Premessa
del 2002, ma subito dopo riprende la sua corsa al rialzo, con un ritmo sempre
più incalzante: oltre 56 dollari nell’ottobre 2004. Si tratta di un aumento del
50% in un arco temporale tanto breve da ricordare gli shock petroliferi degli
anni Settanta.
Molti elementi fanno pensare che non siamo di fronte a una crisi passeggera.
E che se anche i prezzi dovessero attenuarsi, ben difficilmente torneranno ai
livelli dei primi anni Novanta, quando i listini oscillavano intorno ai 15-24
dollari al barile. Perché le cause di questa situazione non sono di carattere
congiunturale, ma l’esito di crepe strutturali che minano la solidità e la
governabilità dell’edificio. Il mercato del petrolio si è ammalato e c’è il forte
rischio che non si tratti di un malessere passeggero. L’ipersensibilità dei listini
e prezzi sempre più elevati sembrano confermare la diagnosi Alberto Clò, fra i
maggiori esperti di energia in Italia, che denuncia l’inizio di un nuovo oil
shock.
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I nuovi scenari
1 I nuovi scenari
Rispetto alle crisi del passato, si sono verificati mutamenti profondi.
All’epoca, dopo qualche fiammata violenta i prezzi rientravano sui livelli di
partenza. Oggi questo non accade più. Una prima spiegazione sta senza dubbio
nella forte accelerazione dei consumi. Nel corso del 2004 la domanda mondiale
è cresciuta a un tasso doppio rispetto alle previsioni nazionali, toccando gli
82,4 milioni di barili al giorno (mbg) e potrebbe superare presto
abbondantemente gli 84 milioni.
La ripresa dell’economia mondiale ha avuto un notevole peso, ma a essere
determinante è stata soprattutto l’irruzione sui mercati petroliferi della Cina e
di altri grandi paesi asiatici (con il progressivo “passaggio a Oriente” della
domanda), e la ripresa dei consumi negli Stati Uniti, uno di paesi massimi sul
ring della competizione per il petrolio.
Gli elementi in gioco sono molteplici: a cominciare dai conflitti e dalle
tensioni politiche in Medio Oriente, ma anche in Nigeria e Sudan, in Venezuela
nella stessa area del Caspio. Tra petrolio, guerre, terrorismo esiste spesso un
saldo intreccio. Molti grandi produttori come l’Iran sono nella lista degli “Stati
canaglia” dell’amministrazione Usa, nella quale fino a pochissimo tempo fa era
inserita anche la Libia.
Ma guerre e attentati non bastano a giustificare l’attuale corsa dei prezzi che
si spiega, invece, per la presenza di elementi strutturali di vasta portata.
La mancanza di dati chiari e attendibili sulla reale consistenza delle riserve
petrolifere costituisce un ulteriore elemento di instabilità e di confusione, come
bene ha evidenziato la reazione di panico dei mercati quando la Shell aveva
messo a libro barili di greggio inesistenti.
Sono sempre più rare le scoperte di nuovi giacimenti e spesso gli aumenti
dichiarati delle riserve sono frutto di rivalutazioni sulla carta..
Un ulteriore nodo è lo stallo degli investimenti in ricerca e in raffinazione.
L’aumento improvviso e sostenuto della domanda di benzine e gasolio ha
portato gli impianti ai limiti di saturazione.
Un deciso incremento della capacità sembrerebbe la mossa più semplice, ma
in realtà i tempi di risposta in questo settore sono di almeno un quinquennio; in
questo contesto si inserisce la crescente carenza di petroli di elevata qualità, più
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I nuovi scenari
facili da raffinare e con rese molto superiori in termini di benzina. Anche il
trasporto è diventato un fattore chiave: in un anno le rate spot delle
supertpetroliere sono aumentate almeno due volte rispetto ai livelli del 2003,
contribuendo al surriscaldamento dei prezzi.
Fra gli elementi che contribuiscono al clima di incertezza vi è la particolare
sensibilità dei mercati alle notizie di stampa e alle previsioni: i bollettini sulle
scorte o quelli dell’Agenzia internazionale dell’energia hanno assunto un peso
determinante. Sulla volatilità influiscono anche gli aspetti speculativi, che
tendono ad enfatizzare le situazioni di breve se non brevissimo periodo. La
speculazione finanziaria potrebbe sembrare un elemento marginale, di colore.
Non è così. Oggi, come racconta Leonardo Maugeri, responsabile delle
strategie dell’Eni, per ogni barile “ vero” ne vengono scambiati migliaia sulla
carta e la speculazione amplifica le tensioni sul mercato, agendo come cartina
al tornasole delle difficoltà di fondo.
I risultai economici da Guinness dei primati registrati dalle società petroliere
rappresentano l’altra faccia della medaglia: il 2004-2005 è stato un anno di
continui rialzi delle loro azioni, ben superiori alla media dell’intero listino.
ExxonMobil, Total, BP e Shell hanno chiuso i bilanci con un forte rialzo degli
utili, così come l’italiana Eni
1
.
A questi bilanci sfavillanti non hanno però corrisposto investimenti
aggiuntivi; molte grandi società hanno destinato il cash flow in operazioni di
riacquisto di azioni proprie e di distribuzione del dividendo e non in ricerca e
perforazione, come fecero in occasioni simili nel passato.
1
Eni è al sesto posto fra le maggiori aziende petrolifere mondiali. Nel 2004 l’utile netto è
cresciuto del 30% a 7,3 miliardi di euro.
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I nuovi scenari
Opec, un cartello nato dalla protesta
L’organizzazione dei paesi produttori ed esportatori di greggio (Opec)
nasce nel settembre del 1960, a Baghdad, per protesta contro la decisione
delle compagnie petrolifere internazionali, allora conosciute come le “sette
sorelle”
2
, di tagliare il prezzo del barile. Per ritagliarsi un ruolo e accrescere
il proprio peso nelle contrattazioni, un gruppo di cinque paesi capeggiati
dall’Arabia Saudita fondò l’Opec. Accolto con scetticismo nei paesi
occidentali, in una decina di anni il cartello riuscirà ad influenzare in modo
determinante i prezzi e il mercato. Il quartier generale è a Vienna, in un
edificio in riva al Danubio. Nonostante alterne vicende l’Opec resta un
protagonista di primissimo piano dello scenario energetico mondiale. Il
cartello controlla tutt’ora il 40% del mercato, con la previsione di arrivare
al 50% in pochi anni, e nei paesi membri si concentra l’80% delle riserve
mondiali. Oggi l’organizzazione conta 11 membri (Arabia Saudita, Kuwait,
Emirati Arabi Uniti, Iran, Algeria, Indonesia, Libia, Nigeria, Qatar,
Venezuela) mentre l’Iraq è in attesa di rientrare a pieno titolo e altri paesi,
come l’Egitto, stanno valutando la possibilità di aderire.
1.1 Conti in rosso?
Il rialzo dell’oro nero manderà cronicamente e drammaticamente in rosso i
conti delle economie petrolio-dipendenti? E’ un rischio reale. Le stime
dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), del
Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e dell’Agenzia internazionale
dell’energia (Aie) concludono che se le quotazioni del greggio resteranno a
lungo su livelli molto elevati, le economie occidentali rischieranno di
incepparsi, soprattutto in Europa, e che per i paesi in via di sviluppo le
conseguenze sarebbero ancor più drammatiche.
2
Questa espressione, che pare sia stata coniata da Enrico Mattei, è riferita alle sette
maggiori compagnie petrolifere del mondo negli anni Cinquanta-Sessanta. Si tratta delle
statunitensi Oil of New Jersey (ora Exxon), Gulf Oil, Texas (oggi Texaco), Standard Oil of
California (Chevron) e Socony Vacuum (oggi Mobil), più le europee Shell e British
Petroleum.
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I nuovi scenari
Il vero rischio, dicono gli esperti, è che gli aumenti dell’energia influiscano
sul costo della vita e inneschino una spirale di rivendicazioni salariali che a sua
volta si ripercuoterebbe sui costi del sistema industriale.
Il balzo dei prezzi ha suscitato un crescente allarme fra le autorità politiche,
i sindacati, le imprese, e gli stessi consumatori, colpiti nei portafogli dai
continui aumenti dei carburanti, del riscaldamento e dei trasporti. Dichiarazioni
preoccupate sugli effetti negativi sono state espresse dal Ministro del Tesoro
Usa, John Snow, dal governatore della Banca centrale europea, Jean-Claude
Trichet, nonché dal Fmi e dall’Ocse.
1.2 Le nuove frontiere dell’energia
Si ridiscute molto e da anni sull’effetto che potrebbero avere politiche tese a
incentivare lo sviluppo accelerato di fonti alternative al petrolio. Una risposta
alla sete di energia dei prossimi vent’anni può venire sicuramente dal gas e dal
carbone, anche se per quest’ultima fonte restano vincoli legati all’effetto serra.
Il gas naturale sta già sostituendo il petrolio in molti paesi e per molti usi,
tanto che la maggioranza degli esperti ne prevede un futuro molto favorevole,
anche grazie a disponibilità decisamente superiori a quelle del greggio.
Un contributo non trascurabile alla soluzione del problema potrebbe venire
dal nucleare, ma l’uso dell’energia atomica pone seri problemi di accettabilità
sociale, nonostante il sensibile miglioramento delle tecnologie di sicurezza. In
Europa, per esempio, l’unico paese che sta costruendo una nuova centrale
atomica è la Finlandia. Le proiezioni internazionali prevedono una riduzione
del contributo del nucleare al bilancio energetico globale e anche negli Stati
Uniti sembra avviato al declino. Resta poi il nodo delle scorie, di sempre più
difficile soluzione. Quasi ovunque la realizzazione di siti per mettere in
sicurezza i rifiuti radioattivi incontra grani difficoltà.
Anche lo sviluppo dell’idroelettrico incontra difficoltà di carattere
ecologico, nonostante l’energia prodotta sia veramente pulita. Al centro della
contestazione sono le dighe giganti, che possono stravolgere il territorio e la
vita delle popolazioni locali; le prospettive tecniche in alcuni casi potrebbero
invece essere incoraggianti, stante la grande abbondanza di acque nei paesi
emergenti e nel Nord America. Allargando il campo di visuale all’interno delle
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I nuovi scenari
fonti rinnovabili, si ritiene che esse possano fornire un contributo crescente ma
non determinante alla soluzione del problema energetico globale. Il direttore
dell’Aie, Claude Mandil, ne prevede un forte incremento nei prossimi 25 anni,
ma a quella data geotermoelettrico, solare termico, fotovoltaico, eolico e
biomasse potranno soddisfare non oltre l’1,5% della domanda mondiale contro
lo 0,5% attuale. E l’idrogeno? Per alcuni esperti, con un potente sforzo di
innovazione tecnologica, potrebbe diventare la fonte di energia del futuro e la
risposta agli obiettivi del Protocollo di Kyoto che prevede una riduzione dei
gas serra del 5% a livello planetario. Ma le tecnologie attuali sono ancora ben
lungi da una soluzione.
Per adesso l’unica prospettiva reale è costituita da un serio sviluppo degli
investimenti in nuove tecnologie ad alta efficienza, verso il risparmio
energetico e i progetti per ridurre gli impatti sull’ambiente. Il miglior alleato
potrebbe essere proprio l’alto prezzo del petrolio, capace di spingere nella
direzione di un taglio dei consumi, di un incremento delle fonti rinnovabili e di
un uso più razionale dell’energia.
In conclusione, non sappiamo come evolverà lo scenario petrolifero,
sappiamo però che è entrato in una fase dominata da grandi incertezze e nuove
fragilità che non mancheranno di riflettersi sull’economia e sulla nostra vita,
richiedendo scelte politiche e risposte adeguate.
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I nuovi scenari
Le caratteristiche del petrolio
Ogni giacimento produce un tipo di petrolio con caratteristiche differenti,
principalmente in rapporto alla densità e alla presenza di zolfo. La prima si
misura utilizzando una scala da 10 a 50 dell’American Petroleum Institute
(Api): i greggi pesanti come i venezuelani Bachaquero e Boscan, o L’Arabian
Heavy hanno sotto i 22 gradi Api, quelli medi tra i 22 e 34, quelli leggeri
come il Brent, il Wti, il nigeriano Bonny Light superano i 34 gradi Api. A
seconda del contenuto di zolfo, i greggi si dividono in tre diverse categorie,
sweet (dolce), medium sour e sour (mediamente acido e acido), secondo
l’antica definizione coniata quando il petrolio veniva letteralmente
“assaggiato” per stabilirne la qualità. Fra le varietà più “dolci” figurano i
norvegesi Ekofisk e Asgard con una percentuale di zolfo intorno a 0,2%, fra i
più “acidi” il Maya, estratto in Messico (3,3%) o l’Arabian Heavy (2,9%).
Spesso i greggi più leggeri sono anche quelli con minore contenuto di zolfo,
ma le eccezioni non mancano.
Altri parametri significativi sono la viscosità e la temperatura minima di
scorrimento. Più è elevata la viscosità, più aumentano i rischi di
solidificazione; se un petrolio è molto viscoso, scorre con più difficoltà negli
oleodotti. Inoltre, un greggio ad alta temperatura di scorrimento tende a
solidificare a temperatura ambiente ed è dunque più complesso da far
viaggiare. Tutte queste caratteristiche sono decisive per il valore di mercato di
un determinato petrolio. Da un barile di petrolio leggero e dolce come il
Brent, si può estrarre un quantitativo di benzina e gasolio molto superiore che
da un barile di Bachaquero o di Arabian Heavy. Anche un petrolio con poco
zolfo riduce i costi di abbattimento degli inquinanti. Pertanto i greggi leggeri e
dolci sono migliori, sotto il profilo della raffinazione, rispetto a quelli pesanti
e acidi
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.
3
Gli idrocarburi: origine ricerca e produzione, Eni 2004.
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I nuovi scenari
Tabella 1. Le caratteristiche di alcuni tipo di petrolio
Provenienza Grado Api Zolfo
Brent Blend Regno Unito 38,3 0,37
Wti Usa 39,6 0,24
Urals Russia 32,0 1,30
Arabia Heavy Arabia Saudita 27,5 2,92
Ekofisk Norvegia 39,2 0,19
Maya Messico 21,8 3,33
Bonny Light Nigeria 35,4 0,14
Bachaquero Venezuela 13,0 2,68
Daquing Cina 32,0 0,11
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Il barile alle stelle
2 Il barile alle stelle
Dalla metà del 2003 la corsa dei listini del greggio sembra inarrestabile. Le
quotazioni reali hanno quasi toccato i livelli raggiunti con le crisi degli anni
Settanta, l’incubo di un nuovo shock petrolifero è tornato ad affacciarsi sullo
scenario mondiale. Dopo un periodo di relativa stabilità, i mercati hanno
cominciato a dare segni di nervosismo e i prezzi hanno preso a oscillare, prima
al ribasso, poi al rialzo. In meno di un anno, il Wti è passato da 30 a 50 dollari
al barile, toccando punte di 58 dollari nei primi mesi del 2005.
Il “barile alle stelle” è frutto di una serie di concause. Alcune di natura
strutturale, altre di più breve periodo, intrecciate fra loro in un groviglio
inestricabile.
Tra le motivazioni strutturali dell’attuale crisi dei mercati emergono per
importanza:
1. la forte accelerazione della crescita dei consumi;
2. la riduzione del rapporto tra produzione e capacità produttiva a breve
(spare capacity);
3. le strozzature nel settore della raffinazione;
4. l’insufficienza degli investimenti.
Nel corso del 2004, i consumi petroliferi mondiali hanno mostrato un
improvviso risveglio, dopo un quinquennio di lenta crescita, passando da meno
di 78 a oltre 82 milioni di barili al giorno.
Questo repentino aumento è dovuto, in larga misura, a una ripresa
dell’economia mondiale, che ha visto coinvolti numerosi paesi soprattutto nel
continente asiatico, con l’eccezione dell’Europa.
In Cina, grazie a una spettacolare crescita del Pil, la domanda di petrolio è
cresciuta del 15% superando i 6 milioni di barili al giorno. Ma un ruolo di
primo piano lo hanno giocato anche gli Stati Uniti, dove nel 2004 il fabbisogno
è aumentato di mezzo milione di barili al giorno, stimolato dall’incremento dei
consumi delle famiglie, a sua volta generato dalla maggiore disponibilità
finanziaria resa possibile dal taglio delle tasse dell’amministrazione Bush.
A fronte di questo risveglio della domanda, l’offerta si è trovata
completamente spiazzata. I paesi Opec, in particolare quelli del Medio Oriente,
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