locali caratterizzati da una elevata concentrazione di imprese industriali nonché
dalla specializzazione produttiva di sistemi di imprese” (Legge 11 maggio 1999,
n. 140).
A valle di questa definizione vi è la peculiarità del tessuto produttivo che
questo gruppo d’impresa rappresenta per l’industria italiana infatti le PMI sono
l’asse portante del made in italy.
I distretti industriali sono uno dei veicoli principali con cui il made in italy
ha potuto crescere ed affermarsi in tutto il mondo.
Lo studio dei distretti industriali ha coinvolto vari studiosi tra cui Marshall,
Becattini, Bellandi, Brusco e Paba, Signorini, Piore e Sabel, Dei Ottati,
Garofoli,…
L’interesse del dibattito sui distretti si è accresciuto man mano che la teoria
economica prevalente ai tempi del miracolo economico – incentrata sui fattori
interni all’impresa come fonte di efficienza della produzione (“economie
interne”) – è andata mostrando negli anni Settanta una crescente debolezza
interpretativa dei fenomeni di nuova industrializzazione trainata dalla piccola
impresa: da qui la proposizione del distretto industriale come modello
organizzativo di numerosi sistemi locali di successo, formati da imprese piccole
e medie teoricamente svantaggiate dalla minore scala produttiva, ma in grado di
più che bilanciare tale svantaggio attraverso le “economie esterne”. Economie,
queste, generate dalla capacità “sistemica” del distretto di gestire complessi
processi di scomposizione/integrazione del ciclo produttivo, basati su imprese
specializzate in singole fasi di lavorazione, nell’ambito di un contesto sociale
adeguato a supportare (propensione all’imprenditorialità, attitudine al lavoro
autonomo, etc.) la forte divisione del lavoro tra le varie unità produttive.
Il fenomeno della globalizzazione ha sconvolto molte delle realtà
imprenditoriali operanti nell’ambito dei sistemi produttivi locali dei distretti
5
presenti nel nostro Paese, con particolare riferimento alle aree più deboli
riconducibili alle regioni del Mezzogiorno. Ma sui mercati internazionali tutta
l’Italia sta perdendo progressivamente terreno …
Di fronte ad un simile scenario internazionale, risulta necessario ripensare
all’intero sistema di governance della promozione dei nostri prodotti all’estero,
razionalizzando, innanzitutto, le circa 560 strutture che a vario titolo si
occupano di supportare le imprese (Ambasciate, Uffici consolari ,ICE,
rappresentanza delle Regioni e delle Camere di Commercio).
Attraverso lo strumento dell’analisi qualitativa sono state condotte delle
interviste e sono stati somministrati dei questionari rivolti a un campione di 28
imprenditori del distretto di San Giuseppe Vesuviano.
Lo scopo di questa analisi va ricercato nella conoscenza della realtà
produttiva del territorio di riferimento, nelle strategie di internazionalizzazione
portate avanti dalle singole imprese, e soprattutto nella necessità di
comprendere il grado di conoscenza che gli attori locali hanno delle strategie e
delle politiche in corso attuate nell’ambito dello sviluppo
dell’internazionalizzazione ad opera dalla Regione.
Sono stati intervistati attori economici, politici locali i quali hanno delineato
chiaramente la situazione economica e le dinamiche produttive dell’area.
L’indagine “sul campo” si è aperta incontrando proprietari di aziende del
settore tessile-abbigliamento del distretto.
Dai risultati emersi dal questionario è stato possibile individuare, attraverso
un’attenta analisi dei dati, i principali fattori di competitività del distretto.
6
L’esperienza in loco è stata determinante per spiegare e comprendere alcuni
concetti teorici dello sviluppo economico in ambito internazionale e, in ultima
analisi, per individuare quali possono esser le prospettive e le opportunità del
distretto di San Giuseppe Vesuviano nell’era della globalizzazione.
7
CAPITOLO 1
L’ESPERIENZA DEI DISTRETTI INDUSTRIALI IN ITALIA
1.1 UNA PREZIOSA EREDITÀ DELLA STORIA
Una peculiare forma di concentrazione territoriale e di rete di imprese è
rappresentata dai cosiddetti distretti industriali, una denominazione felicemente
suggerita a suo tempo da Giacomo Becattini il quale intravide in quelle realtà di
agglomerazione produttiva e urbana gli elementi tipici su cui il Marshall di
Industria e commercio (1919) aveva elaborato il concetto di economie di scala
esterne all’impresa ma interne ad una data realtà produttiva. Con l’apporto di
diversi studiosi (economisti come Sebastiano Brusco, Gianfranco Viesti e
Giuseppe Garofoli, sociologi come Arnaldo Bagnasco e Carlo Trigilia) si è
andato da allora accumulando un vasto patrimonio di studi teorici e soprattutto
di analisi empiriche mirate a cogliere le caratteristiche, le potenzialità e (più
recentemente) i limiti di questo particolare assetto organizzativo-territoriale, nel
frattempo reso ancor più popolare dall’interessamento di studiosi americani
(Michael Piore, Charles Sabel, Michael Porter) oltre che di crescenti curiosità
giornalistiche italiane ed estere.
Vi è una “dimensione sistemica” che rende le imprese partecipanti al
distretto diverse da altre imprese, di dimensione altrettanto piccola , operanti
nello stesso territorio. Una lunga citazione di Becattini rende chiaro il concetto
in esame:
“le piccole imprese distrettuali e paradistrettuali tipiche non hanno molto in
comune con le piccole imprese dell’indotto industriale. Nel distretto industriale
la produzione si svolge nel quadro di un processo produttivo sociale (locale) in
cui tutte le unità partecipanti hanno- e sono (più o meno) consapevoli di avere-
8
un ruolo non inessenziale…nel distretto non ci sono una grande impresa (o
poche) che, in colloquio esclusivo, coi grandi mercati, scrive lo spartito e un
indotto che lo esegue, ma una molteplicità interagente di imprese piccole e
medie e di lavoratori autonomi altamente professionalizzati, consapevoli, le une
e gli altri, di dipendere per le loro fortune, non solo dagli andamenti della
congiuntura mondiale, ma anche, significativamente, dal funzionamento
complessivo, economico, sociale e politico dell’organismo socioterritoriale di
cui fanno parte. La ripetizione negli anni di esperienze produttivo-distributivo-
circolatorie in ambienti circoscritti -quasi un gioco collettivo ripetuto infinite
volte- ha fatto compiere agli imprenditori distrettuali, ai loro collaboratori e
persino ai loro dipendenti, una sorta di salto culturale” .
Un intervento del governatore Antonio Fazio dedicato allo sviluppo della
PMI e che tratteggia gli aspetti virtuosi del distretto merita di esser citato:
“Tale modello produttivo ha suscitato interesse per la capacità di coniugare
concorrenza e cooperazione. La competizione serrata tra le imprese deriva dalla
contiguità, anche territoriale, che favorisce l’osservazione delle scelte del
concorrente, al tentativo continuo di imitare si aggiunge uno stimolo dettato dal
desiderio di affermazione. La competitività dei distretti non scaturisce dai bassi
salari; allorché l’apporto professionale è di qualità elevata, salari e condizioni di
impiego sembrano in grado di remunerare il lavoratore meglio che altrove … La
maggiore produttività che caratterizza i lavoratori distrettuali è legata, oltre che
al modello organizzativo, alla mobilità.. L’elevata flessibilità, la capacità di far
meglio corrispondere le remunerazioni alla produttività conferiscono alle
imprese una migliore adattabilità al ciclo economico e produttivo e una più alta
redditività.”
9
1.2 UNA DEFINIZIONE DI DISTRETTO INDUSTRIALE
Il distretto industriale, così come definito da Becattini è “un’entità socio-
territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in un’area territoriale
circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità di
persone e di una popolazione di imprese industriali. Nel distretto, a differenza di
quanto accade in altri ambienti (ad es. la città manifatturiera), la comunità e le
imprese tendono , per così dire, ad interpenetrarsi a vicenda” (Becattini, 2000).
Gli elementi distintivi del distretto risultano dunque:
ξ Una comunità di persone che incorpora valori e tradizioni comuni, in
particolare un’etica del lavoro e del fare impresa alla base dello sviluppo di
una specializzazione locale della produzione che si rigenera continuamente.
Questi valori comuni, che creano anche un senso di identità locale visibile
all’esterno, entrano a far parte del metabolismo sociale ed istituzionale (la
famiglia, la scuola, la pubblica amministrazione, i partiti, le associazioni etc.).
ξ Una popolazione di imprese specializzate in una o più fasi del processo
produttivo che, attraverso relazioni di collaborazione e concorrenza, realizzano
beni in particolari settori industriali, tipicamente definiti come Made in Italy, i
quali vanno a soddisfare “una domanda finale differenziata e variabile (cioè
non standardizzata né costante) nel tempo e nello spazio” (Becattini, 2000).
ξ Delle risorse umane che si traducono in un insieme variegato di
posizioni lavorative che danno vita ad un’elevata mobilità del lavoro interna al
distretto e percorsi formativi in loco.
ξ Un mercato costituito da compratori non indifferenti ai produttori ed ai
luoghi di produzione. Il distretto gode di una sua immagine visibile all’esterno
che arriva sino al consumatore finale; si dice perciò che ha una sua “merce
10
rappresentativa” (ad es. le ceramiche di Sassuolo, gli scarponi da sci di
Montebelluna, l’industria tessile di Prato etc).
ξ Un mix di concorrenza e cooperazione che consente il superamento dei
limiti della dimensione della piccola e media impresa e, nello stesso tempo, il
mantenimento di una dinamica competitività necessaria per lo sviluppo di
nuovi prodotti e nuove tecnologie.
11
1.3 QUANTI SONO I DISTRETTI INDUSTRIALI IN ITALIA?
La quantificazione e mappatura dei distretti è stata prevalentemente opera
congiunta di Fabio Sforzi con l’Istat, individuando all’interno dei 784 “sistemi
locali del lavoro” (aree gravitazionali degli occupati che vivono in ambiti
residenziali limitrofi) quei particolari sistemi (199 distretti) che rispondono ad
altre due caratteristiche: in primo luogo, una specializzazione produttiva
determinata dalla prevalenza di unità locali di quel particolare settore o
comparto nel territorio (ad es. tessile pratese, ceramiche-piastrelle di Sassuolo,
maglieria di Carpi e così via ), in secondo luogo un’affinità di parametri socio-
residenziali come categoria professionale, tipologia di abitazione ecc. tali da
verificare un’aderenza tra identità produttiva e identità sociale (Sforzi, 1987). I
199 distretti sono localizzati prevalentemente nel nord-est (125 di cui 35 nelle
sole Marche), 59 nel nord-ovest e 15 nel Mezzogiorno. Secondo questa
mappatura i distretti industriali occupano più di 2,1 milioni di addetti (45%
degli occupati manifatturieri, 60% nel solo nord-est) e generano più del 45%
delle esportazioni totali.
12
1.4 COME LAVORANO LE IMPRESE DISTRETTUALI
Le principali caratteristiche organizzative dei distretti le possiamo
riassumere in tre punti:
ξ la forte e dinamica specializzazione produttiva che consente
accumulazione di conoscenze e di capacità tecniche , curve di
apprendimento, savoir faire specialistico in grado di cogliere
rapidamente le opportunità di innovazione tecnologiche disponibili sul
mercato per migliorare qualità, affidabilità e prestazioni di prodotto. Tra
le importanti innovazioni di processo
1
ricordiamo i forni monocottura
per le piastrelle sassuolesi, nuovi materiali e taglio computerizzato delle
pelli, telai tessili veloci prodotti nel bresciano e altre ancora. Né
mancano esempi di innovazioni di prodotto
2
, spesso legate alla ricerca
di nuove combinazioni di design, stile e tecnologia. A tal proposito le
relazioni tra utilizzatori (produttori finali ) e fornitori ( di macchinario e
componenti) stimolano questi processi innovativi, anche quando gli e
uni e gli altri sono collocati in distretti geograficamente separati.
Un‘ultima componente importante è rappresentata dai processi di
formazione tecnica e professionale della manodopera che presenta una
elevata mobilità interaziendale.
ξ Un’organizzazione del lavoro che si avvale di operatori che
operano nelle PMI fino alle microimprese e imprese individuali di
1
L’innovazione tecnologica di processo consiste nell’introduzione di processi nuovi (o significativamente
migliorati) rispetto a quelli precedentemente adottati dall’impresa in termini di caratteristiche tecniche e
funzionali, prestazioni, facilità d’uso, ecc.. Possono esser sviluppate dall’impresa stessa o da altre imprese o
istituti di ricerca; non devono necessariamente consistere in processi nuovi per il settore o il mercato di
riferimento dell’impresa; è infatti sufficiente che siano processi nuovi per l’impresa che li introduce.
2
L’innovazione tecnologica di prodotto consiste nell’introduzione sul mercato di un prodotto tecnologicamente
nuovo (o significativamente migliorato) rispetto a quelli precedentemente disponibili in termini di caratteristiche
tecniche e funzionali, prestazioni, facilità d’uso, ecc.. Possono esser sviluppate dall’impresa stessa o da altre
imprese o istituti di ricerca; non devono necessariamente consistere in processi nuovi per il settore o il mercato di
riferimento dell’impresa; è infatti sufficiente che siano processi nuovi per l’impresa che li introduce.
13
servizi e che consente una flessibilità massima nei flussi di offerta e
quindi di adattamento alle diverse vicende congiunturali e alla domanda
proveniente da una clientela differenziata , che va dal lavoro su
commessa a ordinativi della grande distribuzione.
ξ accumulazione del capitale sociale
3
legata alle strette relazioni
familiari e di amicizia. A tal proposito Becattini parla di “sapere
contestuale”, ovvero “l’insieme delle conoscenze non codificate che
maturano a livello delle diverse imprese e del loro tessuto di relazioni
locali. A ciò si aggiunge il fatto che nei distretti industriali le imprese si
trovano a godere di relazioni industriali meno conflittuali della media”
(Fortis, 1998).
3
“Il capitale sociale si può considerare come l’insieme delle relazioni sociali di cui un soggetto individuale (in
campo economico, un imprenditore o un lavoratore) o un soggetto collettivo (privato o pubblico) dispone in un
determinato momento. Attraverso il capitale di relazioni si rendono disponibili risorse cognitive, come le
informazioni, o normative, come la fiducia, che permettono ai soggetti di realizzare obiettivi che non sarebbero
altrimenti raggiungibili, o lo sarebbero a costi molto più alti” (Trigilia, 1999)
14
1.5 DISTRETTI INDUSTRIALI E SOCIETÀ LOCALE
Come dice Becattini: «intelligenza organizzativa, capacità di
sperimentazione e agire pratico, talento creativo e inventiva, abilità artigianali,
competenze tecniche e capacità d’innovazione conferiscono dinamicità al
distretto industriale nel suo insieme e rappresentano il suo punto di forza nella
competizione internazionale» (Becattini, 1995). L’industria principale del
distretto – insieme alle industrie ausiliari e ai molteplici servizi ad essa
funzionali – si dimostra pervasiva nei confronti dell’ambiente locale fornendo
occasioni di lavoro virtualmente a tutti gli strati della popolazione: giovani,
adulti e anziani, uomini e donne. Ne risulta una società locale dominata dalle
figure sociali dei piccoli imprenditori e dei lavoratori autonomi, oltre che da
quelle dei lavoratori dipendenti, dell’industria, e da una diffusa partecipazione
al lavoro dei giovani e delle donne, sia nubili che coniugate, mentre nella
struttura familiare prevale la tipologia della famiglia allargata. Ed è facile
comprendere perché nel distretto si realizzi un’identificazione territoriale da
parte della società locale, invece che aziendale come accade nei poli industriali
dominati dalla grande impresa. Il distretto industriale, dunque, esprime la
possibilità, per una concentrazione geografica di numerose piccole imprese
specializzate, di organizzare la produzione in modo efficiente, analogamente a
quanto avviene all’interno di un singolo grande stabilimento. Ciò è reso
possibile dai flussi di economie esterne che si generano localmente fra le
imprese e che derivano dall’insieme di conoscenze, valori, comportamenti tipici
e istituzioni attraverso i quali la società locale agisce sull’organizzazione
industriale.
15
1.6 LA REGOLAMENTAZIONE DEI DISTRETTI INDUSTRIALI
I distretti industriali – riconosciuti giuridicamente dalla Legge 317/1991 e
dai provvedimenti attuativi che ne sono derivati – sono unanimemente
riconosciuti come un caso di successo dell’economia italiana.
Ciò nonostante non è facile definirli in modo preciso. La loro identificazione
da parte degli organi istituzionali, infatti, non coincide né per il numero
(l’ISTAT ne ha individuati 199, le Regioni 133), né, spesso, per i settori di
specializzazione.
Il dibattito degli economisti su questo tema è in corso, ma è incontestabile
che il modello distrettuale – costituito da un’alta concentrazione di piccole e
medie imprese, generalmente artigiane, specializzate in una determinata
produzione e collocate su una medesima area territoriale – rappresenta un
motore dello sviluppo del Paese, tanto che a livello internazionale viene spesso
preso a modello per la promozione dello sviluppo delle economie locali.
L’unico riconoscimento oggettivo alla definizione di “distretto industriale” è
oggi quello attribuito dalla legislazione nazionale che comunque necessita di un
successivo riconoscimento regionale che individui l’area distretto in quanto
tale. Senza il riconoscimento regionale, dunque, non esiste distretto industriale
ma un “semplice”, per così dire, polo produttivo ed un polo produttivo può
essere solo oggetto di elaborazioni statistiche e settoriali.
Nell’ambito dell’ordinamento italiano i principali riferimenti legislativi per
la definizione e la localizzazione dei distretti industriali sono:
16
ξ Legge n. 317 del 5 ottobre 1991 art. 36 “Interventi per
l’innovazione e lo sviluppo delle piccole imprese” (in GU 9 ottobre 1991,
n. 237, supplemento ordinario);
ξ Decreto del Ministero dell’Industria del 21 aprile 1993
(cosiddetto Decreto Guarino) “Determinazione degli indirizzi e dei
parametri di riferimento per l’individuazione, da parte delle regioni, dei
distretti industriali” (in GU 22 maggio 1993, n. 118, supplemento
ordinario);
ξ Legge 11 maggio 1999, n. 140 “Norme in materia di attività
produttive” (in GU 21 maggio 1999, n. 117);
ξ Legge 17 maggio 1999, n. 144 “Misure in materia di
investimenti, delega al Governo per il riordino degli incentivi
all’occupazione e della normativa che disciplina l’Inail, nonché
disposizioni per il riordino degli enti previdenziali” (in GU 22 maggio
1999, n. 118, supplemento ordinario).
1.6.1 La legge 317/91 e il Decreto Guarino del 1993
La Legge 317/91 (Interventi per l’innovazione e lo sviluppo delle
piccole imprese), ha dato per la prima volta nel nostro ordinamento un
riconoscimento giuridico ai Distretti Industriali. Nei lavori parlamentari che
portarono alla approvazione della legge stessa, non ci sono, per la verità, tracce
dei Distretti Industriali; risulta, infatti, che l’art. 36 sia stato introdotto solo al
momento dell’ultima stesura, poco prima dell’approvazione finale.
Secondo l’art. 36, comma 1 della legge, sono definiti Distretti Industriali “le
aree territoriali locali caratterizzate da elevata concentrazione di piccole
imprese, con particolare riferimento al rapporto tra la presenza delle imprese e
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la popolazione residente nonché alla specializzazione produttiva dell’insieme
delle imprese”.
Due sono quindi i requisiti richiesti dalla legge per definire un distretto in
quanto tale:
ξ la concentrazione di piccole imprese;
ξ la specializzazione produttiva.
Non vengono, tuttavia, fissati i parametri per stabilire cosa si intende per
“concentrazione” e “specializzazione”.
La legge 317 attribuisce poi alle regioni il compito di individuare, entro
centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge e sentite le Unioni
regionali delle Camere di Commercio, le aree distretto, sulla base di un Decreto
del Ministro dell’Industria (ora Ministero delle Attività Produttive), che avrebbe
fissato gli indirizzi e i parametri di riferimento.
Si può osservare che l’art. 36 ha introdotto, senza specificarne bene i
contorni, modalità di intervento delle Regioni, che non hanno poi trovato
applicazioni pratiche, per “il finanziamento di progetti innovativi concernenti
più imprese, in base a un contratto di programma stipulato tra i Consorzi e le
Regioni medesime, le quali definiscono altresì le priorità degli interventi”.
Il contenuto dell’articolo, abbastanza confuso, non ha certo agevolato
l’azione delle Regioni.
Ma i veri bastoni tra le ruote di politica attiva per i Distretti sono stati altri.
Come detto in precedenza, il secondo comma rimanda infatti ad un successivo
Decreto del Ministero dell’Industria la definizione dei parametri in base ai quali
le Regioni avrebbero dovuto procedere a individuare i Distretti Industriali.
L’atteso D.M., emanato in data 21 aprile 1993, ha fissato i criteri per
l’individuazione dei Distretti prendendo a riferimento le aree classificate come
“Sistemi Locali del Lavoro” dall’Istat sulla base del Censimento industriale del
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