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padiglione di caccia dello shōgun (将軍) Tokugawa, nel silenzio dei canali con i piccoli
cortili ricoperti di muschio, l’ultima cosa che verrebbe in mente, è di trovarsi nel centro
brulicante di una delle metropoli più grandi del mondo: Tōkyō. L’incanto dura infatti
finché il fogliame non si dirada e, all’improvviso, dietro il profilo di un pino centenario,
si disegnano le linee nette di un gruppo di grattacieli in vetro e acciaio. Nonostante le
meravigliose bellezze naturali del Giappone, ciò che affascina maggiormente il
visitatore giunto per la prima volta nell’universo giapponese non è la bellezza, ma le sue
contraddizioni. Il fascino di questo paese sta nella sua doppiezza che affianca tecnologia
futuristica e richiami ad un mondo antico, tradizione e modello occidentale, permanenze
culturali e imitazioni. Il Giappone è così, un paese dove passato e futuro s’intrecciano
nel presente e dove, semplicemente, le cose esistono per sempre, indefinitamente uguali
a se stesse. Per esempio non è raro, in questa metropoli di 13 milioni d’abitanti,
svoltando l’angolo di un gran magazzino di quindici piani, trovarsi di fronte ad un
intreccio di viuzze tortuose e a vecchi negozietti di legno; oppure ad Osaka distinguere
dietro ad un groviglio di parabole, il triangolo minuto di un antico tempietto scintoista. I
Giapponesi non considerano il loro stile e la tradizione occidentale come due culture
distinte. All’interno del loro bagaglio culturale convivono le innovazioni portate dai
cinesi un millennio fa, dagli olandesi del Settecento e dagli europei e americani degli
ultimi decenni. Ecco perché il kotatsu (火燵), l’antico tavolino collocato sopra un
braciere per scaldare le gambe, non è tramontato; semplicemente il braciere è stato
sostituito con una stufetta elettrica. Ed ecco perché il bagno rimane sempre il rito serale
prediletto dai Giapponesi, ma la vasca di legno è diventata un idromassaggio regolato
da un computer. Il riso è ancora il piatto principale, ma è cotto in una modernissima
pentola automatica; il tè continua ad essere il miglior gesto di benvenuto all’ospite, ma
si tiene pronto in un thermos in materiale plastico.
Per quanto riguarda Tōkyō, a dispetto della facciata supermoderna che esibisce
con i suoi grattacieli, le sopraelevate, la miriade di luci psichedeliche, essa rimane una
città profondamente orientale. Si può affermare ciò non solo per l’antico tempio che qua
e là si affaccia tra le costruzioni futuristiche, né per la grazia sommessa della ragazza in
kimono (着物) che capita di veder scendere dalla metropolitana, quanto piuttosto per la
sua stessa topografia. Tōkyō è profondamente lontana dal concetto urbanistico
dell’Occidente. Infatti la città, per come la pensiamo noi europei, si sviluppa intorno ad
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un centro geografico che costituisce al tempo stesso il fulcro della vita politica,
spirituale, finanziaria, commerciale e sociale degli abitanti. Nel centro della città
occidentale sorgono il municipio, il duomo, le banche, il mercato, la piazza con il caffè
e il passeggio; e ad esso fanno riferimento ogni via e prospettiva cittadina. Per Tōkyō
questo criterio prettamente occidentale non vale: qui il senso dello spazio è centrifugo,
ruota cioè intorno a una serie di “centri” disseminati nel tessuto urbano, ciascuno dei
quali è caratterizzato da una propria autonomia, senza mai identificarsi come un unico,
vero centro urbano. Si può dunque affermare che la tecnologia sia stata importata, più
per facilitare lo stile di vita giapponese, che per il fascino esercitato dal moderno in sé.
Fin dall’Ottocento, quando il Giappone si è aperto all’Occidente, la corsa del Paese agli
ultimi traguardi della tecnica è stata rapidissima, ma non per una particolare ideologia
progressista: da un lato era necessario possedere gli stessi strumenti dell’avversario,
dall’altro era possibile migliorare il tenore di vita per preservare, nel cambiamento, la
propria identità. Perché dunque non cogliere quest’opportunità? Perciò non ha senso
domandarsi se il vero Giappone sia quello delle incontaminate vette del nord nel
selvatico Kyūshū, o quello del Sunshine building di Tōkyō con i suoi 60 piani. È uno e
l’altro; e l’unicità giapponese sta proprio nell’aver saputo conciliare gli opposti in un
concetto di tradizione e di semplicissima ma profondissima affezione ai valori antichi.
Il mio lavoro è strutturato nella sua componente principale in tre capitoli.
Nel primo ho deciso di introdurre, per linee generali, la presenza della città di
Tōkyō nella storia del Giappone. Ho ritenuto, infatti, importante per un’analisi adeguata
della città, trattare dapprima la storia del Paese soffermandomi, soprattutto, sulla sua
trasformazione attraverso i secoli e sulla importanza crescente nel quadro delle potenze
mondiali.
Nel secondo capitolo ho deciso di trattare la città nella sua interezza:ne ho
analizzato la morfologia urbana attraverso la sua topografia e ho messo in rilievo
l’importanza dei trasporti. La città, come è pensata da noi occidentali, si sviluppa
attorno ad un centro geografico che costituisce al tempo stesso il polo della vita politica,
spirituale, finanziaria, commerciale e sociale degli abitanti. Per Tōkyō questo criterio
non vale: qui il senso dello spazio è centrifugo, ruota cioè intorno a una serie di “centri”
disseminati nel tessuto urbano, ciascuno dei quali è caratterizzato da una propria
autonomia, e non si identifica mai come l’unico, vero centro della città.
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Nel terzo capitolo ho deciso di affrontare i contrasti che caratterizzano la
metropoli; infatti nel suo paesaggio urbano si riscontrano tecnologie all’avanguardia e
richiami al passato, evidenziate da grattacieli ultramoderni affiancati a templi scintoisti
che richiamano la tradizione. In questo capitolo ho poi messo in rilievo la figura della
donna in cui convive un’aspirazione all’emancipazione, eliminando in parte la sua
funzione di geisha (芸者) ai servizi del marito. Nei giovani si nota una forte tendenza
all’“occidentalizzazione” in contrasto alla cultura nazionale che spiega il loro rispetto
per le tradizioni orientali.
Figura 1: Immagine suggestiva del parco Hamarikyu in cui si nota una evidente mescolanza nel
paesaggio urbano di Tōkyō tra passato e presente.
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Capitolo primo
La città di Tōkyō nella storia del Giappone
1.1 La fondazione di capitali stabili
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Per comprendere la storia della città di Tōkyō (東京) è necessario rifarsi più in
generale a quella di tutto il Giappone e delle sue capitali, che nel corso dei secoli sono
state molteplici e hanno dato il nome ai diversi periodi nei quali convenzionalmente si
divise la storia del paese. La storia di Tōkyō inizia, per questi motivi, solo nel XV
secolo.
Scarse sono le notizie disponibili sulle tribù neolitiche che hanno popolato il
territorio giapponese; bisogna giungere fino al periodo compreso tra il 300 e il 500 d.C.
per vedere una di queste, gli Yamato (大和), consolidare il proprio potere nella pianura
di Kansai (関西) e fondare le basi di quello che sarebbe diventato, nei secoli successivi,
il Giappone moderno. Era in questi secoli che i capi Yamato si attribuivano origini
divine, sostenendo di essere i discendenti della dea Amaterasu Ōmikami (天照大御神)
2
,
e assumevano il titolo di imperatori.
In parallelo compariva il buddismo, importato dalla Cina, che affiancava, senza
sostituirla, la religione scintoista indigena. Fino ad allora la sede dell’imperatore e del
governo si era sempre spostata da una località all’altra; tuttavia, nel 710, venne fondata
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Per un approfondimento sulla storia del Giappone cfr. CORNA PELLEGRINI G. (con la collaborazione
di ROMOLI G., COLAO M.A. e OTERI M.F.) L’Asia meridionale e orientale, Utet, Torino, 1982;
CORRADINI P., Il Giappone e la sua storia, Bulzoni editore, Roma, 1999.
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Nella religione scintoista la dea Amaterasu Ōmikami rappresenta la dea del Sole alla quale viene
riconosciuta la posizione di governatrice di tutti i kami (神,dei del cielo e della terra). Essa è ritenuta allo
stesso tempo l’anima del mondo, la manifestazione storica di questa, la fondatrice dello stato e l’antenata
della famiglia imperiale.
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la prima città giapponese, Nara (奈良), dove fu stabilita la capitale. Infatti le aumentate
esigenze amministrative, portavano alla necessità di avere uffici con sedi stabili.
Modello seguito nella costruzione di Nara fu quello di Chang’an, in quello stesso
periodo capitale della Cina dei Tang. Nel 784, anno in cui l’imperatore Kanmu (桓武)
decise di trasferire la capitale a Nagaoka (長岡), a circa 50 km a nord-ovest da Nara.
Quest’ultima rappresenta il simbolo dell’evoluzione strutturale dello stato giapponese e
il centro principale di diffusione del buddismo. Nei suoi immediati dintorni sorgevano
infatti circa cinquanta templi, e i monaci, grazie ai favori ricevuti dai nobili e dalla
corte, iniziarono a intromettersi negli affari di stato al punto che anche l’autorità
imperiale ne fu minacciata. Per questi motivi l’imperatore Kanmu decise di trasferire la
capitale a Nagaoka. Ma l’eliminazione dell’influenza sul potere politico dei templi
buddisti, che erano sorti intorno a Nara, non era la sola motivazione del trasferimento
di capitale. Nara è infatti lontana dal mare mentre la localizzazione della capitale
richiedeva una buona posizione, per comunicare sia con il resto del Giappone sia con il
continente. Le comunicazioni per acqua e per terra dal fiume Yodogawa (淀川), nella
pianura di Yamashiro (山城), sono migliori di quelle della zona di Nara anche perché il
fiume è ben collegato al piccolo porto destinato, nel futuro, a diventare Ōsaka (大阪).
Al momento di abbandonare Nara l’imperatore proibì ai vari monasteri di trasferirsi
anch’essi nella nuova capitale. Anche la nuova capitale prese a modello Chang’an, ma
doveva essere più grande e più splendente, in accordo con i progressi politici del paese,
di qualsiasi altra città del Giappone. Fujiwara Tanetsugu (藤原種継) venne incaricato
della costruzione della nuova capitale. Questo architetto durante i lavori, dovette
affrontare numerose difficoltà. Tra esse, forse la più insidiosa, fu quella creata dal
principe Sawara (早良), fratello dell’imperatore, e da molte famiglie nobili che
volevano bloccare la lenta ma tenace ascesa al potere del clan
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Fujiwara. Per questo
Tanetsugu fu accusato di essersi accordato con una ricca famiglia di origine cinese che,
in cambio dei terreni su cui sorgeva la capitale, si aspettava favori di corte. Tanetsugu
venne assassinato nel 785 e il principe Sawara venne accusato di aver ordinato il suo
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Con il termine clan o uji (氏) si indica un insieme politico-territoriale basato su un nucleo familiare ad
orientamento patrilineare, all’interno del quale vengono trasmesse le cariche religiose e le funzioni di
potere. I suoi componenti si considerano discendenti di un antenato comune, portano lo stesso nome e
venerano le stesse divinità.