6
o più semplicemente quasi del tutto inosservate. Sicuramente, un modo giusto di affrontare il
problema è porre l’obiettivo di “riordinare” e di ”riempire” i vuoti in modo sostenibile.
Un esempio tra tutti è costituito da Berlino Ovest e dalle zone prospicienti il Muro, che fino ai
limitati rinnovi urbani dall'IBA (Internationale Baukunst Austellung), documentano dall'inizio
degli anni Ottanta, lo scenario devastato di una tremenda fase storica che ha generato lacune
e vuoti tali da rendere necessaria l'esigenza di sottoporre a tutela un‘area così vasta.
Figura 1 Ricostruzione di Berlino
All'opposto, nel progettato sistema di pregevoli interventi architettonici berlinesi, si
potrebbe anche riscontrare un eccesso di sicurezza. Infatti, tali interventi, inseriti
nell'incredibile “vuoto storico” lasciato aperto fino ad ora, testimoniano anche una ferita
non facilmente rimarginabile e la tremenda diversità di una capitale isolata in territorio
nemico e pertanto, paradossalmente esterna alle stesse mura che la circondano
2
.
Nell’ambito delle aree dimesse, un’analisi particolareggiata meritano le cosiddette “Aree
industriali” ossia le aree che per l’ordine dimensionale, per la durata dello stato di
abbandono, e per la lentezza delle iniziative di riuso, a causa di una serie di fattori
economici e ambientali, rivestono una importanza di notevole interesse ed hanno
necessità, per la loro riqualificazione, di un insieme di azioni concertate fra soggetti
pubblici e privati, nonché di specifici strumenti attuativi. In generale, si avverte l’esigenza
di trasformare queste aree cercando di adattarle allo spazio circostante e di renderle
flessibili rispetto ad una realtà in continua trasformazione dando allo stesso tempo le
garanzie, tramite regole certe, che l’intervento possa essere svolto in tempi compatibili a
una effettiva realizzazione
2
Selle K., Spazi aperti: nuove forme d'azione, in Urbanistica, n° 107, 1996
7
Il problema delle aree dismesse acquista rilevanza e viene eletto ad oggetto di ricerca
tanto quanto più aumentano la sua diffusione e riproduzione: il ripetersi di casi analoghi, o
quanto meno legati da un filo comune, spinge ad interrogarsi sulle cause di un tale
fenomeno e a cercare il modo di ovviare ai suoi eventuali effetti negativi.
Parallelamente a ciò, aumenta la capacità di convivenza con alcuni suoi aspetti da parte
della società: rispetto ad esempio ai problemi connessi alla dismissione di aree industriali è
ovvio che questi saranno drammaticamente sentiti e partecipati dall'opinione pubblica se
comportano gravi conseguenze occupazionali, mentre tenderanno a passare quasi
inosservati se riferiti a edifici sul piano produttivo considerati irrilevanti. C'è una sorta di
assuefazione che spinge il cittadino che attraversa una grande città ad accettare come
elementi di un paesaggio immutabile (e paradossalmente in continua mutazione) costruzioni di
varia natura, accomunate dalla condizione di abbandono, capaci al massimo di suscitare
lo stesso sottile disagio di un campo ormai incolto, di un bosco non più “pulito”.
Ulteriore punto da non sottovalutare è costituito dall’elevata potenzialità ecologica delle
aree dismesse: la ridestinazione degli spazi liberi ad aree verdi appare necessaria anche
per la formazione di “corridoi ambientali”.
Inoltre, il recupero di dette aree si colloca al crocevia tra diverse problematiche: da un lato
il disagio sociale e il degrado ambientale legato alla dismissione, e dall’altro il rilancio del
sistema urbano, dei livelli occupazionali e le occasioni di business per gli operatori
economici, date dalla collocazione di nuove funzioni e di servizi.
In un’ottica anche di marketing urbano, la qualità ambientale sempre più deve essere tirata
in gioco per attirare investimenti e localizzare attività pregiate.
Un punto di partenza può essere quello di cogliere l’occasione storica di ripensare la città
a partire dai suoi vuoti e, a tale scopo, stanno nascendo nuove figure professionali che si
occupano del recupero e della riutilizzazione di questi “corpi estranei” alla città.
Ultimamente in molti paesi europei si nota l’emergere di un’ampia gamma di aree
dismesse, legate al terziario, unito alla dismissione residenziale; infatti, da un'attenzione
quasi riferita esclusivamente agli edifici industriali e alla loro condizione di abbandono e di
degrado, si sta passando ad una più complessiva ricognizione di tutti quegli edifici che, per
una causa o per l'altra, avevano perduto la loro originaria ragione d'essere.
Il presente lavoro si propone l’obiettivo principale di analizzare in che modo questo problema
è stato affrontato in Italia e in alcune aree dell’Europa Occidentale. L’introduzione del
fenomeno delle aree dismesse, oggetto del primo capitolo, ha consentito di cogliere la
correlazione con il concetto di archeologia industriale, di cui si offre una panoramica nel
8
capitolo secondo. L’archeologia industriale ha come scopo quello di collocare nel giusto
contesto della storia, della società e della tecnologia, il valore del patrimonio dei mezzi di
produzione e dei fabbricati industriali dismessi che costituiscono tipologie uniche, la cui
scomparsa costituirebbe una grave perdita. Le riflessioni relative all’archeologia
industriale, hanno introdotto lo studio delle aree industriali dismesse in Italia. Si è
focalizzata l’attenzione su due casi di particolare interesse: il caso dell’area Ostiense a
Roma e quello dell’area milanese di Sesto San Giovanni. Successivamente l’analisi si è
sviluppata con l’osservazione dei piani e delle modalità di recupero di alcune aree anche
in ambito europeo, col fine di confrontare l’evoluzione del concetto di “aree dismesse” nel
nostro paese con la situazione in Europa. In particolare si sono analizzati il caso tedesco
dell’area della Ruhr e il caso francese della Promenade Plantée. Il primo, sinonimo di
recupero in ambito industriale, il secondo invece, di trasformazione di un antico tracciato
ferroviario dismesso in un’area di notevole valore dal punto di vista strutturale e
ambientale. Tale esemplare modello di riuso ha suggerito l’approfondimento del tema del
riutilizzo delle linee ferroviarie dismesse per la creazione di greenways e delle strade
riconvertite in piste ciclabili. Dall’esperienza italiana (esemplari il caso della ciclopista del
sole nella Regione Sicilia, e delle “vie verdi” in Veneto e nell’area adriatica), si sono
analizzate le esperienze europea del progetto Eurovelo e quella americana del “rail
banking” e del “rail with trail”.
9
Cap. 1 Le aree dismesse in Italia
1.1 La situazione fino agli anni novanta
La questione delle aree dismesse si è presentata con forza nel nostro paese agli inizi degli
anni novanta, in concomitanza con il decremento demografico e con l’attenuazione della
crescita urbana, due fenomeni che avevano caratterizzato ininterrottamente la realtà delle
città italiane, dalla fine della seconda guerra mondiale in poi. In particolare, con
l’abbandono di vaste parti della città industriale e degli spazi dedicati alle infrastrutture
civili o militari più interni alle strutture urbane e conseguentemente con il degrado e
l’abbandono di vaste parti del territorio urbano, il problema delle aree dismesse è divenuto
centrale
3
.
In Italia, la cultura della conservazione del patrimonio artistico e storico e del suo recupero
all’interno delle città d’arte, ha sempre ricoperto un ruolo primario, essendo l’Italia stessa,
un patrimonio dell’arte a livello mondiale.
A partire dalla fine degli anni ottanta tuttavia, ci si è resi conto dell’impossibilità di poter
trattare allo stesso modo la questione delle aree dismesse soprattutto data la forte
connessione di tale questione con le grandi trasformazioni industriali del paese,
nell’ambito della nuova organizzazione politico-economica.
Specialmente del Nord Italia, dopo la caduta del muro di Berlino e dopo il cambiamento
3
D’Agostino R., Qualità urbanistico architettoniche e ricadute socio- economiche, in. Dragotto M., Gargiulo C., (a
cura di), Aree dismesse e città, Franco Angeli Editore, Milano 2003. p. 17-19
10
degli scenari geopolitici, l’intero patrimonio delle zone industriali costiere, sviluppatesi
intorno alla lavorazione delle materie prime, delle aree occupate dagli stabilimenti
manifatturieri progressivamente abbandonati per motivi diversi, delle aree militari
dismesse e delle grandi strutture terziarie e di servizio (ospedali, scuole, scali ferroviari e
così via) ha subito un forte contraccolpo.
Conseguentemente, all’inizio degli anni novanta, si e’ cominciato a pensare ad un nuovo
modo di riorganizzare il disegno urbano, cercando di dare più spazio alla qualità, e
tenendo conto anche delle opportunità economiche per gli operatori, sia pubblici che
privati, di poter intervenire in queste parti di città pregiate e oramai liberate, viste ora come
una grande risorsa.
In questo periodo sono fiorite iniziative innovative come i programmi di riqualificazione
urbana (PRU) con l’obiettivo di rigenerare le città dall’interno, trovando accordi tra pubblico
e privato
4
.
Per ultimo si è andato consolidando il nuovo ruolo propositivo delle pubbliche
amministrazioni, volto ad utilizzare le aree dismesse per reperire servizi e spazi che la
crescita forsennata precedente aveva tralasciato.
A loro volta puntando ad alti livelli di qualità insediativi (pluralità di funzioni, spazi verdi,
nuove residenze, attrezzature collettive, infrastrutture), i PRU hanno tentato il recupero
fisico e funzionale degli spazi degradati e mal utilizzati e l’incremento delle dotazioni di
base nei quartieri di edilizia pubblica sui quali agiscono.
La legge 493/1993 ha destinato i fondi ex gescal all’attuazione dei PRU
5
.
Agli inizi degli anni novanta si è presentata per la prima volta anche la necessità di
bonificare i suoli e di intervenire per migliorare la qualità dell’ambiente
6
.
A tal proposito, è da sottolineare l’interessamento di alcuni studiosi europei e
nordamericani che hanno lanciato un allarme ambientale sul rischio ecologico delle aree
dismesse dei siti industriali, proprio per lo stato di abbandono al quale esse sono soggette.
Tali studiosi (riuniti nel 2004 in un convegno internazionale sulle aree dismesse a Venezia
e promosso dal Dipartimento di Pianificazione dello IUAV –Università di Architettura di
Venezia- e di IDEAS -Università di Ca’ Foscari) hanno messo in risalto la situazione
italiana in cui 9000 ettari sono occupati da siti dismessi: la sola zona industriale di
4
Goretti G., Qualita’ urbana e architettonica nel recupero delle aree dismesse, in Dragotto M., Gargiulo C., (a cura di)
Aree dismesse e città, Franco Angeli editore, Milano 2003. p.42
5
Se si pensa al caso di Roma, undici di questi programmi settoriali sono tuttora fermi alla Regione. Un esempio è il
PRU di Ostia Ponente individuato nel 1995, il quale è stato oggetto di un accordo di programma nel 1998, rimodulato
nel 2002 e si prevede che venga attuato entro il 2006.
6
Turvani M, Aree industriali abbandonate: senza manutenzione rischio bombe ecologiche, in News, a cura dell'Ufficio
Stampa del Cnr, Roma, 31 gennaio 2003.
11
Marghera, ad esempio, ne occupa 2000 ettari, una buona porzione dei quali risulta
pesantemente contaminata.
Da uno studio della provincia di Venezia è emerso poi che su 365 aree prese in
considerazione, ben 176 sono potenzialmente a rischio.
Se si esamina il fenomeno anche negli altri Paesi europei, si scopre che si tratta di una
piaga ecologica molto diffusa: in Germania i siti dismessi già censiti interessano 128.000
ettari, in Gran Bretagna 39.600 ettari, in Francia 20.000 ettari, (in Olanda tra i 9.000 e gli
11.000 ettari) e in Belgio 9.000 ettari, mentre mancano dati sicuri per Grecia, Austria e
Danimarca.
“L’impresa che abbandona un’area non è tenuta per legge a bonificarla e il risultato è una
pesante eredità ambientale”: composti altamente pericolosi cominciano a migrare infatti
nell’ambiente circostante senza alcun controllo
7
.
Le conseguenze diventano ancora più preoccupanti se si pensa che spesso queste aree
industriali si trovano vicino al cuore delle nostre città o, comunque in zone urbane
“densamente popolate".
Oltre al rischio ecologico delle aree dismesse, occorre considerare l’importante questione
connessa ai lavoratori che si trovano a dover rientrare nella categoria degli esuberi e che
diventano “lavoratori dismessi”: con essa nasce la necessità della loro ricollocazione. Basti
pensare ad esempio, ad alcuni tra i siti industriali dismessi più importanti, come il Polo
industriale di Porto Marghera, Bagnoli, il Pignone, la fabbrica delle Conterie di Murano.
E’ pur vero è che spesso gli interventi attuati si sono poi trasformati in semplici operazioni
immobiliari, nonostante i buoni propositi iniziali che avrebbero dovuto riguardare tutti gli
aspetti sociali: dalla qualità della vita urbana fino all’ambiente, laddove per qualità può
intendersi il risultato finale dell’intervento e non la specifica qualità architettonica del
progetto realizzato.
La qualità può essere valutata sulla base di due parametri principali: il primo è il contributo
al miglioramento generale della città, alla sua immagine e alla sua competitività.
Il secondo, è il miglioramento della qualità di vita dei cittadini che vivono in quel contesto,
in modo tale che si inneschi un processo di integrazione e di consapevolezza nella
popolazione.
7
Turvani M, Aree industriali abbandonate: senza manutenzione rischio bombe ecologiche, in News, a cura dell'Ufficio
Stampa del Cnr, Roma, 31 gennaio 2003.
12
1.2 Il rapporto tra contesto sociale e futuri progetti per le aree dismesse
Molto spesso le aree in disuso che devono essere recuperate, proprio perchè presenti in
zone centrali e semicentrali delle grandi città urbane, costituiscono un vero punto di forza
nei sistemi territoriali. Tali aree possono ridiventare produttive, efficienti ed
economicamente appetibili.
Tale potenzialità, però, si scontra con la necessità di far partecipare al perseguimento di
questi obiettivi l’insieme delle forze economiche e sociali presenti nella realtà urbana, vale
a dire le istituzioni locali, le rappresentanze imprenditoriali, le autonomie funzionali e le
associazioni presenti sul territorio.
Per garantire il successo a un’operazione di rinnovo di un’area dismessa sono
fondamentali tre elementi: la progettazione, la negoziazione e la dimensione gestionale,
non solo dell’intervento costruttivo, ma del processo nel suo insieme
8
.
Per quanto riguarda il primo elemento, quello della progettazione, si deve tenere conto di
tutti gli aspetti che potrebbero assumere rilevanza, specialmente di quelli culturali.
Nel recuperare il Lingotto a Torino (chiuso dalla Fiat nel 1982), si pensò inizialmente di
abbattere la struttura, ritenuta il simbolo “della schiavitù“ e del lavoro forzato della fabbrica.
Fortunatamente si scelse la strada del recupero e del riuso dello stabilimento, tramite un
bando di concorso internazionale che nel 1983 fu vinto dall’architetto Renzo Piano. Lo
stabilimento che negli anni ’20 aveva guidato la città verso lo sviluppo industriale, oggi è
diventato il simbolo del terziario avanzato, uno spazio aperto alle convention, alla ricerca,
all’università, all’accoglienza ed infine un polo culturale che si trasforma in fiera.
Ciò testimonia che la miglior soluzione è sicuramente un “mix” non solo di funzioni ma
anche di comportamenti sociali, rispettosi della comunità che vive in essa
9
.
Per quanto riguarda il secondo punto, la negoziazione in Italia, essa trova una sua
collocazione a metà degli anni novanta, in merito al processo di decentramento dello stato.
Infatti, con l’elezione diretta del sindaco nascono i PRU e, in conseguenza di ciò, si
stipulano accordi con gli attori locali nel processo di gestione dei progetti.
Si discute insieme del problema della conservazione e demolizione degli edifici, del poter
costruire vicino a un grande parco delle residenze abitative, uffici o un centro
8
Roma G., Valutazione, trasparenza e responsabilità sociale nei progetti per le aree dismesse,in M.Dragotto,
C.Gargiulo (a cura di) Aree dismesse e città, Franco Angeli editore, Milano 2003.
9
http://www.a-torino.com/luoghi/lingotto.htm
http://www.lingottofiere.it
13
commerciale.
Si potrebbe infine affermare che, laddove si è cercato un accordo tra parti sociali, il
progetto è risultato accettabile e, invece, laddove questo non è accaduto, si è ottenuto un
effetto opposto.
Un esempio eclatante sono i docklands di Londra, riqualificati durante il governo della
Tatcher degli anni ‘80 in Inghilterra. Nell’ambito di tale governo liberista, che secondo la
sua impostazione, vedeva l’area industriale dismessa come un vero e proprio vuoto
urbano, i soggetti ai quali fare riferimento per la sua trasformazione erano i nuovi operatori
economici
10
.
Essi consentivano di cambiare volto alla città senza tener conto dei vecchi abitanti
dell’area, dando massima spinta alle trasformazioni radicali e minimizzando le relazioni
con il contesto locale. Se eliminare rapidamente l’area degradata dei docklands londinesi
era la soluzione del problema, sicuramente non era la strada percorribile più giusta poiché
non teneva conto del contesto sociale.
Figura 2 Grattacieli a Canary Whorf
Un successivo aspetto da non sottovalutare riguarda “la memoria dei luoghi”.
Esempio rappresentativo cui fare riferimento nell’ambito del recupero delle aree dismesse
è sicuramente la zona industriale di Sesto San Giovanni nell’hinterland milanese. Proprio
in tal caso, infatti, si è tenuto conto del fatto che la grande fabbrica rappresentava la
10
Hudson K., Archeologia industriale: l'arte del possibile, in Annali della Fondazione Micheletti, n. 3, 1987.
14
comunità di tutti i cittadini immigrati che arrivavano a Milano da luoghi anche lontani.
Per tale ragione la fabbrica non era identificabile solo nel luogo fisico del lavoro, ma
conteneva anche il senso stesso della propria identità e l’immagine della grandiosità che la
fabbrica rappresentava. Essa stessa era una grande cattedrale che racchiudeva non solo
la capacità dell’imprenditore ma anche la capacità di tutti quelli che ci lavoravano. Per la
città di Roma, tutto questo avveniva in maniera completamente diversa.
15
Cap. 2 L’Archeologia industriale
2.1 La storia dell’archeologia industriale in Europa
Il singolare accostamento dell'aggettivo "industriale" al sostantivo "archeologia" è stato
proposto per la prima volta dallo storico belga R. Evrard quando, nel 1950, sostenne la
necessità di salvaguardare uno stabilimento nei pressi della cittadina di Saint Hubert.
L'associazione dei due termini ha incontrato la sua definitiva fortuna nei primi anni
cinquanta in Inghilterra. Lo storico inglese Angus Buchanan utilizzava il termine
"monumenti industriali" per indicare, in primo luogo manifatture e fabbriche senza però
escludere tutti i resti del processo industriale e dell'industrializzazione: per esempio luoghi
di ritrovo, chiese e case per la classe operaia, opifici, magazzini, docks, impianti minerari,
ponti e ferrovie, macchine e meccanismi. Sul piano strettamente metodologico e disciplinare
il rimando inevitabile è “all’archeologia industriale” inglese e all'impostazione e all'assetto
che essa si è data. Nata nei primi anni '50 in Gran Bretagna, ha incontrato e incontra
ancora qualche difficoltà in ordine alla definizione del proprio oggetto e della propria
metodologia; perciò se si apparenta da un lato alla storia dell'architettura e del paesaggio
dall'altro ha delle affinità con la tecnologia, la sociologia e la storia. Può sembrare evidente
che, se si ammette che la rivoluzione industriale ha avuto origine in Gran Bretagna, l'inizio
per gli altri paesi sarà, di fatto, posteriore a quella del paese d'origine
11
.
11
Buchanan R.A., Industrial Archaeology in Great Britain, Harmondsworth 1972
16
Per quanto riguarda l’archeologia industriale, quest’ultima, non deve diventare il supporto
archeologico di una storia universale del lavoro umano, ma nemmeno deve essere
considerata in una concezione riduttiva dell'industria, che si rifà solo ad alcuni aspetti
tradizionali dell'industria manifatturiera per limitarsi a collezionare vecchie filande, o ponti
in ferro anteriori al 1850 e alle ferrovie, invece nasce dal bisogno di tutelare le tracce di un
passato che la rapida riconversione produttiva e l’intensa urbanizzazione del dopoguerra
rischiavano di cancellare. L’archeologia industriale ha inoltre lo scopo di mettere in
evidenza l’evoluzione dell’architettura in funzione delle esigenze del luogo di lavoro e
dell’organizzazione della produzione, che nel corso dei sec. XVIII e XIX hanno subito
continue trasformazioni. Ben presto l’ambito di interesse dell’archeologia industriale si
allarga dalle strutture in cui si svolgevano i processi produttivi e di trasformazione, sino a
comprendere la memoria delle relazioni sociali, del lavoro, della cultura tecnica, nonché il
settore delle infrastrutture, (le strade ferrate, le stazioni ferroviarie, i porti, i canali, gli
aeroporti e le autostrade). Anche i suoi confini temporali si dilatano: vengono analizzate le
diverse tappe che hanno preceduto lo sviluppo industriale del secolo XVIII, dalle varie
forme della protoindustrializzazione (applicazione del motore idraulico alle macchine e
primi procedimenti di lavorazione del ferro e della ghisa), fino a manufatti preesistenti
come i mulini o gli edifici che ospitavano le manifatture protoindustriali, sui quali si sono
spesso innestate le attività produttive della prima industrializzazione.
In merito all’archeologia industriale negli anni Sessanta viene realizzato il suo primo parco-
museo a Coalbrookdale, in Inghilterra, considerato emblematicamente il luogo di nascita
della rivoluzione industriale. Qui, infatti, nel 1709 Abraham Darby era riuscito ad ottenere
la fusione del ferro utilizzando il coke al posto del carbone a legna, dando così un impulso
decisivo al decollo dell’industria inglese. Nello stesso luogo fu realizzato nel 1776 il primo
ponte completamente in ghisa. In seguito sorgono in Europa diversi ecomusei,
comprendenti interi siti di archeologia industriale e spesso organizzati in percorsi didattici:
tra i più noti i musei della siderurgia svedesi, francesi e belgi.
Negli anni Settanta si ottengono i primi risultati dal punto di vista della salvaguardia del
patrimonio industriale (è del 1973 il primo congresso internazionale sulla conservazione
dei monumenti industriali), mentre si fa strada la consapevolezza che ai reperti più
significativi dell’eredità del passato industriale vada riconosciuto il valore di beni culturali,
infatti è di questo periodo che tanto in Europa quanto in America si assiste ad un maggiore
interesse per gli aspetti dell'industrializzazione che vengono,con il passare del tempo, visti
in chiave maggiormente storica
17
Per quanto riguarda il recupero degli impianti, la possibilità di una tutela efficace è affidata
principalmente al restauro orientato al riuso, da parte di enti pubblici e privati. E’ il caso di
interi quartieri operai delle città cotoniere di Lowell nel Massachussetts, di Lodz in Polonia
e di molti altri in tutta Europa. La velocità delle trasformazioni tecnico-produttive e
l’emergere di nuovi settori industriali rendono obsoleto un numero sempre maggiore
d’impianti e di edifici; cominciano a far parte dell’ archeologia industriale del XX sec.
costruzioni come la torre di lancio dell’Apollo a Cape Canaveral, in Florida, ma anche gli
impianti nucleari degli anni ’50 e ’60 e i grandi elaboratori elettronici della prima
generazione, che costituiscono i capisaldi dell’identità della nostra epoca.
L'archeologia industriale tende a collocare l'importanza di questi monumenti nel contesto
della storia, della società e della tecnologia. Il progresso tecnologico ha creato successive
generazioni d’industrie, rendendo via via obsolete le precedenti. Le vecchie fabbriche solo
in parte sono state riutilizzate a scopi produttivi. L’attuale fase postindustriale vede calare il
tasso complessivo d’industrializzazione a favore del terziario. Così, parte delle vecchie
fabbriche è stata riutilizzata, cambiandone l'uso, ristrutturando e spesso perdendo le
caratteristiche originali. Il resto, invece, è rimasto abbandonato e lo ritroviamo ora, in
rovina, nei siti industriali dismessi. Si pone quindi il problema del recupero di questi beni.
In varie forme si tratta di beni che hanno grande rilevanza storica, architettonica,
urbanistica. Beni che si collocano di fatto tra i Beni Culturali ed Ambientali della città,
anche se la legislazione ancora non copre tutti i casi possibili. Beni che possono avere vari
sbocchi: da impieghi pubblici a quelli privati, con varia utilità: da quella sociale o
economica a quella speculativa. Di fatto l'archeologia industriale deve anche puntare al
recupero di un variegato ventaglio d’attività che si può definire industria, anche se va da sé
che un certo tipo di produzione ha lasciato un maggior numero di monumenti, rispetto ad
altre
12
. E' evidente che pochi fenomeni hanno avuto la connotazione socio-politica oltre
che ideologica dell'industria. Così, mentre nei paesi dell'Est non è stato necessario un
recupero degli edifici industriali perchè questi erano visti come monumenti della classe
operaia e, al tempo stesso, della rivoluzione venendo adeguatamente curati; in Gran
Bretagna hanno rappresentato invece la rievocazione dell'epoca in cui l'Inghilterra era il
centro del mondo, infatti negli anni 50, si partì da questo concetto per estendere l'iniziativa
archeologica, assumendosi la responsabilità di svolgere una funzione di controllo di tempi e
modalità di sviluppo dell'ambiente industriale. Il primo esito prodotto da tale opposizione attiva
fu l'estensione della legislazione corrente per la protezione di monumenti e opere d'arte ai
12
Genovese R.A., Bezzi Bardeschi M., Mango R, Patrimonio architettonico industriale, in Restauro, n. 38-39, vol.VII,
Napoli 1978.
18
monumenti archeologici industriali. Questo atteggiamento volto sostanzialmente alla
salvaguardia e alla conservazione di specifici siti, esercitate attraverso il concorso e il
coinvolgimento di gruppi locali, si perfezionò attraverso la progressiva messa a punto di
sofisticati sistemi di schedatura.
Certo ora vale la pena di soffermarsi su criteri d’individuazione e selezione adottati, perché a
essi faranno successivamente riferimento i criteri classificatori messi a punto per l'analisi più
generale delle aree dismesse. È, infatti, interessante osservare come, seppure all'interno di
un'ottica votata sostanzialmente alla conservazione, sia sempre stato ben presente il nesso fra
l'indagine teorica e pratica e l'iniziativa «politica».
I criteri adottati sono stati sostanzialmente i seguenti:
— grado d’unicità del sito;
— dimensioni e uso;
— possibilità di attrazione di pubblico e di turisti;
— sostegno locale;
— associazionismo diffuso.
Proprio l'attenzione al possibile consumo turistico, insieme a una consolidata tradizione di
esposizione di reperti archeologici, si collega più direttamente con il tema del riuso, della
conservazione e salvaguardia finalizzate comunque ad una riutilizzazione. Ciò in questo caso
si concretizza nella realizzazione di veri e propri «musei dell'industria».
L'esperienza dell'archeologia industriale in Inghilterra si ferma ai margini di questo
problema, ma ci offre comunque un itinerario esemplare: quello del passaggio da un
interesse-finalità prevalentemente legati alla conservazione del documento, segno del
passato, fino al suo inserimento nel contesto sociale, per poi giungere a un'attenzione
puntata sulla possibilità di riutilizzo di aree abbandonate.
L'evoluzione dell'attenzione ha progressivamente fatto giustizia di ogni atteggiamento
troppo rigidamente legato all'ambito della «paleoindustria»: se il problema dell'esatta
definizione del concetto di «area dismessa» resta tuttora aperto è indubbio che gli sguardi
del ricercatore e dell'operatore non si posano più, ora, esclusivamente sugli edifici
industriali obsoleti, ma si sono allargati ad ogni tipo di costruzione caratterizzato da
fenomeni di abbandono. Tale sensibilità ha consentito di individuare e porsi il problema del
recupero a forme di utilità sociale ed altro, ad esempio di edifici sedi in passato di
istituzioni totali (carceri, ospedali psichiatrici, brefotrofi, ecc...). Il concetto di «utilità
sociale» ci serve in questo caso ad indicare un atteggiamento assai diffuso negli anni 70,
e fortunatamente abbandonato, teso a proporre esclusivamente per questi edifici soluzioni
19
di «grandi contenitori», «centri polivalenti», adibiti essenzialmente a funzioni di ricreazione
e di gestione di servizi culturali.
2.1.1 Il recupero dell’archeologia industriale in Gran Bretagna
Con riferimento alla Gran Bretagna i casi più significativi di recupero d’architettura industriale
sono caratterizzati soprattutto dal fatto di non essere l'esito solo di un'azione mirata al singolo
complesso industriale ma più ambiziosamente, al ripensamento e ristrutturazione di intere
aree urbane (le cosiddette “derelict lands”). La ristrutturazione tecnico-economica della
grande industria, che abbandona i propri insediamenti produttivi, ha fatto diventare sempre
più pressante la questione delle "derelict lands", grandi aree dismesse presenti all’interno
del tessuto urbano delle aree urbane d’Europa. L'esperienza pilota di questo genere
d’interventi è certamente quella relativa all'area dei Docklands di Londra.
Figura 3 I docklands di Londra
L'area interessata è di dimensioni straordinarie (22 km
2
), ma le procedure seguite e le
soluzioni proposte si offrono come non prive di interesse anche rispetto ad altre realtà.
L'intervento è stato affidato ad una società di diritto privato, la LDDC (London Dockland
Development Corporation), investita di un potere assolutamente straordinario
13
.
Questo soggetto privato ha avuto ad esempio, la facoltà di rilasciare concessioni e
promuovere procedure di esproprio: il potere pubblico si è rapportato ad esso avvalendosi
di strumenti di opposizione e difesa non dissimili da quelli tradizionalmente in mano ai
13
Sernini M., London Docklands e progetto passante. Analogie e diversità, Dip. di scienze del territorio Politecnico di
Milano Facoltà di architettura, 2000.