo stesso non si può dire
del pubblico: molti di questi film ancora oggi vengono trasmessi in televisione, anche se spes-
so ad orari difficili. Comunque, se ogni volta che Lo chiamavano Trinità di Enzo Barboni
viene trasmesso fa una audience mostruosa, vorrà pure significare qualche cosa.
In questa tesi, cercherò di trattare l’argomento con obiettività, evitando di paragonare que-
ste pellicole a quelle dei grandi autori. Ci troviamo di fronte a due realtà diverse e non acco-
stabili: il genere va preso come tale, e come tale esaminato. D’altra parte, il valore di un regi-
sta non si misura dal budget dei suoi film o dalla sua libertà di decisione in sede di montaggio
e distribuzione: il vero valore salta fuori proprio in presenza di questi ostacoli, ed è la capaci-
tà di concepire un prodotto che incassi miliardi e che sappia intrattenere, girandolo con pochi
soldi e in tempi ridicoli, rischiando spesso il collo di attori e stuntmen.
Ma tutto ciò è parte del fascino di questo cinema.
I figli di Sergio Leone
3
Introduzione
I FIGLI DI SERGIO LEONE
n questa prima parte verranno esaminati film e correnti cinematografiche, italiane e
d’oltreoceano, che hanno avuto un influsso nella formazione di quell’humus di idee da
cui nascerà il poliziesco all’italiana degli anni settanta, trattato poi direttamente nella
seconda parte di questa tesi. Dalle pellicole di Germi e Lizzani ancora ascrivibili ad una sorta
di neorealismo misto al “genere” in nuce, passando per il cinema di denuncia caro a Petri,
Damiani, Rosi e lo stesso Lizzani, fino a toccare il cinema poliziesco americano dei primi an-
ni settanta, ci si rende conto di come il cosiddetto “poliziottesco” abbia tratto spunti e cliché
un po’ da tutti questi filoni, integrandoli e a-
malgamandoli in qualcosa di completamente o-
riginale ed indipendente.
Forse ancora più del giallo di Germi e Da-
miani (vedi prossimo capitolo), fu lo spaghetti-
western a gettare le basi del poliziottesco, cre-
ando tutta una galleria di personaggi e situazio-
ni che sarebbero state fagocitate dal neonato
genere, ovviamente con gli opportuni aggior-
namenti. Un dato in particolare salta agli occhi:
il travaso di maestranze dall’uno all’altro gene-
re, che nacque dalla constatazione di come il
western si stesse ormai spegnendo. Due registi
di fondamentale importanza come Fernando Di
Leo e Enzo G. Castellari venivano proprio dal
western (il primo in qualità di sceneggiatore, il
secondo ancora di regista), mentre alcuni degli attori più importanti vi lavorarono, soprattutto
Tomas Milian (fu nei suoi western che nacque Chuchillo, il “nonno” di Monnezza, v. Parte II
– cap. 4) e Franco Nero. Quest’ultimo va ricordato non solo per essere stato protagonista di
due bei western di Castellari, il crepuscolare ma efficace Keoma (1976) e il tardo Jonathan
degli orsi (1995, quasi un remake del primo), ma anche e soprattutto per il mitico Django
(1966) di Sergio Corbucci, una pellicola capace di virare il western italiano verso nuovi per-
corsi caratterizzati da un’acceso sarcasmo e da cocenti esplosioni di violenza, strada che verrà
proseguita ed ampliata proprio dal poliziesco all’italiana.
I
Parte I - Introduzione
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Da non dimenticare inoltre l’apporto di compositori come i fratelli De Angelis ed Ennio
Morricone, che sfornarono memorabili colonne sonore per entrambi i filoni. Curiosamente,
nel passaggio dagli anni settanta agli ottanta, un travaso simile avverrà tra cinema di genere e
televisione, a decretare la morte di un modo di concepire il cinema popolare, mai più ripresosi
in Italia agli stessi livelli.
Con il crepuscolo dello spaghetti-western dovuto alla sovrapproduzione, un errore che in
Italia non si riuscì mai ad evitare, i produttori iniziarono ad investire sul nuovo genere na-
scente, che fu sentito in un certo senso come un prolungamento del western sotto mentite spo-
glie: dello spaghetti il poliziesco conservava gli stessi cinici e disincantati (anti)eroi, uomini
di giustizia costretti, in un mondo folle, a farsi più spietati dei malvagi che li sfidavano, esseri
senza morale e senza un briciolo di pietà. Entrambi gli schieramenti si muovevano in paesaggi
pieni di luce, in città dominate da bande rivali, dove i cittadini avevano paura ad uscire di ca-
sa, perché avrebbero rischiato di finire uccisi. Naturalmente, tutto cambiò per rimanere identi-
co: il cavaliere solitario divenne il rude commissario di ferro, i banditi vennero sostituiti dai
rapinatori e dai boss malavitosi, mentre le città moderne, alienanti deserti psicologici, presero
il posto dei deserti veri e dei villaggi. Le similitudini si estendono fin nei dettagli: così il
saloon diventa la sala biliardi, set ideale per le risse scatenate dai commissari, mentre il caval-
lo viene sostituito dai rombanti bolidi, siano essi auto o moto, che si lanciano in sfrenati inse-
guimenti.
I figli di Sergio Leone
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Pellicole come Il giustiziere sfida la città e Il trucido e lo sbirro di Umberto Lenzi (guarda
caso, entrambe con Milian protagonista), nonché Il conto è chiuso di Stelvio Massi mostrano
più di altre il loro legame indissolubile con il genere padre, con le loro accoppiate impossibili
di sceriffi e peones (Il trucido e lo sbirro), oppure con i loro giustizieri solitari (Il giustiziere
sfida la città e Il conto è chiuso, non a caso due remake di Per un pugno di dollari, come ve-
dremo), pronti a sfidare gang di criminali solo per amore di giustizia o vendetta.
Alla fine degli anni settanta, il poliziottesco seguirà l’impronta del padre spaghetti-western,
spegnendosi in un declino simile, dovuto alla smania dei produttori, arrivati a far circolare un
numero eccessivo di film tutti uguali. Il genere rimane ora relegato alla televisione, a serie
come La squadra, Distretto di polizia, Ultimo e il recente Ris – Delitti imperfetti; si tratta di
solito di emuli dei tv movies americani, che non fanno che accrescere il bisogno di una nuova
generazione di registi che credano nei generi, e li sappiano riportare al loro posto, al cinema.
Parte I – Capitolo 1
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Capitolo I
LADRI E POLIZIOTTI
I modelli italiani
1. Preistoria
l poliziesco all’italiana è un genere ben definito e codificato nei suoi cliché, e prende
il via nel decennio Settanta per terminare senza ombra di dubbio nei primi anni ottan-
ta. Tutto ciò che viene prima del 1972 e de La polizia ringrazia di Stefano Vanzina,
compresa la trilogia della mala di Fernando Di Leo, va considerato in linea di massima come
non appartenente al suddetto filone, di cui costituisce un archetipo o, se vogliamo nel caso di
Di Leo, un più diretto prologo. Ciò che balza agli occhi, anche ad una prima e superficiale vi-
sione delle opere degli anni cinquanta e sessanta che alla larga potremmo definire poliziesche,
alcune pellicole di Pietro Germi, di Florestano Vancini e tutto il cinema di inchiesta che si
sviluppa tra la fine degli anni sessanta e i primi settanta, è che in Italia si andava a creare una
sorta di “comunione tematica”, che portava i suddetti autori a trattare temi simili, accomunati
da una denuncia del malfunzionamento di uno stato che stava cer-
cando di uscire dell’impasse del dopoguerra venendo spesso a pat-
to con la propria coscienza, e nel quale, al di sotto della facciata di
paese civile, si agitavano forze occulte e si muovevano bande cri-
minali estremamente feroci, degne di un western di Sergio Leone.
Oltre alla nascita dei temi che poi costituiranno l’asse portante
del “poliziottesco”, il cinema italiano del dopoguerra tiene a batte-
simo anche alcune figure che riappariranno sotto (nemmeno trop-
po) differenti spoglie negli anni settanta: prima su tutte quella del
commissario che lotta da solo per raggiungere la soluzione di un
caso. Il “commissario di ferro”, personaggio cardine del poliziesco
all’italiana, deve molto anche ai duri sbirri americani sulla scia
dell’ispettore Callaghan, ai solitari eroi del western all’italiana e agli uomini di legge prota-
gonisti dei polizieschi politici di Damiano Damiani, tuttavia la prima figura di commissario
dal carattere risoluto appare in una pellicola di Pietro Germi, Un maledetto imbroglio (1959),
tratto da Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda: il protagonista, il commissario
Ingravallo, è interpretato dallo stesso regista, dotato del giusto phisique du role, e si rifà chia-
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I modelli italiani
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ramente alla narrativa noir di Hammett e Chandler; ma il suo carattere duro, perseverante e il
suo essere un solitario saranno punti di riferimento per i futuri “sbirri” del nostro poliziesco.
Sempre Germi è protagonista, l’anno seguente, dell’esordio di Damiano Damiani, che in
seguito diventerà un nome di punta del cinema di denuncia. Nel film Il rossetto, Germi inter-
preta ancora una volta il ruolo del commissario di polizia. Si tratta, in entrambi i casi, di gialli
polizieschi, una strada che sarà ripercorsa in futuro da un mini-filone del poliziottesco sulla
prostituzione minorile(con film come La polizia chiede aiuto di Massimo Dallamano e A tutte
le auto della polizia di Mario Caiano, influenzati tra l’altro dal cinema di Dario Argento) e
poi ripresa, in chiave farsesca, anche dalla saga del maresciallo Nico Giraldi, con protagonista
Tomas Milian.
Proprio un giovanissimo Milian, ancora non fagocitato dal carrozzone dello spaghetti-
western, è tra gli interpreti di una pellicola che, se non indimenticabile, getta le basi per una
delle diverse incarnazioni del poliziesco all’italiana, ossia il sottogenere banditesco: si tratta
de La banda Casaroli (1962) di Florestano Vancini, che, come avverrà in seguito nelle pelli-
cole di Lizzani, si ispira a fatti di cronaca per costruire un film a metà strada tra l’impegno ci-
vile e il cinema d’evasione e narra le gesta di una feroce banda di rapinatori. Questo è l’altro
topos fondante del cinema anni settanta: da una parte abbiamo i commissari, dall’altra i loro
acerrimi nemici, bande di rapinatori rabbiosi, privi di scrupoli e quasi sadici, che spesso com-
piono le loro imprese più per il gusto di uccidere che per la sete di denaro. Il tema della rapina
era stato comunque già trattato sempre da Germi nel suo La città si difende (1951), che po-
tremmo definire un poliziesco neo-realista, che anticipa
già dal titolo il filone anni settanta (con titoli come La
città sconvolta, La città gioca d’azzardo, ecc.).
D’altra parte, la fascinazione per carismatiche figure
di banditi pare una costante della cinematografia post-
bellica. Uno dei migliori esempi di questa corrente è Il
gobbo di Carlo Lizzani (1960), che con questa pellicola
inizia quel percorso che lo porterà a firmare due film
fondamentali, Banditi a Milano e Svegliati e uccidi (Lu-
tring), considerati i veri antesignani del poliziesco
all’italiana. Il gobbo non può essere ascritto al filone po-
liziesco, trattandosi di una sorta di biografia dal sapore
neo-realista. Si tratta della storia (vera) del famoso con-
trabbandiere noto come “il gobbo del Quarticciolo”, un ex partigiano che, nel dopoguerra, si
Parte I – Capitolo 1
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dedica ad attività losche, aiutato da una banda di criminali. L’importanza di questo film sta
anche nell’influenza da esso avuta su Umberto Lenzi, Dardano Sacchetti e Tomas Milian nella
gestazione del Gobbo, spietato gangster borgataro dalla battuta facile, antesignano del ben più
noto Monnezza (vedi Parte II – cap. 4).
Ancora degli anni sessanta è doveroso citare almeno Quella carogna dell’ispettore Sterling
(1968) di Emilio Miraglia, con Henry Silva nella parte di un commissario tutto d’un pezzo,
che viene addirittura incastrato per omicidio e radiato dalla polizia. Naturalmente la sua inda-
gine non si ferma fino alla scoperta e all’eliminazione del colpevole. L’ambientazione è anco-
ra americana, poiché non ha ancora preso piede l’idea di applicare i modelli d’oltreoceano
all’Italia. Ricordiamo infine Un detective (1969) di Romolo Guerrieri (regista poi attivo nel
poliziottesco), con un Franco Nero che anticipa i suoi futuri ruoli di poliziotto e/o vendicato-
re. Sempre del 1969 è I ragazzi del massacro, primo film di Fernando Di Leo tratto da Scer-
banenco; una pellicola capitale, che tratteremo nella sezione sul regista e nella parte finale di
questo capitolo.
Una menzione meritano, infine, gli spy-movies italiani del periodo 1963-68, opere di registi
poi attivi nel poliziesco. Da citare il Sergio Sollima di Agente 3S3 massacro al sole, Agente
3S3: passaporto per l’inferno e Requiem per un agente segreto.
2. Il cinema di denuncia
Tra i generi italiani, il filone più importante, oltre lo spaghetti-western, per la nascita del
poliziottesco è senz’altro il cinema di denuncia o di impegno civile caro a Elio Petri, Damiano
Damiani, Francesco Rosi e Carlo Lizzani, registi in possesso di una tecnica e di una chiarezza
narrativa rare e in grado di toccare e svelare, con assoluta lungimiranza, alcuni dei temi che si
faranno “caldi” nel decennio Settanta, come la collusione tra potere politico e mafioso, la stra-
tegia della tensione e la fallacità della giustizia italiana.
2.1. Carlo Lizzani e il cinema banditesco
Iniziamo da Lizzani, autore di due pellicole già citate nel paragrafo precedente. La prima è
Svegliati e uccidi (Lutring) – 1966, noto anche come Il solista del mitra – biografia del cele-
bre bandito Luciano Lutring (Robert Hoffman), che narra della sua carriera criminale, conclu-
I modelli italiani
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sasi con l’arresto a Parigi, dopo un’ultima rapina. Il film si ispira a fatti di cronaca e mette in
scena una ricostruzione spettacolare degli eventi, anticipando di quasi dieci anni una tarda
corrente del poliziottesco ispirata a fatti di cronaca nera, che annovera tra le sue fila La belva
col mitra di Sergio Grieco, uno dei film preferiti di Quentin
Tarantino, che si regge quasi esclusivamente sulla figura del
bandito carismatico. Il film non approfondisce poi molto la fi-
gura del protagonista, ma soprattutto nel secondo tempo asse-
sta un paio di colpi ben riusciti, che anticipano di almeno dieci
anni alcune caratteristiche del poliziottesco: gli inseguimenti
tra le vie di Milano, musicati da un Morricone quasi preveg-
gente, e le esplosioni di violenza, come quando Lutring pic-
chia la moglie.
Si delinea già quello che è lo stile di Lizzani, a volte accu-
sato di propendere eccessivamente dalla parte spettacolare
(come in San Babila ore 20: un delitto inutile), accontentan-
dosi di una descrizione sommaria di eventi e personaggi. La
critica non è del tutto infondata: basta guardare alla rapidità
con cui Lizzani gira, nel ’68 e a pochi mesi dalle vicende,
Banditi a Milano, ispirato alle azioni della banda Cavallero. Siamo effettivamente di fronte ad
uno sfacciato “instant movie”, curato dal punto di vista della regia (da segnalare il primo
grande inseguimento in un poliziesco italiano), ben interpretato (ottimi Gian Maria Volonté,
Don Backy, Tomas Milian, per la prima volta commissario, e Ray Lovelock, che anticipa il
suo personaggio di Milano odia di Lenzi) e in definitiva piacevole. Resta evidente che si tratta
più che altro di un film d’evasione, mentre la componente di indagine psicologica, che pure
poteva risultare interessante visto il carisma deviato del personaggio di Cavallero, è appena
accennata, limitata ad una paio di battute ben assestate (all’ex moglie che gli chiede gli ali-
menti, Cavallero risponde “io qua i soldi mica li rubo!”). Volonté è perfetto nel ruolo, e con la
sua “faccia da schiaffi” rende simpatico un personaggio che più tardi si macchierà di delitti
orrendi (la banda spara sulla folla per fermare la polizia), aumentando la forza del colpo di
scena. Lovelock e Milian sono già qui: il cast rende questa pellicola il punto di transizione i-
deale tra il cinema di denuncia, e il vecchio volto di Volonté, e il “nuovo” poliziesco, fatto di
volti fascinosi e fisici scattanti. Da segnalare la sequenza iniziale, una sorta di docu-drama
(misto di finzione e documentario), con false interviste televisive per un reportage che prende
le mosse dalla conclusione delle vicende, narrate poi in flashback da uno degli arrestati.
Parte I – Capitolo 1
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Banditi a Milano è un’opera riuscita, ottima sintesi di stili e ispiratrice di una corrente che
avrà grande importanza nella genesi del poliziottesco, ossia il banditesco/noir, che trova in
Milano odia: la polizia non può sparare di Umberto Lenzi e nei primi noir di Fernando Di
Leo alcuni dei migliori esempi. Il modello è comunque oggetto di
immediato sfruttamento e, opportunamente imbastardito
dall’influsso del cinema americano e francese, già a partire dagli
anni sessanta genera un filone gangsteristico/noir – con pellicole
come Roma come Chicago: banditi a Roma di Alberto de Marti-
no e Comandamenti per un gangster di Alfio Caltabiano, en-
trambi del ’68, nonché i notevoli I bastardi (1969) di Duccio
Tessari e Gangster ’70 (1968) di Mino Guerrini, scritto da Fer-
nando Di Leo, anticipatore del suo cinema a partire dal plot (vec-
chio rapinatore esce di prigione e mette in atto la sua ultima rapi-
na, ma sarà tradito dal migliore amico) e già influenzato da Mel-
ville – la cui propaggine anni settanta (Tony Arzenta, 1973, di
Duccio Tessari, con il “samurai” Alain Delon) finisce per sfocia-
re nel poliziesco all’italiana (Milano rovente di Lenzi si rifà a
questi modelli e a Di Leo). Siamo ovviamente dalle parti del ci-
nema di puro intrattenimento, ma l’eredità banditesca degli anni
sessanta è evidente, come è evidente una sorta di continuità culturale che porta da questo filo-
ne al poliziesco all’italiana, dove l’ultimo passo è lo spostamento del setting dagli Stati Uniti
al Bel Paese.
2.2. Elio Petri
Nel 1967, Petri gira A ciascuno il suo, scritto con Ugo Pirro e tratto dal romanzo di Leo-
nardo Sciascia, e lancia così il cinema poliziesco-mafioso, una corrente parallela al poliziotte-
sco che predilige l’impegno alla resa spettacolare, e che è stata in grado di sopravvivere alla
caduta dei generi, per continuare con una certa regolarità fino agli anni novanta, con film co-
me La scorta (1993) di Ricky Tognazzi, Poliziotti (1994) di Giulio Base e Palermo-Milano
solo andata (1995) di Claudio Fragasso. A ciascuno il suo offre un ritratto lucido e minuzioso
non solo del potere mafioso e della ragnatela di inganni e coperture che lo protegge, ma anche
della società siciliana, della mentalità e dei costumi della cittadina di provincia in cui si svol-
I modelli italiani
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gono i fatti. Il protagonista è una figura singolare, quella di un intellettuale poco avvezzo
all’azione (un grande Gian Maria Volonté) che indaga su una serie di delitti di stampo mafio-
so, ma scopre a sue spese di non potersi fidare di nessuno. Il clima di sospetto e tradimenti
verrà riportato pari pari nel cinema poliziottesco politico, soprattutto nei film di Sergio Marti-
no (Milano trema: la polizia vuole giustizia e La polizia accusa: il servizio segreto uccide),
nei quali ricorre il medesimo schema del film di Petri: un uomo solo (nel caso dei film di
Martino, un commissario) indaga su un delitto, ma viene trascinato in un caso più grande di
lui, e scopre a poco a poco che tutti quelli che considerava collaboratori fidati sono in realtà
complici dell’associazione criminale mandante degli omicidi. Quindi, nella pellicola di Petri
si delinea già lo schema dell’uomo solo, osteggiato da tutti, in lotta con poteri a lui superiori e
intoccabili. Anche la morte finale del protagonista (in una
sequenza d’antologia) verrà assimilata dai futuri registi del
poliziesco all’italiana.
Volonté torna a lavorare con il regista nel 1970, nel famo-
sissimo Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto,
film importantissimo per come analizza il potere della poli-
zia, e per la capacità di parlare di temi difficili e spesso taciu-
ti, come il controllo telefonico e il clima di angoscia e so-
spetto di quegli anni. Volonté interpreta il commissario capo
della sezione omicidi che, nel giorno della sua promozione
all’ufficio politico, uccide l’amante (Florinda Bolkan) e
riempie di indizi la scena del delitto, con l’intenzione di pro-
vare la propria insospettabilità. E così è: nessuno, neppure di
fronte a testimonianze e coincidenze quantomeno sospette,
arriverà mai a dubitare dell’innocenza del commissario. Ci
troviamo di fronte ad una figura ancora lontana dal prototipo
del commissario del poliziottesco (ravvisabile, come vedre-
mo, nel personaggio di Martin Balsam in Confessione di un commissario di polizia al procu-
ratore della repubblica di Damiani), anche se il personaggio di Volonté si trova già a sfidare
la legge, a superarne i limiti, proprio lui che dovrebbe essere il simbolo della legalità. Più che
sui commissari, questo film ha sicuramente avuto influenza sui loro antagonisti, spesso cinici
e insospettabili uomini d’affari a capo di associazioni mafiose o sovversive (si veda il perso-
naggio di Umberto Griva, rispettabile ingegnere della Dunanco, interpretato da Silvano Tran-
quilli in La polizia incrimina la legge assolve di Castellari, all’avvocato Salussoglia/Richard
Parte I – Capitolo 1
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Conte di Milano trema, oppure ancora ai vari malavitosi insospettabili interpretati da John
Saxon nei film di Lenzi e Girolami), che il commissario di turno si vedrà spesso costretto a
sopprimere, rompendo le catene di una legge che li protegge, invece di perseguirli. Natural-
mente, nel caso del film di Petri, ci troviamo di fronte ad un’analisi molto più profonda del
problema dell’intoccabilità del potere, ed il regista sceglie un linguaggio quasi surreale, grot-
tesco, che vira più verso un’indagine delle patologie della mente umana, piuttosto che verso il
poliziesco vero e proprio. Il registro adottato è forse il maggiore limite del film, perché fun-
ziona quando esso si concentra sul protagonista (un al solito sprezzante e sarcastico Volonté),
ma finisce per portare i problemi trattati ad un livello troppo astratto. E’ innegabile comunque
che Petri sia riuscito a distillare il succo degli anni rivoluzionari, parlando con chiarezza del
confine labile tra il potere e l’anarchia.
2.3. Damiano Damiani
Damiani è forse il cineasta che maggiormente contribuì alla nascita del poliziesco
all’italiana, ed il suo cinema si avvicina molto di più al genere rispetto a quello di Petri.
Con Il giorno della civetta (1968), tratto da Sciascia, Damiani contribuisce al filone mafio-
so: si tratta di una pellicola che, pur narrando vicende più vicine ad A ciascuno il suo (sempre
tratto da Sciascia, d’altronde), lo fa con un piglio più dinamico,
puntando molto sul ritmo e sull’appetibilità per il grande pubblico,
tutte cose che caratterizzeranno il cinema di Damiani anche in se-
guito. Franco Nero qui si cala nel suo primo grande ruolo da uomo
di legge, in questo caso un capitano dei Carabinieri, solo ed in lot-
ta con la mafia. Troviamo anche Lee J. Cobb in un ruolo in cui
brillava particolarmente, quello del boss mafioso. Si evince uno
dei primi tentativi di dare al protagonista un antagonista forte e ca-
rismatico, tanto che al personaggio di Cobb è dato molto più spa-
zio in sceneggiatura di quanto ne avesse nel romanzo. La pellicola
si conclude, a differenza del romanzo, con il trasferimento del ca-
pitano, un “uomo” nelle parole del suo nemico, che lo rispetta con
sincerità. In sostanza anche qui si ripete uno schema che si andava consolidando in quegli an-
ni: un uomo solo lotta invano contro forze soverchianti, un misto di potere politico e malavi-
toso.
I modelli italiani
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L’idea è alla base anche del successivo Confessione di un commissario di polizia al procu-
ratore della repubblica (1971), forse in assoluto la pellicola più influente, tra tutte quelle trat-
tate, nella nascita del poliziottesco. La trama: un commissario siciliano (Martin Balsam, per-
fetto nel ruolo) si scontra con la mafia utilizzando metodi che
sfiorano l’illegalità: arriva a liberare un detenuto solo per u-
sarlo come sicario per eliminare un “insospettabile” imprendi-
tore edile (Luciano Catenacci, ottimo caratterista che farà ve-
dere molto spesso la sua faccia negli anni settanta), in realtà
capo-mafia. Ma il commissario dovrà anche vedersela con un
procuratore (Franco Nero), rispettoso della legge e deciso ad
incastrarlo perché disapprova i suoi metodi. Sprovvisto di
prove per arrestare l’imprenditore, il commissario decide di
farsi giustizia da sé, e lo uccide a sangue freddo in un ristoran-
te.
La trama, così delineata, sembra quella tipica del poliziesco
all’italiana. Guardando il film però, ci si rende conto che non
siamo ancora nei territori del poliziottesco: c’è già tutto, è ve-
ro, a cominciare dal contrasto tra commissario e giudice che
sarà l’asse portante della stragrande maggioranza delle pellicole di genere girate negli anni
settanta, tuttavia le psicologie sono qui molto approfondite, i personaggi hanno i loro dubbi e
le loro contraddizioni, mentre nel poliziottesco tout court solitamente sono tagliati con
l’accetta: il poliziotto è deciso fino infondo, e il giudice è irritante nella sua chiusura mentale.
Manca inoltre il ritmo serrato che caratterizzerà in seguito il filone, ma è già presente una cer-
ta sbrigativa brutalità, come nella strage iniziale e nella scena dell’omicidio dell’imprenditore.
L’idea del magistrato che si rende conto, solo dopo la morte del commissario, di come il mar-
cio risieda nelle più alte cariche della Stato è stata ripresa senza grandi modifiche ne La poli-
zia ringrazia (1972) di Stefano Vanzina, mentre la sequenza del commissario che, ormai so-
speso e sconfitto, decide di attuare la sua vendetta come uomo della strada verrà ripresa alla
nausea, e condensa in pochi minuti tutta la filosofia (ambigua) del poliziesco italiano (si pensi
a Squadra volante di Massi e a Milano odia di Lenzi). A scomparire del tutto sarà invece
l’ambientazione siciliana, a cui verrà preferito il nord Italia, Roma o al massimo Napoli. Da
segnalare l’apparizione di un altro volto che segnerà il poliziottesco, Nello Pazzafini, uno
stuntman promosso a caratterista. Splendide le musiche di Riz Ortolani.
Parte I – Capitolo 1
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2.4. Francesco Rosi
Tra i registi del cinema d’inchiesta Rosi occupa un posto d’onore per la qualità della sua
opera, contraddistinta da una maggiore lucidità rispetto ai colleghi già citati. Con un film co-
me Salvatore Giuliano (1961), il regista si inserisce nel filone sulle biografie di grandi banditi
della storia italiana, presentando al contempo un tema complesso come la genesi della mafia
con una chiarezza ineguagliata: lo stile di Rosi è una fusione tra
finzione e documentario (come nel reportage televisivo del proces-
so e nel servizio fotografico iniziale) e la storia di Giuliano è rac-
contata attraverso flashback: tutti elementi che Lizzani utilizzerà
nel suo Banditi a Milano. La superiorità di Rosi sta però nel riusci-
re a rendere credibili i propri film senza calcare la mano sul lato
spettacolare. Ciò è evidente anche ne Il caso Mattei (1972), biogra-
fia del direttore dell’Eni Enrico Mattei (Gian Maria Volonté), morto
in un misterioso incidente aereo nel 1962. Se è vero che Volonté
rende estroverso un personaggio in realtà chiuso e grigio, è altret-
tanto vero che la pellicola fila come un treno e, nonostante l’argomento ostico, si guadagna
l’interesse dello spettatore dall’inizio alla fine, che lascia voluta-
mente aperte le incognite. Lo stile è secco, segno di un controllo
assoluto della tecnica, e funzionale risulta l’inserto di parti docu-
mentaristiche, nelle quali interviene lo stesso regista, che si vede
più volte mentre intervista diversi testimoni, dando al film una
struttura che si avvicina a Quarto Potere di Welles.
Le mani sulla città (1963) rappresenta un modello notevole a
cui si sarebbero rifatti poi tutti i registi del cinema di denuncia. Il
film narra l’ascesa di un imprenditore edile napoletano che, nella
corsa all’assessorato, sacrifica tutto e tutti e riesce ad essere eletto.
Inutile dire che il personaggio avrà una profonda eco nel cinema
anni settanta, con i suoi imprenditori senza scrupoli che daranno
filo da torcere ai poliziotti (vedi La polizia incrimina la legge assolve di Castellari, Italia a
mano armata di Girolami e soprattutto Mark il poliziotto di Stelvio Massi, con Lee J. Cobb in
una parte che sembra davvero uscita da un film di denuncia).