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delle differenze qualitative oggettive e di conseguente sempre maggiore
importanza di valori e significati intangibili, questo settore presenta infatti
numerosi e promettenti spunti di analisi. In particolare, le Case
automobilistiche si segnalano per la particolare attenzione dedicata alla
strategia comunicativa del marchio e per l’apertura alle tecniche più
innovative di marketing. A tutto ciò si aggiungono l’interesse e la passione
personale di chi scrive. Nell’arco di questo lavoro si tiene pertanto un occhio
costantemente puntato sul mondo delle auto, attingendo ad esso per esempi
concreti e ipotesi interpretative.
Nel primo capitolo vengono illustrate le ragioni alla base della
collaborazione tra semiotica e marketing: in particolare, si individua la
marca come terreno comune e se ne identificano i tratti semiotici; infine, si
analizza la metafora della marca-persona sostenendone la scorrettezza.
Nel secondo capitolo si entra nello specifico della tematica della marca:
si presentano i rapporti tra quest’ultima e l’impresa, i legami tra brand
identity e brand image, la nozione semiotica di mondo possibile e quella
economica di brand equity.
Il terzo capitolo è dedicato alla dimensione storica ed evolutiva della
marca: dopo aver delineato le ere della marca contemporanea sulla base
della tripartizione proposta da Lombardi (2000a) – soap opera, love story e
brand.com – vengono presentati quelli che Goodyear (1996) ha descritto
come i sei possibili stadi di sviluppo di un brand (unbranded goods, brand
as reference, brand as personality, brand as icon, brand as company e
brand as policy).
Nel quarto capitolo si affronta il tema della comunicazione delle Case
automobilistiche; le immagini cui si fa riferimento (fig.1-4) sono inserite
nell’omonima sezione a fine testo. Si analizzano innanzitutto le nuove
strategie pubblicitarie: la tendenza a proporre mondi possibili inconcepibili o
impossibili, l’accento sull’emozionalità, il ricorso ad anomalie e paradossi.
Viene poi effettuata una panoramica sul relationship marketing e sugli eventi
organizzati dalle concessionarie: per la prima tematica, i termini di paragone
sono le community di Saab e Mini, mentre per la seconda il riferimento è al
tour di presentazione della BMW Serie 1. Si avanza inoltre un’ipotesi di
rivisitazione dei classici “porte aperte” nell’ottica di una più efficace
comunicazione della brand identity: per la particolare forza dei suoi valori,
Volvo è stata scelta come oggetto di tale proposta. Nel proseguimento del
capitolo ci si sofferma sul nuovo concetto di “utilitaria” e sul modo in cui
esso è stato interpretato da Citroën e Mini: due Case che per motivi diversi
hanno attraversato un periodo buio e che proprio in questi primi anni del
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XXI secolo sono rinate, con un’immagine nuova e rafforzata. Infine,
vengono presentati alcuni modelli per l’analisi degli universi valoriali della
marca: il quadrato dei valori di consumo di Floch, il mapping semiotico di
Semprini e il mapping di Fabris.
Il quinto capitolo verte sui nuovi paradigmi del marketing che,
incentrandosi sul consumatore, si orientano alle sue emozioni e alle sue
esperienze – di acquisto e di consumo. Si approfondisce in particolare la
tematica della polisensorialità, evidenziando come le auto possano puntare
alla seduzione di tutti i cinque sensi: a tal fine, si fa riferimento alla visione
di auto polisensoriale proposta da Citroën e si suggerisce una possibile
strategia per integrare la dimensione gustativa. Si parla poi dei locali
monomarca inaugurati da alcune Case automobilistiche, del rapporto con la
moda e di come le concessionarie possano rinnovarsi in una prospettiva
esperienziale.
Nel sesto capitolo si passa dalla teoria alla verifica empirica, esaminando
il caso concreto della concessionaria Mini di Imola: alla base della scelta c’è
la spiccata personalità del marchio e la sua storia degli ultimi anni, che
hanno dato vita ad un fenomeno di costume. La fase desk, costituita da
un’analisi semiotica del testo-concessionaria, è affiancata dalla fase field,
ossia dalla somministrazione di un questionario ai visitatori. In tal modo è
possibile operare un confronto fra la brand identity e la percezione del
marchio Mini da parte dei visitatori, oltre a rilevare i punti di forza e di
debolezza comunicativa della concessionaria.
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1. SEMIOTICA E MARKETING
1.1. Uno strano incontro
1.1.1. Definizioni preliminari e prospettive di accordo
La semiotica “è la disciplina che lavora per dar ragione dei testi, della
loro costruzione interna, del loro funzionamento, del loro senso” (Volli
2003, p.5); il marketing “è l’arte di acquisire, mantenere e sviluppare una
clientela che assicuri profitto” (Kotler 1999, quarta di copertina).
Queste definizioni sembrerebbero giustificare la diffidenza con cui i
professionisti del marketing hanno guardato (e a volte ancora guardano) alla
semiotica: le due discipline appaiono infatti prive di qualsiasi terreno
comune e possibilità di dialogo. A ciò si aggiunga il fatto che nel mondo del
marketing sono spesso giunte versioni parziali e arbitrariamente semplificate
del pensiero semiotico, che hanno contribuito a creare l’impressione di una
disciplina priva di qualsiasi utilità pratica.
In realtà, la collaborazione tra semiotica e marketing può risultare
fruttuosa per entrambi: la semiotica è infatti in grado di fornire un valido
aiuto grazie ai suoi strumenti analitici precisi e ben collaudati;
specularmente, essa non può che trarre beneficio dal confronto con
tematiche concrete e problemi pratici. In particolare, la semiotica può aiutare
gli esperti del marketing ad affrontare la difficoltà di gestire il nuovo statuto
della marca e lo spessore dei significati che essa oggi deve veicolare. Da
sempre abituati a confrontarsi con le categorie economiche, i manager si
trovano spesso a disagio nell’afferrare questa entità: in quanto campo di
significati e di segni, la marca è infatti difficilmente inscrivibile in un
modello economico-matematico. È però indispensabile superare quella
visione semplicistica che, in un recente passato, considerava la marca come
qualcosa che fa vendere di più e a prezzi più alti: questo sguardo finanziario
e commerciale si rivela infatti incapace di render conto del valore simbolico,
semiotico e sociale del branding contemporaneo.
In conclusione, se “l’arte del marketing si identifica essenzialmente con
l’arte di sviluppare una marca” (Kotler 1999, p.79) e la semiotica è in grado
di comprendere e gestire la marca, allora l’incontro fra le due discipline si
prospetta reciprocamente vantaggioso.
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1.1.2. Breve storia
L’inizio del legame tra semiotica e marketing può essere fatto risalire
agli anni Sessanta e alle prime analisi semiologiche di Barthes sulla
pubblicità. Il centrale ruolo strategico attribuito a quest’ultima – che fino
agli anni Settanta viene considerata il veicolo privilegiato per dare notorietà
alla marca – chiama in gioco la semiologia: essa infatti si propone come
strumento in grado di analizzare i messaggi pubblicitari rintracciandone gli
eventuali errori di costruzione, e quindi prevenendone i malfunzionamenti.
Fino agli anni Ottanta, il marketing e la logica economica considerano la
marca come un elemento del prodotto, necessario ma ingombrante: si guarda
con scetticismo ai suoi tratti qualitativi e ci si concentra su quelli misurabili.
La situazione cambia nella seconda metà degli anni Ottanta, quando la
marca assume un ruolo centrale nel marketing: si riconosce che essa non si
limita a marchiare un oggetto, ma lo associa anche ad una particolare visione
del mondo. La marca non è più una “cosa”, ma un sistema di segni e
significati che può liberarsi del prodotto e vivere una vita autonoma; è un
discorso, un’entità in grado di comunicare valori e di produrre senso. In
sintesi, la marca dispiega una forza semiotica. La logica conseguenza del
nuovo paradigma di marketing è il riconoscimento di una maggiore
importanza all’approccio semiotico: dal punto di vista teorico, esso è infatti
l’unico in grado di render conto delle dinamiche di creazione, messa in
discorso e comunicazione dei valori; dal punto di vista metodologico, poi, la
semiotica offre strumenti operativi efficaci e collaudati per l’analisi e la
gestione del discorso di marca. Ne è un esempio il quadrato dei valori di
consumo: elaborato da Floch sulla base del quadrato semiotico greimasiano
(cfr. § 4.5.1.), esso è uno degli strumenti più conosciuti e usati in ambito
pubblicitario.
1.2. Il terreno comune: la marca come oggetto semiotico
1.2.1. Cos’è la marca?
Data la complessità della sua natura, la marca è stata oggetto di numerosi
tentativi di definizione, nell’ambito di molteplici discipline: riportiamo qui
di seguito un rapido excursus sui contributi più noti.
• Stando a Semprini (1993, p.55 ss.), “una marca è costituita dall’insieme
dei discorsi tenuti su di essa dalla totalità dei soggetti (individuali e
9
collettivi) coinvolti nella sua generazione”: in questa definizione, la
marca sembra non avere diretta relazione con nessun “altro”; non viene
specificata nemmeno la sua funzione. “È tuttavia proprio in questo vuoto
(…) che la marca afferma la sua vera specificità, ovvero quella di essere
un’istanza semiotica, una maniera di segmentare e di attribuire del senso
in modo ordinato, strutturato e volontario”: la marca è un “motore
semiotico”, il cui carburante è un mix di varie sostanze (immagini,
parole, nomi, suoni, colori, sogni, desideri, concetti) e il cui il risultato è
un universo strutturato, ordinato e descrivibile.
• Nella definizione di Aaker (1997, p.26), la marca è “un nome o un
simbolo distintivo – per esempio un logo, un marchio, il design di una
confezione – che serve a identificare i beni o i servizi di un venditore o
di un gruppo di venditori e a differenziarli da quelli di altri concorrenti”.
Rispetto alla definizione precedente, qui la marca assume una fisicità, un
referente che ne sanziona l’esistenza e una funzione specifica: essa è
un’istanza che produce valore, portando beneficio sia all’azienda che al
consumatore (cfr. § 2.4.).
• Secondo Kapferer (1991, p.36), “essere marca significa soddisfare
costantemente le aspettative dei consumatori o, meglio, prevenirle,
rilevare i fattori ambientali che determinano queste attese e proporre
prodotti adatti.”: la marca è la garanzia che il bene/servizio risponda alle
aspettative del consumatore, è la reputazione del prodotto che agisce a
lungo termine.
• Davis (2000, p.3) sostiene che la natura della marca è relazionale e
discorsiva: “un consumatore generalmente non ha una relazione con un
prodotto o un servizio, ma può avere una relazione con una marca. In
parte, la marca è un aggregato di promesse. Implica fiducia, coerenza e
un preciso insieme di aspettative.”
1.2.2. Semiotica e meta-semiotica, soggetto e oggetto di discorso
La marca ha la capacità di produrre dei discorsi, dotarli di senso e
comunicarli a dei destinatari, appoggiandosi ad un segno (il marchio, o
logo): si tratta quindi di un dispositivo semiotico, che arricchisce gli oggetti
rendendoli qualcosa di diverso da pure merci.
A tale natura semiotica se ne aggiunge una meta-semiotica: oltre ad
essere sintesi valoriale di una certa gamma di prodotti, la marca crea per essa
una cornice decisiva per l’attribuzione di senso a ciascun prodotto. La marca
si pone al di sopra dei singoli prodotti e, elaborando intorno a loro un
10
insieme coerente di discorsi, offre una prospettiva di interpretazione, una
chiave di lettura: un mondo possibile (cfr. § 2.3. e § 4.1.1.). Tale funzione
metasemiotica fa sì che la marca separi e allo stesso tempo raggruppi i
prodotti: da una parte essa differenzia un prodotto dall’altro offrendo un
forte valore distintivo; dall’altra associa i prodotti tra loro, attribuendo
un’identità condivisa. È interessante notare come l’etimologia del termine
esprima già la prima di queste due funzioni, quella di delineare confini per
differenziare il prodotto: “marca” deriva infatti dal tedesco marka, ossia
segno e confine di demarcazione (coerentemente, le marche erano i luoghi
più lontani dal centro dell’impero e più vicini ai suoi confini).
Da tutto ciò deriva una duplice posizione comunicativa: da un lato la
marca è oggetto di discorso, dall’altro essa è il soggetto che organizza e
conduce quello stesso discorso; “è il segno sul prodotto o sul servizio, ma è
anche il valore globale evocato da quel segno” (Fabris, Minestroni 2004,
p.135). Semplificando, la marca è sia reale che simbolica, sia tangibile che
astratta.
1.2.3. Segno e metafora
L’associazione tra la marca e le sue connotazioni è assolutamente
arbitraria: se ci sono associazioni che l’impresa persegue e coltiva, altre sono
indesiderate e negative per l’immagine del prodotto e dell’azienda. Il
consumatore crea certi collegamenti a seconda della sua sensibilità, dei suoi
valori, dei meccanismi del suo inconscio.
È in questo carattere di arbitrarietà che è possibile trovare una profonda
somiglianza tra la marca e il segno: se consideriamo la marca un’entità
formata dall’unione di due entità intangibili, ad esempio il suo nome e le
associazioni simboliche che esso genera, è ragionevole accostarla all’idea di
segno, secondo la definizione data da Saussure – che per “segno” intende
l’unione di due classi astratte, formate arbitrariamente: un significante e un
significato. Nel caso della marca, il significante è rappresentato da nome,
logo e slogan; benefici tangibili e intangibili, identità, valori, e stili di vita
associati alla marca costituiscono il significato. Bisogna però sottolineare
che una marca può essere oggetto di associazioni, produrre significato e
dunque dirsi segno solo quando è consolidata, conosciuta e con una forte
identità.
Nell’aggiungere valore e significato al bene di consumo, la marca risulta
tanto più forte quanto più è generica, cioè quanto più riesce ad esprimere
contenuti indipendentemente dall’oggetto cui si lega. In questo senso
11
possiamo dire che la marca presenta le caratteristiche della metafora: essa
cioè “sta per” nuovi mondi, stati d’animo e sentimenti – o semplicemente un
benefit di prodotto. Volvo, ad esempio, è metafora della sicurezza e, dunque,
della vita: non è allora un caso che il suo pay-off sia “Volvo. For life”.
L’idea della marca-metafora potrebbe sembrare contraddittoria rispetto
all’ipotesi della marca-segno: nella metafora viene infatti spezzato il legame
referenziale abituale tra significante e significato, stabilendone uno nuovo.
In realtà è proprio questa duplice valenza – segnica e metaforica – che
determina la grande potenza del marchio: quella di stabilire nuovi legami tra
significante e significato, tra segno e senso, tra forma e contenuto.
1.2.4. Testo
Se la semiologia considerava il discorso della marca come un sistema di
segni, la prospettiva semiotica lo analizza come un testo complesso e
stratificato: la teoria semiologica dei segni non viene rinnegata, ma integrata
“in un’architettura a molteplici livelli ed in un processo dinamico, nel quale i
segni non rappresentano che la tappa finale, oltre che la più visibile”
(Semprini 1996, p.47).
L’approccio semiotico punta quindi a gerarchizzare il discorso della
marca e ad attribuire un peso specifico a ciascun suo elemento; nella
convinzione che per sapere come il senso viene comunicato bisogna prima
analizzare come viene costruito, il riferimento al percorso generativo del
senso consente di individuare tre stadi:
• il livello profondo è quello in cui un numero ridotto di elementi astratti
articola i concetti fondanti sulla base di categorie oppositive;
• il livello narrativo vede la messa in racconto di tali elementi, organizzati
in sequenze di azione che danno origine a sceneggiature in cui vengono
abbozzati solo alcuni tratti fondamentali;
• il livello di superficie, corrispondente in parte a quello dei segni, è
caratterizzato dalla definizione delle sceneggiature, che producono qui
un numero virtualmente infinito di storie.
A causa del loro carattere astratto, gli elementi del livello profondo non
appaiono mai in quanto tali nelle manifestazioni discorsive della marca: essi
devono necessariamente incarnarsi in racconti ed essere presi in carico da
segni concreti. Pur essendo perfettamente comprensibili, concetti come la
libertà e il piacere sono difficilmente identificabili e non possono essere
mostrati direttamente. Di conseguenza, per poter accedere al livello
12
profondo l’analisi deve partire dalla superficie e procedere per successive
astrazioni (per un esempio di applicazione del modello greimasiano si
rimanda al capitolo 6).
In quest’ottica, il cardine dell’approccio semiotico è il concetto di
narrazione, che rende conto del carattere dinamico della significazione: una
volta dotatasi di un ordine interno fondato sugli elementi del livello
profondo, la marca deve infatti relazionarsi con l’esterno, diventando
discorso e storia narrata. Una narrazione che deve proporre un universo di
significati compiuto in sé, ma aperto al dialogo con i consumatori:
l’attribuzione di senso al discorso della marca deve cioè essere frutto della
cooperazione tra la marca stessa e i consumatori.
In un certo senso, il comunicatore – tipicamente il brand manager – “si
vede portare via di mano la conduzione dello spettacolo” (Semprini 1993,
p.15) e deve pertanto costruire un copione così forte da potersi adattare alle
modifiche imposte da pubblico e contesto, pur rimanendo se stesso; in altre
parole, il comunicatore deve dare alla marca un tema caratteristico e
distintivo, che possa poi evolvere a seconda delle diverse condizioni di
ricezione.
1.2.5. Nuova ideologia
In quanto soggetto di discorso, la marca racconta una storia enunciando
dei valori: per il fatto di suggerire un sistema valoriale coerente, quelle delle
marche possono essere considerate le nuove “grandi narrazioni”. Secondo
Lyotard (1981), infatti, l’era contemporanea ha visto la scomparsa di quelle
ideologie che nella modernità hanno ispirato l’evoluzione del mondo
occidentale, proponendo un sistema valoriale forte e coerente.
Questo vuoto lascia che il marketing diventi il nuovo “grande racconto”,
la nuova ideologia di riferimento che trova nella marca il suo strumento per
eccellenza. La crisi dei valori “forti” moderni “ha lasciato emergere una
molteplicità di valori “deboli”, tra i quali l’individuo può scegliere a seconda
dei momenti: la marca “pesca uno di tali valori deboli per impossessarsene
socialmente, operando come un potente attore sociale in grado di proporre
agli individui precisi modelli di riferimento” (Codeluppi 2001, p.23).
1.2.6. Universo valoriale tra stabilità e dinamicità
Il livello profondo contiene le costanti della marca, gli elementi che ne
garantiscono la stabilità nel tempo e che quindi hanno un’importanza
strategica: nella produzione di tutti i discorsi della marca bisogna cioè
13
costruire il significato partendo da tali elementi, dai valori che danno
continuità di senso alla marca.
In un contesto economico in cui i prodotti non sono più in grado di
differenziarsi tra loro e di comunicare emozioni, sono proprio i valori ad
attirare il consumatore. A fronte dei continui cambiamenti socio-culturali,
inoltre, la stabilità dei valori consente ai consumatori di utilizzare le marche
come nuovi criteri di definizione sociale. La marca deve però essere anche
in grado di adattarsi all’attualità: se la coerenza della sua identità è alla base
del marketing operativo, la capacità di far evolvere il proprio discorso in
accordo con l’evoluzione dei valori contestuali le permette di mantenere una
posizione di successo rispetto alla concorrenza. Quando tali valori decadono
o mutano di significato, la marca deve cogliere la portata del cambiamento,
identificare i nuovi valori e appropriarsene.
La necessità di segmentazione del mercato in una sua precisa fase, quella
di evoluzione e l’obbligo di continuità sembrano contraddittori: si chiede
infatti alla marca di seguire i mutamenti valoriali del proprio target e allo
stesso tempo di rimanere se stessa. Per riuscire in tale compito, gli elementi
che si trovano nel livello profondo del discorso di marca devono essere
difesi e fatti evolvere solo in modo graduale e progressivo: infatti, “la
continuità rinforza l’identità di una marca, ma l’evoluzione ne assicura la
modernità” (Semprini 1996, p.63), in una continua dialettica tra stabilità e
cambiamento.
1.3. La marca come persona?
1.3.1. Un equivoco
Abbiamo detto che la marca è mobile e in grado di evolversi: queste sue
caratteristiche fanno sì che essa venga spesso accostata agli esseri viventi,
originando la metafora della marca-persona. Si tratta di un’opinione diffusa
e ben propagandata da tutti coloro che della marca si occupano: uomini di
impresa, agenzie di pubblicità e studiosi.
Secondo Ferraresi, l’equazione tra marca e persona “è nata a partire da
un equivoco, o meglio a partire da una semplificazione” (Ferraresi 2002,
p.100) operata da chi per primo si è avvicinato alla tematica della marca: si
trattava di professionisti della pubblicità, privi di competenze semiotiche, i
quali muovevano dall’esigenza primaria di comprendere in modo chiaro e
immediatamente operativo il funzionamento comunicativo della marca.
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Questi pubblicitari avevano bisogno di padroneggiare il nuovo fenomeno e
pertanto cercavano delle formule che permettessero loro di lavorarci: è così
nata l’analogia con la persona. Dicendo che la marca ha un carattere, dei
sentimenti e una razionalità come le persone e che come esse comunica, lo
studio e l’analisi risultavano facilitati. Purtroppo, “quello che è stato un
felice accostamento o, se vogliamo, un’intelligente e pratica analogia, è
diventata un’equazione e, così, una verità incontestata” (Ferraresi 2002,
p.100). In realtà, la marca non è una persona: da un punto di vista
comunicativo, è contemporaneamente molto meno e molto più di una
persona. Vediamo come.
1.3.2. Meno di una persona…
• La marca non possiede la capacità di autocontraddizione: è un
dispositivo comunicazionale costruito per non contraddirsi e per
proporre un discorso coeso e armonico in tutte le sue parti. Le persone,
invece, possono cadere in contraddizione in momenti e da punti di vista
diversi: questa capacità di auto-smentirsi, di rivedere le proprie posizioni
e di mettersi in discussione, anche inconsapevolmente, è un segno di
vitalità intellettuale che alla marca manca.
• Inoltre, mentre una persona ragiona, la marca è ragionata: i suoi saperi e
i suoi sentimenti “sono costruiti a priori e non interagiscono in contesto
con il sapere e i sentimenti del ricevente” (Ferraresi 2002, p.101).
I dialoghi umani producono un’interazione immediata, durante la quale
razionalità, sentimenti e sensazioni convergono nel costruire un
apprendimento degli altri e di se stessi. Nella marca, tale dinamica
avviene a posteriori, al di fuori del contesto comunicazionale: una volta
resisi conto che la marca non è più in sintonia con il target, il brand
manager e i suoi collaboratori si riuniscono per apportare i necessari
aggiustamenti all’impianto discorsivo della marca.
• Essendo frutto di un pensiero collettivo, la marca non soffre delle
idiosincrasie della persona, che determinano il carattere unico e
irripetibile di ciascun individuo. La loro assenza fa sì che il carattere
della marca sia privo di lati oscuri: questo consente di non alienare
settori del target potenziale, ma parallelamente porta la marca ad essere
neutra e poco differenziata, nel bene e nel male.
• La marca non ha la profondità dell’inconscio.
• Mentre con una persona si possono avere anche esperienze negative, con
una marca le esperienze sono “sempre positive e tutto sommato tiepide,
15
mai scioccanti” (Ferraresi 2002, p.102): in altre parole, la marca procura
esperienze meno vive e più attenuate di quelle che possono derivare
dalle persone.
• Una marca comunica costantemente e continuamente, si può dire che
viva per comunicare: una persona può comunicare il desiderio di non
comunicare, una marca no.
1.3.3. …e più di una persona
• Rispetto ad una persona, la marca ha un equilibrio comunicativo
maggiore, o meglio, appositamente studiato per gli scopi cui la marca
mira. Le marche “sono totalmente virate verso una disposizione
comunicativa gentile, misurata e accattivante” (Ferraresi 2002, p.102).
• La marca accoglie all’interno del suo mondo, ed è felicissima di farlo, il
maggior numero possibile di individui; le persone invece, per quanto
socievoli, difendono i confini del proprio sé, tollerando solo alcune
“invasioni di campo”.
• Rispetto alle persone, le marche hanno una maggiore voglia e capacità di
far vivere delle esperienze: mentre le marche sono esperienziali – nelle
parole di Schmitt, “non sono solamente degli identificatori. Esse sono
primariamente e fondamentalmente dei fornitori di esperienza” (Schmitt
1999, p.30) – non sempre frequentare una persona si trasforma in
un’esperienza.
16
2. IDENTITÀ, IMMAGINE, VALORI E VALORE
2.1. L’impresa
2.1.1. Dall’impresa alla marca
La marca non riunisce in sé tutti i significati, i valori e le missioni di
un’azienda: in prima approssimazione, possiamo dire che l’impresa
(corporate) genera la marca. O le marche: se infatti talvolta marca e
corporate coincidono, spesso ad una corporate fanno riferimento molte
marche diverse. Prima di esplorare il complesso e affascinante concetto di
marca è quindi necessario soffermarsi sull’impresa, su ciò che costituisce
l’indispensabile background materiale della marca.
La corporate è il gruppo industriale che sta alle spalle del brand: uomini
e strutture produttive, centri di ricerca, saperi scientifici e tecnologie, forza
finanziaria, tradizioni imprenditoriali e biografia commerciale. Di fatto, la
corporate è un patrimonio culturale e di esperienze che costituisce una
garanzia e un plusvalore per la marca, trasmettendole i suoi tratti distintivi
(ad esempio l’impegno a soddisfare i bisogni del consumatore, la costante
ricerca del miglioramento tecnologico, la capacità professionale del
personale) e il suo sigillo di credibilità e autorevolezza.
È pertanto di importanza strategica affiancare alla comunicazione della
marca quella della corporate: l’obiettivo non è tanto sfruttare quello che in
psicologia è definito “effetto della fonte”
1
, quanto piuttosto rassicurare il
consumatore attraverso l’impegno (commitment) che l’impresa assume nei
suoi confronti.
Da tutto questo deriva una nuova tendenza di branding: se in passato
l’identità della marca si basava sulla ricerca di differenza rispetto ai
concorrenti, nell’odierno scenario competitivo essa consiste nel prender
coscienza degli obiettivi aziendali (mission) e nell’aderire alla visione del
mondo propria della corporate (vision). Prima quel che contava era “l’altro”,
oggi è fondamentale il rispetto dei propri valori.
1
Per “effetto della fonte” si intende la maggiore forza persuasiva di un messaggio trasmesso
da una fonte considerata autorevole e credibile dai riceventi.
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2.1.2. La cultura d’impresa
Ad un livello superficiale, un’impresa è caratterizzata da atteggiamenti,
comportamenti e decisioni operative; ad un livello più profondo, tali
elementi sono determinati e condizionati da quella che si può definire
cultura d’impresa. Si tratta dell’insieme di assunti basilari, convinzioni
condivise e valori fondanti cui i membri della corporate fanno riferimento.
Tale cultura evoca la storia dell’azienda, i suoi successi e le sue crisi; le
profonde radici nel passato devono comunque consentire una certa elasticità
nei confronti dei cambiamenti (di prodotto, di mercato, di contesto) che
l’impresa incontra nel corso della sua esistenza. Riflessa nella corporate
identity, a sua volta tradotta dalla comunicazione in corporate image, la
cultura d’impresa giunge fino al consumatore: vediamo come.
2.1.3. Corporate identity e corporate image
Storia e valori sono alla base dell’identità aziendale (corporate identity),
definita da Grandi (1994, p.138) come tutto ciò che la direzione dell’impresa
intende valorizzare e poi comunicare – quindi l’insieme dei significati che
saranno inscritti nei vari prodotti comunicativi.
L’identità, poi, è parte costituente dell’immagine (corporate image),
intesa come “interazione fra ciò che l’azienda realmente è, ciò che intende
divenire e l’opinione che se ne ha all’esterno e all’interno”(Barni 2003,
p.93). Frutto di tutti i segnali che l’azienda trasmette – consapevolmente o
meno – al fine di dare una rappresentazione di sé coerente con i propri
obiettivi, la corporate image è dunque determinata anche dalle
interpretazioni che i destinatari danno di tali segnali: di fatto, l’immagine è
la modalità di fruizione da parte del pubblico dell’identità elaborata
dall’azienda.
Si può quindi dire che la comunicazione della corporate identity generi
un’immagine attesa e un’immagine riscontrata: la prima è il modo in cui
l’impresa vorrebbe essere considerata dai propri pubblici destinatari, quindi
il risultato che essa si aspetta dalla comunicazione della corporate identity;
la seconda è il modo in cui le intenzioni e i comportamenti dell’impresa
sono effettivamente interpretati da quegli stessi pubblici2. Nel passaggio
dalla corporate identity alla corporate image, dunque, i consumatori giocano
un ruolo fondamentale, determinando di fatto l’efficacia degli sforzi
comunicativi dell’impresa; in quest’ottica, “fare una politica d’immagine
2
Grandi (1994) individua anche un terzo tipo di corporate image: l’immagine diffusa, ossia
quei tratti della corporate identity individuati dai ricercatori nei discorsi fatti dall’impresa su
se stessa e in quelli fatti da altri.