Lo scopo di questo lavoro è quello di dimostrare come il comportamento di
questi tre attori sia stato decisivo nel formulare la risposta internazionale al
genocidio.
La scelta di questo argomento nasce da un interesse personale nell’approfondire
la conoscenza sulle complesse cause che condussero al genocidio ruandese, che,
a mio parere, rappresenta uno degli eventi più tragici della recente storia
dell’Africa. In particolare, ciò che mi ha spinto ad affrontare questo argomento è
stato un senso di disagio derivante dall’incapacità di comprendere come e
perché la comunità internazionale non abbia impedito tale crimine.
Il tema del coinvolgimento della comunità internazionale in Ruanda si inserisce
all’interno di un più ampio argomento relativo all’intervento internazionale nella
risoluzione di conflitti. In particolare, vi sono due questioni che riguardano
questi interventi e che ritengo importanti affrontare.
La prima questione riguarda il carattere selettivo del sistema internazionale di
risoluzione dei conflitti, di cui Jones parla analizzando il fallimento della
comunità internazionale in Ruanda. Per l’autore, questo sistema si fonda
essenzialmente su calcoli politici e strategici, determinati in parte dalla rilevanza
economica e politico-strategica del paese in conflitto, piuttosto che su un reale
interesse per il costo delle guerre in termini di vite umane
1
.
In riferimento a tale problema, prendendo in esame la politica degli aiuti e degli
interventi umanitari odierni, Duffield sostiene come questi siano condizionati
all’analisi del rischio: i conflitti in aree del mondo considerate periferiche
(rispetto alla posizione dell’Occidente) vengono classificati a seconda della
minaccia che costituiscono per l’ordine internazionale. L’azione umanitaria
viene dunque valutata sulla base del grado di minaccia ed è spinta da un’etica
definita “consequenzialista”, ovvero basata sul calcolo costi/benefici delle
conseguenze che l’intervento comporta. Il coinvolgimento degli stati in missioni
di pace e umanitarie è sempre più misurato, dunque, in termini di interessi
1
Cfr. Jones B.D., Peacemaking in Rwanda. The Dynamics of Failure, Boulder, London: Lynne Rinner, 2001, pp.
176-177.
4
Silvia Mariotti
nazionali, regionali e strategici. Quando i costi del coinvolgimento e delle sue
implicazioni sono elevati l’inazione è considerata preferibile
2
.
In merito a quanto detto sopra emerge una seconda questione che riguarda
l’“imparzialità” dell’intervento internazionale.
L’imparzialità, assieme al non uso della forza e al consenso delle parti
belligeranti, costituisce un principio tradizionale su cui si fondano le operazioni
multilaterali di peacekeeping dell’ONU. Nei primi anni novanta tali operazioni
vennero identificate come lo strumento più efficace per il mantenimento della
sicurezza collettiva e della pace mondiale e vennero dispiegate sempre più in
situazioni di conflitto intra-statale. Il peacekeeping subì una rapida espansione
sia in termini numerici
3
, sia in merito alle funzioni svolte, andando oltre al
semplice monitoraggio dell’accordo di pace per includere azioni di assistenza
umanitaria. In alcuni casi, come in Somalia (1992-1993) o in Bosnia (1992), le
operazioni di peacekeeping sfociarono in operazioni di imposizione della pace
(peace-enforcement), che prevedono l’uso della forza
4
.
L’imparzialità di questi interventi è messa, però, in dubbio da Clapham,
soprattutto in merito a ciò che egli definisce “hegemonic peacekeeping”
5
.
L’autore fa riferimento alle operazioni di pace sanzionate dall’ONU, ma che
ricadono sotto la guida o vedono la presenza di una potenza dominante che
mantiene ambizioni o responsabilità egemoniche. La sua presenza mette in
questione il principio di neutralità dell’intervento e pone il peacekeeping nella
sfera della politica di potenza. Alcuni esempi di “hegemonic peacekeeping”
riguardano l’intervento francese in Ruanda tramite Opération Turquoise nel
1994 e la partecipazione della Nigeria nella forza ECOMOG (Economic
Community of West African States Monitoring Group) intervenuta nel conflitto
in Liberia nel 1990
6
.
La tesi della non imparzialità degli interventi umanitari viene sostenuta anche da
Weiss, che esclude l’esistenza di un sincero umanitarismo nelle operazioni di
2
Cfr. Duffield M., Guerre postmoderne. L’aiuto umanitario come tecnica politica di controllo, Il Ponte, Bologna,
2004, pp. 104, 128-129.
3
Cfr. Carey M., “Peacekeeping in Africa: Recent Evolution and Prospects”, in Furley O.W. & May R.,
Peacekeeping in Africa, Ashgate, Aldershot, 1998, p. 13. Solo tra il 1989 e il 1993 vennero autorizzate quindici
operazioni di peacekeeping di cui nove in Africa.
4
Cfr. Carey M., “Peacekeeping in Africa: Recent Evolution and Prospects”, in Furley O.W. & May R., op. cit.,
p.13.
5
Cfr. Clapham C., “The United Nations and Peacekeeping in Africa”, Monograph n°36, 1999, in
www.iss.org.za/Pubs/Monographs/No36/unitednations.html. In questo caso Clapham usa il termine peacekeeping
in un senso ampio, includendovi qualsiasi dispiegamento di forze militari sotto l’autorità dell’ONU.
6
Cfr. Clapham C., op. cit., Monograph n°36 1999, www.iss.org.za/Pubs/Monographs/No36/unitednations.html.
5
Silvia Mariotti
pace o negli aiuti umanitari. Per questo autore l’intervento o il non-intervento
sono azioni politiche con inevitabili conseguenze politiche
7
.
Le due questioni presentate sopra relative ai caratteri dell’intervento
internazionale nella risoluzione dei conflitti sono, a mio avviso, da tenere in
considerazione nella lettura del caso ruandese.
La mia ricerca si è basata sullo studio di alcuni dei principali saggi pubblicati in
materia, in prevalenza di lingua inglese, francese e solo in minima parte da
autori italiani che hanno approfondito questo aspetto del genocidio. Ai fini
dell’analisi, ho trovato utili i rapporti emersi dalle inchieste indipendenti sul
genocidio istituite dall’ONU, dall’Organizzazione per l’Unità Africana e da
alcune Organizzazioni Non-Governative. Infine, ho usufruito di internet per
consultare alcuni articoli di riviste pubblicate on-line.
Il testo si compone di tre capitoli. Il primo definisce il contesto storico in cui è
venuto a svilupparsi il genocidio, focalizzandosi sull’ascesa e la crisi della
Seconda Repubblica ruandese (1973-1994). Particolare attenzione è rivolta alle
relazioni esterne del paese in ambito internazionale e regionale nel periodo post-
indipendenza.
Nel secondo capitolo vengono esaminate le modalità di coinvolgimento della
comunità internazionale in Ruanda precedentemente il genocidio, con risalto sul
dispiegamento della forza di pace dell’ONU, sul ruolo di Francia e Stati Uniti
già in questa fase e sull’esistenza di informazioni allarmanti circa la
preparazione di un piano di eliminazione fisica dei Tutsi da parte del regime
ruandese.
Il terzo capitolo, infine, si concentra sull’azione di ONU, Francia e Stati Uniti
durante i tre mesi del genocidio. A ciascuno dei tre attori analizzati è dedicato
un paragrafo dove si prende in esame il loro comportamento di fronte agli eventi
che hanno caratterizzato la crisi.
7
Cfr. Weiss T.G., “Military and Civilian Humanitarism: More Questions than Answers”, Disasters, 21(2), 1997,
p.103.
6
Silvia Mariotti
1. Lineamenti storici e relazioni internazionali del
Ruanda post-indipendenza
1.1 Ascesa e crisi del regime di Habyarimana
Al fine di comprendere le cause che condussero alla deriva del Ruanda nella
primavera 1994, in cui la comunità internazionale si è trovata coinvolta, è
necessario soffermarsi sui cambiamenti politici, sociali ed economici avvenuti
nel paese durante la Seconda Repubblica, tra il 1973 e il 1994.
Il 5 luglio 1973 il colpo di stato ad opera del Generale Juvénal Habyarimana,
appoggiato da membri dell’esercito e dalle élite hutu settentrionali, poneva fine
al regime di Grégoire Kayibanda
8
, primo presidente hutu della Repubblica
Democratica del Ruanda instaurata nel luglio 1962 dopo l’acquisizione
dell’indipendenza dalla potenza coloniale belga
9
. Questo drastico mutamento
politico seguiva una serie di tensioni maturate nei confronti del regime di
Kayibanda da parte delle élite hutu del Ruanda settentrionale da cui
Habyarimana proveniva, escluse dai benefici derivanti dal potere politico e
risentite per le precarie condizioni socio-economiche del paese
10
.
Assunto il potere, Habyarimana istituì un regime a partito unico dominato dal
Movimento Rivoluzionario Nazionale per lo Sviluppo (MRNS), fondato nel
1974 e a cui tutta la popolazione doveva iscriversi. Il sistema amministrativo e
burocratico vennero riorganizzati per rafforzare e centralizzare il controllo sulla
popolazione da parte del governo, in cui l’istituzione di una assemblea nazionale
e l’indizione di elezioni presidenziali costituivano soltanto una parvenza di
democraticità
11
.
A partire dalla metà degli anni settanta la situazione economica del paese
migliorò notevolmente e fino al 1987 il Ruanda registrò un cospicuo incremento
del Prodotto Interno Lordo, qualificandosi come uno dei paesi con il tasso più
8
Cfr. Prunier G., The Rwanda Crisis,1959-1994: History of a Genocide, Hurst, London, 1995, p. 61.
9
Cfr. Melvern L.R., A People Betrayed: the Role of West in Rwanda’s Genocide, Zed books, London-New York,
2000, p. 16.
10
Cfr. Scaglione D., Istruzioni per un genocidio. Ruanda: storie di un massacro evitabile, EGA, Torino, 2003, p.
24; cfr. Prunier G, op. cit., pp. 61, 75.
11
Cfr. Prunier G., op. cit., pp. 76-77.
7
Silvia Mariotti
alto di crescita della regione
12
. Questo si rese possibile grazie all’aumento delle
esportazioni di caffè e tè e all’espansione dei settori secondario e terziario
13
.
Tuttavia, il mutamento più significativo avvenuto con l’instaurazione della
Seconda Repubblica, come Mamdani sottolinea, riguardò la ridefinizione
dell’identità politica, da “razza” a gruppo etnico, della minoranza Tutsi, che
costituiva circa il 9% della popolazione del Ruanda
14
.
Precedentemente al 1973, durante la Prima Repubblica di Kayibanda, i Tutsi
vennero identificati all’interno della nazione ruandese come una “razza”
straniera
15
. Tale identificazione si rifaceva alla costruzione delle identità
politiche di Hutu e Tutsi così come formulate durante il colonialismo: prima
sotto l’amministrazione tedesca e poi, dopo la prima guerra mondiale, quella
belga
16
le identità di Hutu e Tutsi vennero rigidamente diversificate e catalogate
sulla base di presunte differenze razziali definite in epoca precoloniale. Mentre
Hutu e Twa furono classificati come popoli autoctoni, i Tutsi vennero
identificati come un gruppo razziale più civilizzato e non originario del luogo
17
,
ma di provenienza camitica
18
. La loro superiorità razziale, oltre che da caratteri
fisici, venne dedotta dalla posizione di potere e privilegio di cui godevano alcuni
lignaggi tutsi nel regno ruandese nelle ultime fasi del periodo precoloniale
19
.
All’interno di un sistema di governo “semi-indiretto”, le aristocrazie tutsi
vennero poste a capo delle autorità tradizionali locali che controllavano le
divisioni amministrative della colonia
20
. Agli Hutu, invece, venne impedita
qualsiasi possibilità di avanzamento sociale, soprattutto dopo l’introduzione nel
1933 delle carte di identità che sancirono l’appartenenza definitiva di ciascun
individuo ad una delle categorie di Hutu, o Tutsi, o Twa, a seconda dell’aspetto
fisico o del reddito
21
.
12
Cfr. Mamdani M., When Victims Become Killers: Colonialism, Nativism and the Genocide in Rwanda,
Fountain Publishers, Kampala, 2001, P. 144.
13
Cfr. Prunier G., op. cit., pp. 78-79.
14
Cfr. Mamdani M., op. cit., p. 138.
15
Cfr. Mamdani M., op. cit., pp. 134-135.
16
Cfr. Melvern L.R., op. cit., p. 9. Nel 1923 il Belgio ottenne dalla Società delle Nazioni il mandato di tutela del
Ruanda-Urundi.
17
Cfr. Mamdani M., op. cit., p. 102.
18
Cfr. Gourevitch P., Desideriamo informarla che domani verremo uccisi con le nostre famiglie. Storie dal
Ruanda, Einaudi, Torino, 2000, pp. 49-51. L’ipotesi camitica, formulata per la prima volta dall’esploratore John
Hanning Speke nel 1863, sosteneva che la sofisticata cultura e civiltà dell’Africa centrale fosse stata introdotta da
popolazioni migranti di origini etiopi, che per i loro tratti fisici, simili a quelli europei, e per la loro intelligenza
costituivano una razza superiore agli indigeni del luogo.
19
Cfr. Mamdani M., op. cit., pp. 15-16, 35.
20
Cfr. Braeckman C., Ruanda. Storia di un genocidio, Strategia della Lumaca, Roma, 1995, pp. 24-27.
21
Cfr. Melvern L.R., op. cit., pp. 10-11.
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