2
Posto che il narcisismo sia comunque una peculiarità, più o meno preponderante, di quasi
tutti gli scrittori
2
, mi è parso che nel suo caso si possa davvero parlare di “gigantismo
dell’io”
3
: il Graal che si è proposto di cercare e difendere è, in realtà, un alter-ego cui
attribuire i tratti più salienti della propria biografia e della propria personalità. E poiché
non esiste letteratura senza il filtro dell’immaginazione, della simulazione e dell’artificio,
le proiezioni autobiografiche di Yeats sono abbigliate con i panni della tradizione gaelica,
hanno i connotati tipici degli eroi dell’età dell’oro e si esprimono per sogni secolari: sono,
insomma, delle maschere artificiali che testimoniano il suo ventriloquismo.
In tal senso, allora, si è disposto il materiale di analisi e di raffronto, cercando di tracciare
un cammino che, privilegiando un andamento e cronologico e intergenerico, permettesse di
evidenziare la meticolosa riflessione che costituisce la cifra più significativa dello Yeats
poeta e drammaturgo.
Il primo capitolo vuole essere un’introduzione al contesto storico, culturale e macrotestuale
in cui lo scrittore si mosse, al fine di comprendere quanto la presenza della maschera, pure
con modalità diverse, sia stata determinante per la produzione letteraria tra Estetismo e
Decadentismo, Ottocento e Novecento. E poiché mi è parso che il suo impiego sia, nella
letteratura teatrale di fine secolo, un espediente abbastanza significativo, ho cercato di
comprendere a quali usi questa possa prestarsi, e per far ciò ho scelto di soffermarmi
brevemente sulla produzione di tre drammaturghi molto diversi tra loro, eppure quasi
contemporanei: Oscar Wilde, Luigi Pirandello e Ernest Dowson. Ho ritenuto fosse più
significativo e probante concentrarmi, nello specifico, su alcune commedie al fine di
dedurre una possibile “fenomenologia della maschera” che consentisse, in un secondo
momento, di far comprendere quanto quella yeatsiana sia approfondita e originale,
anomala e suggestiva.
Dopo la premessa costituita dalla panoramica iniziale, il lavoro verte unicamente su Yeats:
il secondo capitolo tratteggia sinteticamente un suo profilo biografico e culturale, dal
momento che, incerto e tentato contemporaneamente dalle promesse della cultura
scientifica e razionalista, e dalle suggestioni della magia e dell’irrazionale, svolse,
giovanissimo, un ruolo essenziale per la nascita e la delineazione dei concetti portanti
dell’Irish National Theatre, vera fucina creativa dell’Irlanda di fine Ottocento.
2
Tra tutti gli aforismi che si potrebbero citare, mi sembra particolarmente esplicito e di cristallina definizione
quello di W. Schlegel: «I poeti sono pur sempre dei Narcisi».
3
Cfr. J. MUKAŘOVSKÝ, Il diritto alla biografia, in La funzione, la norma e il valore estetico come fatti
sociali, Torino, Einaudi, 1971, pp. 416-435.
3
Gran parte del materiale utilizzato e su cui il lavoro è svolto, in questo frangente, deriva
dagli scritti autobiografici di Yeats stesso e dagli studi sulla prassi drammatica e scenica
4
dell’Europa del XIX e XX secolo.
Richiamandosi alle teorie di James Frazer e Mircea Eliade, i quali avevano individuato
nella letteratura orale e nel patrimonio folclorico di una presunta età dell’oro le principali
matrici della successiva produzione epica, fantastica, celebrativa dell’identità e dell’etnia
di un popolo, Yeats cercò di raccogliere l’eredità dei cantori arcaici e dei bardi medievali,
proponendosi esplicitamente come alter Homerus, creatore di una mitopoiesi autonoma e
feconda. E poiché «tutta l’arte è fatta per ristabilire l’età dell’oro», come Yeats aveva
argomentato, con l’orecchio forse inconsapevolmente proteso alle parole di Vico e alle
riflessioni di Blake, anche la sua vocazione a farsi vate
5
di un popolo tradizionalmente
legato alla pratica dell’ascolto e alla fiducia nel potere del sogno e del sovrannaturale, non
è altro che il tentativo di far rivivere un ipotetico passato utopico con il filtro della
nostalgia tipica dell’artista.
Il terzo e il quarto capitolo, partendo dalle premesse teoriche esposte in quell’affascinante
compendio di esoterismo, cabala, misticismo, diagrammi teosofici e allegorie, che è A
Vision (Una visione), propongono una successione di simboli del self e dell’anti-self,
concentrati principalmente nei suoi lavori drammatici. Ispirandosi a specifici studi gnostici
ed esoterici
6
, particolarmente fecondi in età medievale e rinascimentale, Yeats organizza,
secondo un articolato gioco di spirali in movimento, coincidenze astrali e fasi lunari, e una
cosmogonia e una filosofia dei corsi e ricorsi storici che, in piccolo, si ripercuote e
ripropone all’interno della psiche umana, e che è alla base della configurazione della
personalità. Suddividendo, infatti, in ventotto spicchi le qualità più marcate che consentono
di contrapporre un temperamento all’altro, egli istituisce in breve una sorta di scienza del
comportamento.
4
Ovvero anche la teorizzazione di natura scenografica, componente questa più che rilevante nel periodo
storico-culturale preso in esame. Nel corso della tesi si accennerà, in più di un’occasione, al peso che ebbe
Gordon Craig per la drammaturgia del Novecento, concentrandosi sulla natura imperfetta dell’attore e sulla
necessità di ripristinare l’antico uso della maschera.
5
«Yeats as an example?» è il titolo di un saggio di Seamus Heaney, in cui si evidenzia quanto sia stato
difficile, per gli scrittori delle generazioni immediatamente successive a quella di Yeats, impegnarsi in
letteratura dopo di lui. Cfr. S. HEANEY, «Yeats as an example?», in Preoccupations, New York, Farrar,
Straus, Giroux, 1980, p. 109, cit. in G. SCATASTA, Il teatro di Yeats e il nazionalismo irlandese (1890-1910),
Bologna, Patron, 1996, p. 163.
6
Cfr. il II capitolo di questa tesi, al par. L’apprezzamento di Yeats richiede la sua comprensione?
4
E poiché, in più d’un’occasione, ha sostenuto che simili speculazioni, intese comunque più
come coordinate culturali che come criteri di tassonomia scientifica
7
, possano costituire
una griglia utile alla realizzazione di opere letterarie, si è pensato di rintracciare quei
luoghi del testo in cui l’applicazione di tali criteri potrebbe essere più stimolante.
In particolare, il terzo capitolo enumera e presenta alcuni personaggi letterari in cui
l’autore si rispecchia così fedelmente da affidare loro quelle riflessioni estetiche,
filosofiche e programmatiche che costituiscono parte della sua eredità più significativa alla
letteratura novecentesca: dal momento che «in materia di letteratura e in materia di fede
non sono possibili i compromessi», John Sherman, Mary, protagonista di The Land of
Heart’s Desire, il poeta pitocco Seanchan di The King’s Threshold, e l’eroe Cuchulain,
sono solo alcune delle maschere in cui Yeats si identifica esplicitamente e dietro cui si
nasconde per parlare di sé, o oggettivare parte del suo orizzonte culturale.
Il quarto capitolo costituisce il rovesciamento dialettico, l’antitesi o la negazione del terzo,
poiché vi sono individuate quelle personae loquentes le cui fattezze camuffano amici,
donne amate e desiderate fino al parossismo, ideologie o espedienti che esulano dal
temperamento dell’artista.
Ne consegue che Cathleen
8
, contessa protomartire per vocazione, Deirdre, bella e
sfortunata, il re Conchubar, la fedele Emer, la donna del Sidhe o Decima, istrionica
giramondo di The Player Queen, possano essere interpretati come dei correlativi oggettivi
dell’anti-self, o, più semplicemente, come il polo disforico necessario per l’innescarsi di
una qualsiasi dinamica comportamentale ed artistica.
Ancora una volta, si è preferito circoscrivere il campo d’indagine ai casi più evidenti di
mistificazione letteraria, evitando il facile biografismo e la gratuita aneddotica che, pur
potendo fornire parecchia materia d’indagine, non riescono a spiegare in fondo la
progressione epistemologica sottesa alla sua parabola artistica.
E poiché «verità e bellezza giudicano e sono al di sopra del giudizio; giustificano e non
hanno bisogno di giustificazione»
9
, credo sia opportuno lasciarsi suggestionare dalla
potenza visionaria dei suoi plays, non inferiore a quella, forse più celebre, delle poesie.
7
«Li considero adattamenti stilistici della mia esperienza paragonabili ai cubi nei disegni di Wyndham Lewis
e agli ovoidi nella scultura di Brancusi. Essi mi hanno aiutato a contenere la realtà e la giustizia in un solo
pensiero» (AV, p. 35).
8
Del nome esistono due varianti (Kathleen e Cathleen), ma nel corso della tesi si seguirà sempre la lezione
con la C.
9
«Samhain: (1903)»: La riforma del teatro, cit. e trad. in TAM, p. 233.
5
I. MASCHERA E MISTIFICAZIONE NELLA DRAMMATURGIA DELLA
DECADENZA.
I. 1. Oscar Wilde, ovvero l’elogio della maschera nella vita e nell’arte.
A prestare fede a Yeats, Wilde
1
fu poco più che un «uomo d’azione», perfetto
rappresentante, insieme a Byron e a D’Annunzio, della diciannovesima fase lunare, quella
dominata dalla volontà assertiva
2
. A leggere le Autobiografie di Yeats, Wilde fu un
poseur
3
, un brillante conferenziere, un vivace intrattenitore, un amante del paradosso e
della forma. A scorrere gli aneddoti riferiti da Shaw, Auden
4
o Gide, che con Wilde ebbero
a che fare in più d’un’occasione, egli emerge essenzialmente come un narciso, cui la sorte
aveva attribuito un temibilissimo strumento: l’ironia tagliente. A parere di Ellmann
5
Wilde
è l’unico dei poeti della generazione degli “anni Novanta” cui non è toccato l’oblio nel
secolo successivo, a tal punto da rappresentare, per buona parte dei lettori o dei semplici
curiosi, uno dei nomi più rappresentativi della produzione letteraria vittoriana.
1
La biografia più completa pare quella di R. ELLMANN, Oscar Wilde, London, 1987, trad. it. di E. Capriolo,
Milano, Mondadori, 2000 (edizione accresciuta rispetto alla precedente del 1991). Per un raffronto comparato
tra arte e posizioni critiche, cfr. M. D’AMICO, Oscar Wilde. Il critico e le sue maschere, Roma, Istituto della
Enciclopedia italiana, 1973 e F. P. GASPARETTO, Oscar Wilde: l’importanza di essere diverso, Milano,
Sperling & Kupfer, 1981.
2
«Questa fase è l’inizio dell’artificiale, dell’astratto, del frammentario, e del drammatico [...]. La sua meta,
quindi, è di usare un intelletto che si volge facilmente alla declamazione, all’enfasi emozionale [...]. Desidera
essere forte e costante, ma poiché l’Unità dell’Essere e la coscienza di sé sono finite entrambe, ed è ancora
troppo presto per aggrapparsi a un’altra unità mediante la mente primaria, egli passa da un’enfasi all’altra»
(AV, pp. 159-160).
3
«Il mio primo incontro con Oscar Wilde fu una cosa stupefacente. Mai avevo sentito un uomo esprimersi
con frasi così perfette, quasi le avesse scritte tutte la notte prima e con fatica, eppure tutte spontanee [...].
Notai anche come quell’espressione di artificiosità che penso sia rimasta in tutti coloro che hanno sentito
parlare Wilde venisse dalla perfetta quadratura delle frasi e dalla volontà che la rendeva possibile» (AUT, pp.
124-125).
4
«Wilde era, per genio e per destino, fondamentalmente un “attore”, un artista [...]. Sin dall’inizio, Wilde
recitò la sua vita e continuò a farlo anche dopo che il fato gli strappò la trama dalle mani» (W. H. AUDEN, An
Improbable Life, in R. Ellmann, a cura di, O. W. A Collection of Critical Essays, New York, Englewood
Cliffs, Prentice Hall, 1969.p. 117, cit. in D. CALIMANI, Fuori dall’Eden. Teatro inglese moderno, Venezia,
Cafoscarina, 1996, p. 22).
5
Cfr. R. ELLMANN, Oscar Wilde, cit., p. 76.
6
Simulatore, contraffattore, mediatore di stilemi del Decadentismo francese, scrittore,
drammaturgo, romanziere, novelliere, conferenziere, Wilde ha dominato forse più in
qualità di “personaggio” che per i propri reali meriti artistici.
Eppure, al di là delle semplici constatazioni relative alla sua lungimirante capacità di
gestire la propria immagine
6
, è innegabile che abbia offerto un ingente contributo alla
cultura inglese dei secoli XIX e XX. Recitare il ruolo del cinico dandy, incauto
sterminatore dei difetti e delle meschinità dei suoi simili, giocare a profanare i mausolei
della rispettabilità del vivere sociale, e, principalmente, corrodere, con il potere dissacrante
del riso, ogni parvenza di autorità, sono di certo tra le azioni che gli riuscirono meglio. Una
delle maschere che Wilde pone sul proprio volto con maggiore insistenza è quella del fool,
del matto, del buffone e del bambino che dimostra che il “re è nudo”. Anzi, nel caso in cui
il sovrano sia realmente svestito, egli è subito pronto a gridarlo ai quattro venti, gioendo
della possibilità di essere testimone di un tale momento di fallacia umana. E se Bachtin
7
ha
attribuito proprio al matto e al bambino la missione di demistificare l’aura di
invulnerabilità del mondo eroico, dando luogo al sovvertimento dei costumi tipico del
contesto carnascialesco, priapeo e gioiosamente sboccato, perché stupirsi di fronte a certi
personaggi wildiani? Non è mero sadismo, quello di Wilde, ma, piuttosto, impietosa
lucidità nei riguardi della miseria appiccicata al mucchietto d’ossa che costituisce l’essere
umano.
Nell’ambito di questo capitolo si cercherà di mettere in luce parte delle sue riflessioni e
delle sue concrete realizzazioni che hanno la maschera per protagonista. Parlare di
maschera riferendosi a Wilde è, a conti fatti, un’astrazione, poiché essa non risulta investita
di uno stesso e costante significato ma, piuttosto, assolve a più d’una funzione peculiare, a
seconda (anche) del luogo in cui essa è impiegata. A livello astratto e teorico, Wilde
elabora una epistemologia che presenta più di un punto di contatto con quella, di certo
molto più articolata e sistematica, pur nella sua intricata esposizione, di Yeats. Anche per
6
Interessante sottolineare che i suoi Poems, forse fin troppo debitori nei confronti di Wordsworth, Keats,
Arnold, Shelley, Tennyson e Swinburne, andarono a ruba al punto da giustificarne cinque edizioni nell’arco
di pochi mesi. E poiché, come sostiene anche D’Amico, «le cinque edizioni [...] si dovettero anch’esse senza
dubbio alla notorietà che l’esordiente autore aveva saputo conquistarsi» (M. D’AMICO, Oscar Wilde. Il
critico e le sue maschere, cit., p. 15), mi pare si possa istituire un parallelismo con la sorprendentemente
rosea situazione editoriale della prima raccolta di poesie del giovane D’Annunzio, la quale fu resa più
“appetibile” dalla diceria (concertata ad hoc) che voleva il promettente scrittore caduto da cavallo e in
pericolo di vita proprio poco dopo aver dato l’imprimatur ai suoi versi.
7
Si rinvia all’intervento di Bachtin dal titolo Epos e romanzo, in G. LUKÁCS, M. BACHTIN, Problemi di
teoria del romanzo. Metodologia letteraria e dialettica storica, a cura di V. Strada, Torino, Einaudi, 1976,
alle pp. 181-221. Ciò che in questa sede a Bachtin preme illustrare è che spesso basta una risata a far
sgretolare muri e impalcature all’apparenza inespugnabili.
7
Wilde, infatti, la maschera è qualcosa di altro dal proprio self, un orpello che l’uomo
indossa per muoversi meglio in società e per proteggere se stesso da una realtà che
altrimenti gli sarebbe letale.
Con Wilde e, parzialmente con Yeats, si istituirà quel parallelismo tra la recitazione sul
palcoscenico e quella nel quotidiano che condurrà fino al teatro dell’assurdo di Beckett
8
, in
cui non si distingue più tra realtà e fantasia, poiché sono entrambe irrimediabilmente
malate e corrotte, e che può essere messa in relazione, come di seguito si farà, con le
riflessioni pirandelliane sulla convenzionalità dell’opera drammaturgica e artistica in senso
lato.
Eppure, a differenza della concezione di Yeats imbevuta di filosofia, intrisa di
psicologismo, e zuppa di superstizione contadina, Wilde non riesce a risolvere l’intimo
dissidio tra il doing e il being. Se, da una parte, afferma che l’artificio è l’unico strumento
capace di difendere l’artista dalla barbarie dei tempi moderni e dalla volgarità della
borghesia, è anche vero che sovente esorta a squarciare qualsiasi velo che possa frapporsi
tra l’essenza autentica dell’ego e il mondo circostante. E questa è una dialettica ricorrente,
mai risolta.
Del resto, «it is only when you give the poet a mask that he can tell you the truth»
9
è una
delle teorizzazioni più esplicite e incoraggianti, all’interno di una ricerca siffatta,
dell’apologetica dell’artificio quale strumento conoscitivo.
In breve, Wilde non riesce a ricondurre a minimo comune multiplo le diverse funzioni che
ha delegato alla maschera e che, sinteticamente, sono esplicitate dal critico, dal dandy e
dalla società (vittoriana).
8
In merito, cfr. le osservazioni di D. CALIMANI, op. cit., p. 159, in cui si legge: «Il motivo di maggior disagio
avvertito dallo spettatore del teatro di Beckett è forse dato [...] dall’effetto di identificazione fra realtà
dell’azione mimetica e realtà della vita. [...] L’abbattimento della “quarta parete” crea un effetto di riflessi
multipli, un gioco di specchi; le due posizioni apparentemente complementari, del teatro e della vita,
interagiscono in un ambiguo rapporto sineddochico: si crea la suggestione che, oltre a essere il teatro parte
della vita, sia anche la vita parte del teatro, inscritta in esso come l’effige araldica en abyme in uno stemma di
cui rispecchia la cornice esterna».
9
«È solo quando si dota il poeta di una maschera che questo può dire la verità», in The Letters of Oscar
Wilde, a cura di R. Hart-Davis, London, Rupert Hart-Davis, 1962, p. 759.
8
I. 2. Da Patience all’ebbrezza della mitopoiesi: il critico e il pubblico.
In una fase iniziale della speculazione wildiana, la maschera coincide, si è già accennato,
con lo scherzo raffinato, con il paradosso, con la rivisitazione del divertissement e con la
negazione dell’evoluzionismo, poiché irrigidendo la realtà ne contesta il divenire.
È quindi, in tempi di darwinismo, spencerismo e migliorismo, una frecciata
provocatoriamente scagliata contro la fiducia che George Eliot o Matthew Arnold
sembravano riporre nelle dinamiche sociali
10
e nelle «magnifiche sorti e progressive» che
venivano pontificate quale immediato raggiungimento del progresso scientifico. È una
contestazione, la sua, poco appariscente, forse, o, meglio, talmente raffinata da passare per
conservatorismo, ai danni di ciò che spaventa, minaccia o turba.
Si identifica con la simulazione e la dissimulazione, con il culto della forma in un tempo in
cui l’alfabetizzazione dilagante e il mercato editoriale sembravano conferire il primato
dell’importanza, ma di certo non dell’eccellenza, al feuilleton, alla letteratura d’appendice,
a pennivendoli e scribacchini, che di certo non hanno attraversato la barriera dei secoli
11
.
Incarna in sintesi l’utopia di un’arte talmente perfetta da essere, al contempo, eburnea,
fulgida, spettrale, inattingibile, lontana.
Elogia, Wilde, il dubbio quale corretto metodo di analisi, non tanto perché figlio del
relativismo scientifico, quanto perché meno prevedibile e scontato, banale e “noioso”,
sciagura tra le più gravi per il suo mondo concettuale, delle rigide e universalmente
riconosciute verità.
Come aveva pioneristicamente pronunciato, ex cathedra, Victor Cousin
12
, l’arte, poiché è
fatta di una materia più impalpabile dello chiffon e più pregiata del porfido, si giustifica da
10
Per una ricostruzione delle mille anime del vittorianesimo, delle sue contraddizioni, degli aneliti al
progresso e della paura che il darwinismo potesse smantellare lo status quo, e accomunare tutti, a dispetto
delle storiche suddivisioni in ceti sociali, poiché discendenti dallo stesso primate, cfr. J. H. BUCKLEY, La
temperie vittoriana (specificatamente alle pp. 79-85), in Il vittorianesimo, a cura di F. Marucci, Bologna, Il
Mulino, 1991.
11
In merito all’importanza della letteratura d’appendice (chick-lit), nel XIX e XX secolo, cfr. D. COUÉGNAS,
Dalla «Bibliothèque bleue» a James Bond: mutamento e continuità nell’industria della narrativa, in Il
romanzo, (tomo IV, Temi, Luoghi, Eroi), a cura di F. Moretti, Torino, Einaudi, 2001-2003, pp. 413-439.
12
Tracciare una sorta di albero genealogico dell’Estetismo non è impresa facile, poiché troppi sarebbero gli
scrittori, i filosofi, i poligrafi, i traduttori, gli estimatori e gli oppositori di un’idea che, in fondo, è presente
già dai tempi di Aristotele e Platone. Eppure, poiché è innegabile che tra il XIX e il XX secolo l’idea che
l’arte dovesse essere principio assoluto cui rifarsi, somma aspirazione per gli eletti e dono prezioso non
smerciabile, sia una caratteristica precipua, e poiché è altrettanto evidente che vi siano stati contatti tra alcuni
dei maggiori poeti e saggisti del tempo, occorre elencare sinteticamente alcuni dei principali responsabili di
questa “religione del bello”. Penso si possa affermare che le tracce di tale credo possono essere ritrovate già
nelle Lyrical Ballads di Wordsworth e Coleridge, i quali, ostili all’idea che potesse esistere un’arte
utilitaristica, proponevano di coltivarne una assolutamente autonoma ed indipendente, in grado di riscattare la
sete di «pure imagination» tipica dell’uomo di sensibilità superiore alla media. È però vero che, dopo Keats,
9
sé e di conseguenza anche per Wilde deve essere svincolata da qualsiasi implicazione di
natura morale ed epistemologica. Riprendendo le riflessioni pateriane
13
, nel volgere di
qualche anno teorizzerà un vademecum o meglio un vangelo, per chi volesse diventare
scrittore, il cui assioma fondante è che «all art is quite useless»
14
.
La prima maschera che Wilde indossa è dunque quella dell’esperto di arte e promotore di
un rinnovamento nel campo dell'abbigliamento e d’arredamento: posa con le braghe di
velluto e i girasoli all’occhiello, parafrasa squisiti paradossi della cultura francese
contemporanea, ostenta cinismo e indifferenza per le questioni morali. Rivendica per sé
tutte le sfumature cromatiche del giallo, colore per antonomasia degli “anni Novanta”
15
.
Elegge come guide spirituali Ruskin e Pater
16
, entrambi conosciuti ai tempi in cui era
studente universitario, eppure cerca se non di rinnegarli, per lo meno di superarli entrambi:
al primo, dopo gli esordi da conferenziere, avrebbe rimproverato la fiducia nella religione e
nella missione apostolica dell’intellettuale, del secondo, pur riprendendo l’insegnamento
squisito poeta in cui il cesello del verso coincide con la più sentita malinconia dell’anima, per un
quarantennio circa l’Estetismo fu cifra caratteristica della cultura francese. E infatti proprio con Hugo,
Gautier e Baudelaire (nella duplice funzione di poeta e di critico, estimatore e divulgatore dell’opera di E. A.
Poe), si assiste ad una prima rivalutazione della Bellezza fine a se stessa. Le suggestioni francesi
diventeranno parte integrante della temperie inglese della seconda metà del secolo, e troveranno degli
ambasciatori più che zelanti in Swinburne (nel saggio del 1868 su Blake coniò l’espressione «art for art’s
sake»), e in Ruskin, Arnold, Morris e i Preraffaelliti: per questi ultimi, ad esempio, l’arte avrebbe dovuto
costituire l’ultimo spiraglio di creatività ai tempi della Rivoluzione industriale. Nei decenni successivi,
furono Whistler e Pater (e Wilde, ovviamente, e il primo Yeats) a difendere l’obiettivo di una forma stilistica
flaubertiana, capace di essere di per sé oggetto di ammirazione.
13
Com’è noto, Pater si affermò nel 1873 con la raccolta di saggi The Renaissance, in cui illustrava i principi
di un estetismo inteso come tensione assoluta verso il bello supremo. L'opera ebbe una vasta risonanza, in
Inghilterra, e catalizzò l’attenzione sull’ex studente di Oxford, tramutandolo nel precursore del Decadentismo
britannico. Il relativismo e l'individualismo sono gli elementi fondamentali della riflessione pateriana: ne
consegue che l’esperienza personale sia l'unico valido parametro di giudizio (concetto che, come si vedrà nel
corso del capitolo, il Wilde saggista farà proprio). Nella conclusione dello studio, dopo aver affermato che
l’esperienza è «uno sciame di impressioni», Pater teorizza che il fine autentico della vita non sia «il frutto
dell'esperienza, ma l'esperienza in sé». Professando, inoltre, l’ideale di una vita scandita solo da sensazioni la
cui realizzazione suprema sia il culto della bellezza e dell'arte per l'arte, sarebbe stato ricordato come l’autore
del «manifesto» dell’Estetismo.
14
«L’arte, tutta, è completamente inutile». Preface a The Picture of Dorian Gray, in Wilde. Opere, a cura di
M. D’Amico, Milano, Mondadori, 2002, p. 5.
15
Sulla persistenza del “giallo” come cifra caratteristica del languore della Decadenza, cfr. G. FRANCI, Il
critico come artista: l’avventura estetica dei Nineties, in L’impero di carta. La letteratura inglese del
secondo Ottocento, a cura di C. Pagetti, Roma, Carocci, 1994, pp. 259-260.
16
Sull’influenza che Pater esercitò sulle generazioni successive, cfr., a carattere esemplificativo, F.
KERMODE, Romantic Image, London, Collins, 1971, H. BLOOM, «Late Victorian Poetry and Pater», nel
volume dedicato a Yeats, New York, Oxford, University Press, 1970, e P. MEISEL, The Absent Father:
Virginia Woolf and Walter Pater, New Haven and London, Yale University Press, 1980.
10
formale
17
e l’obiettivo di rendere la prosa musicale più dei versi
18
, non avrebbe esitato ad
amplificare, e parzialmente piegare ai propri obiettivi, certe ricostruzioni storiografiche.
E proprio questi sono gli anni in cui, “fuoriuscito da Oxford”
19
e desideroso di imporsi
quale fenomeno di costume, se non proprio editoriale, si presta ad impersonare il dandy
d’Inghilterra e a “promuovere” in America, da pubblicitario ante litteram, Patience
20
, una
delle prime operette di Gilbert e Sullivan. Incarnando proprio il prototipo del damerino
satireggiato dalla commedia musicale, getta le basi per quello che sarebbe divenuto il culto
della sua personalità.
Si presta allora ad un tour estenuante di conferenze in giro per il Nuovo Continente,
saccheggiando e distribuendo, a volte come fossero proprie, altre dichirandone la fonte
originaria, ma sempre aggiungendo il sale del proprio intelletto, le riflessioni e gli aforismi
dell’amico pittore John Whistler, diventato in breve, per lui, un secondo Pater. Con gli
interventi The English Renaissance, House Decoration e Art and Handicraftsman cerca
ancora di mediare lo stile fiorito e turgido desunto, se non a tratti addirittura riprodotto
quasi verbatim, da Pater, e l’utopia della redenzione tramite il riscatto del lavoro di cui
erano ferventi apostoli Ruskin e Matthew Arnold. Se a quest’altezza, il Wilde teorico è
ancora fiducioso nella possibilità che anche la bellezza possa farsi garante di un’elevazione
morale, nell’arco di un quinquennio le sue pagine si riempiranno di appassionate difese di
tutto ciò che trascende, travalica e ignora la sfera etica e comportamentale.
Più che districare l’opposizione tra il being e il doing, allora, inizia a sostenere che sia
necessario diventare ciò che si è, ovvero far in modo che la vita si sovrapponga a
perfezione sull’artificio, e anzi vivere con naturalezza l’artificio
21
diventa l'obiettivo da far
perseguire ai suoi personaggi più riusciti (ed emblematici).
17
Così Yeats ricorda il primo incontro con Wilde: «Quella prima sera fece l’elogio di Studies in the History
of the Renaissance di Walter Pater: “È il mio libro d’oro, e me lo porto sempre appresso quando viaggio, ma
è il fiore stesso della decadenza: la tromba del giudizio avrebbe dovuto suonare non appena fu scritto”»
(AUT, p. 134).
18
«Wilde amò far credere che il suo abbandono della poesia fosse dovuto a un consiglio di Pater: “Perché
non vi cimentate nella prosa, signor Wilde? È talmente più difficile!”» (M. D’AMICO, Oscar Wilde. Il critico
e le sue maschere, cit., p. 16).
19
Per comprendere quanto il passaggio dalle public schools alle università di Oxford e Cambridge fosse
traumatico e dilaniante, per gli scrittori vittoriani, si veda l’Introduzione di F. MARUCCI alla Storia della
letteratura inglese. vol. III, tomo I, Firenze, Le Lettere, 2003 (specificatamente, pp. 22-23).
20
Del 1881. Nell’operetta, alcuni giovani e svenevoli ammiratori delle piacevolezze dell’arte e della bella
vita riescono ad avere la meglio, con l’altro sesso, sbaragliando la concorrenza di un gruppo di militari. Il
protagonista, Reginald Bunthorne, è un dandy che con Wilde divide usi e bizzarrie. Di conseguenza,
esportare Patience nel Nuovo Continente e affidarne la promozione ad uno dei tanto satireggiati esteti,
contribuì a creare un clima di attesa e curiosità, che Wilde seppe abilmente rivolgere verso se stesso.
21
«SIR ROBERT CHILTERN: Preferisce essere naturale? SIGNORA CHEVELEY: A volte. Ma è una posa
così difficile da sostenere» (An Ideal Husband, in op. cit., p. 750).
11
Impersona l’eccentrico, l’eccessivo, lo stravagante e, soprattutto, diventa l’idolo delle folle.
Recita nella vita o simula nell’arte? Deride le convenzioni
22
o ne crea di nuove? Si propone
come arbiter elegantiarum o schernisce l’etichetta? O, meglio, non fa
contemporaneamente tutto ciò, con la naturale contraddittorietà che ne deriva?
Intorno alla metà degli anni Ottanta, rientrato in Inghilterra dopo aver raggiunto
un'immaginabile notorietà per un esordiente, inizia a dedicarsi alla stesura di saggi critici e
recensioni in cui la speculazione sulla complessità della maschera è già compiuta e
perfetta: ciò che al Wilde articolista
23
preme sottolineare è che essa è una forma mentis, un
modus vivendi, in definitiva una libera e consapevole scelta, che conferisce al lettore dotato
di senso estetico, al critico arguto, all’estimatore del mot juste, la possibilità di gareggiare
finanche con Shakespeare.
The Truth of Masks
24
, il suo primo studio
25
, è un lavoro sistematicamente proteso alla
ricostruzione delle valenze della maschera e dei costumi nella drammaturgia
shakespeariana. Wilde discute di tessuti, ricami, tendaggi, illuminotecnica e modalità
recitative, interrogandosi sulla presunzione implicita nell’idea di “ricostruzione filologica”
degli ambienti e degli scenari. E poiché qualsiasi rivisitazione di testi passati è, a conti
fatti, un’astrazione e una scommessa, ne conclude che il teatro realista o borghese è ancora
più fantasioso e aleatorio di quello a cui vorrebbe contrapporsi. Ecco perché la verità è
affidata alla maschera, intesa, questa, sia come oggetto che realmente si sovrappone sul
volto dell’attore, alterandone le fattezze, sia come espediente linguistico che, individuando
un portavoce privilegiato, consente al drammaturgo di esporsi più di quanto non appaia, ad
una prima lettura. Nel saggio, oltre ad occuparsi di revisione critica, Wilde focalizza
l’attenzione sul ruolo del fool, del buffone, del matto, a cui la drammaturgia elisabettiana
aveva delegato la missione di esternare ed impersonare qualsiasi turba, follia o fobia
26
che
gli altri personaggi, pavidi e filistei, possono provare soltanto nel proprio intimo. E la
22
Yeats ha contribuito a plasmare e tramandare lo stereotipo di Wilde quale uomo desideroso di accelerare il
proprio cursus honorum ripudiando la poco nobilitante situazione familiare della quale era il prodotto:
«Recitava perennemente una commedia che era in tutto e per tutto il contrario di ciò che aveva conosciuto
nell’infanzia e nella prima giovinezza; non riusciva mai a liberarsi completamente dallo stupore quando la
mattina apriva gli occhi sulla sua bella casa, o quando si ricordava di aver cenato la sera prima con una
duchessa» (AUT, p. 141).
23
Si propone, in questa sede, una rapida e quasi sinottica successione dei pamphlets più rappresentativi
dell’estetica wildiana, al fine di consentire l’estrapolazione delle caratteristiche più significative da lui
attribuite alla maschera.
24
La verità delle maschere (1885), in un secondo momento espunto dal volume complessivo dei lavori in
prosa.
25
Il saggio apparve per la prima volta sulla rivista londinese «The Nineteenth Century» con il titolo
Shakespeare and Stage Costume.
26
Yeats terrà a mente quest’immagine per i propri esperimenti teatrali, come si evidenzierà nei capitoli
successivi.
12
rivalutazione del personaggio sbalestrato si ricongiunge a tutta la sua speculazione, in cui
la deliberata infrazione delle convenzioni e l’alterità dello stato mentale sono il preludio al
trionfo dell’immaginazione e al potere dello straniamento. La maschera del buffone non
verrà di certo abbandonata, negli anni successivi, ma, piuttosto, arricchita e amplificata con
l’apporto comportamentale e verbale del damerino, che nel teatro raggiungerà il non plus
ultra.
La postilla finale che sconfessa parte delle argomentazioni sostenute nello scritto evidenzia
il rapporto tra maschera e verità, poiché la metafisica non è altro che la mancanza di una
risposta nel campo ontologico.
E The Decay of Lying
27
, elogiando la menzogna in quanto forma più squisita di inganno,
ovvero, di arte, testimonia come la mistificazione non sia stata, per Wilde, solo una nuga o
un frivolo e autoreferenziale gioco di abilità, visto il dispiego di implicazioni filosofiche e
speculative che la arrichiscono.
Il saggio, congegnato come un dialogo di reminescenza socratica e platonica, che ha come
protagonisti Cyril e Vivian
28
, propugna l’obiettivo di restituire dignità alla bugia che, in
quanto attestazione della capacità creativa dell’essere umano, è imparentata con l’arte, la
scienza e il piacere sociale: «La menzogna e la poesia sono arti – arti, come capì Platone,
non prive di rapporti reciproci – e richiedono lo studio più attento, la devozione più
disinteressata»
29
.
Wilde congegna, in questa sede, un’apologetica della menzogna in quanto necessario
abbellimento di una scontata realtà fenomenica, e attribuisce al poeta, allo scrittore e al
critico la missione salvifica di riscattare il valore intrinseco della parola. Il dono
dell’affabulazione rigogliosa con cui Erodoto aveva inaugurato la sua trattazione storica e
fondato il genere cronachistico è stato, agli occhi di Wilde, ben presto sminuito e
dimenticato, quando non addirittura osteggiato, in onore della metafisica del fatto e
dell’adorazione del dato.
Oggi tutto è cambiato. I fatti non stanno trovando soltanto una base stabile nella
storia, ma stanno usurpando il dominio della Fantasia, e hanno invaso il regno
del romanzo. Il loro gelido tocco è su ogni cosa. Stanno involgarendo
l’umanità
30
.
27
La decadenza della menzogna (1889).
28
Cyril e Vivian sono anche i nomi dei figli di Wilde.
29
The Decay of Lying, in Wilde. Opere, cit., p. 1033.
30
Ibid., p. 1047.
13
E nel momento in cui «il manto del Sofista è caduto sulle spalle dei suoi adepti»
31
, si è
obliato, secondo la lettura wildiana della storia, il senso corretto della menzogna, la quale
può dunque essere «artistica» o «convenzionale», eccezionale o mediocre. La prima è
quella pronunciata dalle ardite labbra del true-liar, la seconda quella dell’uomo comune.
La menzogna che Wilde prende a manifesto è quella che accomuna chi la pronuncia al
grande artista, all’artifex, ovvero al contraffattore ma anche al poeta, al profeta, al
visionario
32
, laddove quella da osteggiare è solo lo squallido mezzuccio, utilizzato dai più,
per preservare parte del proprio buon nome e della propria respectability in società. Ne
deriva che tra il banale mentire e il bunbureggiare
33
esiste un baratro di significati e
accezioni altre che solo l’adepto della nuova religione che egli si impegna a diffondere può
comprendere e che, ancora, la verità risieda soltanto nella percezione mentale che ognuno
ne ha: «per me, io son quella che mi si crede», come si sostiene nella drammaturgia
pirandelliana. La menzogna, per Wilde, non è altro che la verità espressa in forma poco
convenzionale.
E, fortunatamente, Vivian preannuncia la nascita di un nuovo Grande Bugiardo, dotato di
così tanta verve da consentire un riscatto all’intera categoria dei mentitori:
Che qualche mutamento avrà luogo prima che questo secolo sia giunto al
termine non abbiamo il minimo dubbio. Seccata dalla noiosa ed edificante
conversazione di coloro che non hanno né lo spirito per esagerare né il genio
per romanzare, [...] la Società presto o tardi dovrà tornare alla sua guida
perduta, al colto e affascinante mentitore
34
.
Sembra di leggere certe profezie di Yeats sull’imminente catastrofe palingenetica che
dovrebbe dare il nuovo avvio alla società tutta. Di conseguenza, la menzogna è la verità, e
31
Ibid., p. 1031-1032.
32
«L’arte [...] non va giudicata secondo alcun criterio di verisimiglianza. È un velo, piuttosto che uno
specchio. Ha fiori sconosciuti a qualsiasi foresta, uccelli che nessun bosco possiede. Fa e disfa molti mondi, e
può tirar via la luna dal cielo con un filo scarlatto. [...] Può operare miracoli a piacere, e quando evoca mostri
dal profondo, questi vengono. Può far fiorire i mandorli d’inverno, e mandare la neve sui campi di grano
maturo. Alla sua parola il gelo posa il dito argenteo sulla bocca ardente di giugno, e i leoni alati escono
strisciando dalle cavità dei colli della Lidia» (Ibid., pp. 1049-1050).
33
L’utilissimo (e ovviamente immaginario) signor Bunbury è stato inventato da Algernon «allo scopo di
poter andare in campagna» ogni qual volta egli ne abbia voglia. La cattiva salute di questo impareggiabile
personaggio in absentia della drammaturgia wildiana consente dunque di evitare impegni gravosi e dedicarsi,
piuttosto, ai piaceri ameni della vita. E in The Importance of Being Ernest Bunbury acquisisce a pieno diritto
il ruolo di coadiuvante delle tresche sentimentali che hanno luogo tra la doppia coppia di Algernon e Cecily e
John e Gwendolen.
34
Ibid, p. 1047-1048.
14
il bene massimo da possedere e divulgare
35
, e «la Natura di per sé non ha niente da
suggerire»
36
, avendo «buone intenzioni, naturalmente, ma [che] come disse una volta
Aristotele, non sa tradurle in atto»
37
.
Si rovescia, insomma, lo stereotipo classico secondo cui l’Arte imiti la Vita, poiché, per
Wilde, la Natura non potrà mai gareggiare con la perfezione e l’eleganza dell’artificiale. Il
paesaggio naturale verrà sempre guastato da qualche dettaglio inopportuno, stendersi sul
prato verde, per godere della bella giornata, sarà sempre impossibile per via del fastidio
provocato dagli insetti e dalle umide sporgenze del terreno, e il sole al tramonto potrà solo
offrire un Turner di second’ordine, privo di quella naturale (ovvero studiata) grazia che lo
rese uno dei pittori prediletti da Ruskin. E dal momento che nella bibbia dell’estetismo
Huysmans aveva sostenuto che «la nature a fait son temps», Wilde non teme di sostenere
che «l’Arte è la nostra vibrante protesta, il nostro intrepido tentativo di insegnare alla
Natura quale sia il suo posto»
38
.
Anzi, alla fine del dialogo si afferma esplicitamente che nel caso in cui la natura
predisponga uno scenario idoneo, non occorra far altro che «illustrare citazioni di poeti»
39
,
essendo questa l’unica azione veramente degna che possa scaturire dalla contemplazione di
un variopinto imbrunire.
E in The Critic as Artist
40
Wilde contesta il binomio bellezza-verità, ovvero la kalagathia
di ispirazione greca e codificazione rinascimentale, giudicando ridicolo e anacronistico
l’intento di congiungere estetica ed etica.
Ernest e Gilbert, i due personaggi del dialogo, discutono di opere d’arte e del peso che la
critica debba rivestire nell’età moderna, riproponendo, quasi fossero su un palcoscenico, le
riflessioni di Wilde e quella del pubblico borghese.
La maschera che qui lo scrittore indossa è quella del critico orgoglioso di esserlo che,
contrario al rango subalterno che secondo la communis opinio dovrebbe essergli affibbiato,
riscatta la professione dell’intellettuale e del recensore, individuando in sé, piuttosto, una
dose di talento e di maestria maggiore a quella che serva per comporre versi, immaginare
storie o cimentarsi in ambito teatrale.
35
Non a caso, Vivian, portavoce delle dottrine wildiane, ha scritto un lungo articolo per perorare la propria
causa, dal titolo «La decadenza della menzogna: una protesta».
36
Ibid., p. 1042.
37
Ibid, p. 1029.
38
Ibid., pp. 1029-1030.
39
Ibid., p. 1068.
40
Il Critico come artista, 1890.
15
Richiamandosi alla concezione whistleriana
41
che individuava il primo sintomo della
perdita di spontaneità artistica nel proliferare di critici ed esegeti, Wilde dà corpo, in questo
frangente, alla teoria del critico che è già esso stesso artista, ovvero creatore autonomo di
una griglia interpretativa che riesca a sorpassare l’oggetto cui dovrebbe applicarsi. Il vero
critico, per Wilde, è spesso più ardito e creativo dello scrittore di letteratura, è più colto di
un accademico e coltiva un gusto ancora più elitario e raffinato di quello di un dichiarato
estimatore delle belle arti. È di certo autonomo e autosufficiente, poiché non ha bisogno
che qualcun altro componga alcunché, avendo al proprio interno, quasi fosse l’androgino
vagheggiato da Platone e dal neoplatonismo vitale fino agli inizi del Novecento, sia la
vocazione all’affabulazione, sia quella al commento e all’interpretazione.
Dal momento che qualunque stolto può produrre la storia, ma solo un grande uomo può
tramandarla, o, meglio, modificarla, e poiché «chiunque può scrivere un romanzo in tre
volumi. Basta ignorare tutto della vita e della letteratura»
42
, al critico è delegato il compito
che in altri secoli era proprio del poeta: fondare, da legislatore mosso da un impeto
spontaneamente filantropico, una nuova dimensione e nuovi valori. Il Super-uomo di
Niezsche si incarna, in questo saggio, nel critico d’eccezione, il cui linguaggio è adamitico,
nel senso che, con un’impositio nominis, può non solo denominare, ma anche plasmare il
reale.
Il critico che Wilde vagheggia dovrebbe ignorare esplicitamente il reale contenuto
dell’opera su cui è chiamato a soffermarsi, perché la migliore modalità di analisi è la
folgorazione impressionistica e non la fotografia minuziosa del fenomenico. Dovrebbe
evitare di diventare un «misantropo incallito»
43
a furia di soffermarsi sulle parole degli
altri, e attribuire, invece, alla letteratura la stessa funzione propria della vita: essere uno
spunto, un bozzetto preparatorio per la libera e potente creazione di cui il linguaggio è il
principio costitutivo e la malta cementante.
41
Espressa in Ten O’ Clock Lecture. Risale al 1865 l’allontanamento di Whistler da Courbet, prima salutato
dal critico inglese come il rigeneratore della situazione pittorica europea, e, in generale, dall’arte realistica.
Proprio nella conferenza da cui Wilde trasse più d’una suggestione, Whistler si era dichiarato
deliberatamente alieno da qualsiasi implicazione filosofica o politica. Cfr. allora J. M. WHISTLER, Ten O’
Clock Lecture, London, Chatto & Windus, 1888. In relazione all’altalenante rapporto Wilde-Whistler, cfr. Il
ragguardevole razzo, una delle Fiabe wildiane, in cui lo scrittore mette alla berlina le manie di grandezza,
l’egocentrismo e la vanità dell’amico pittore. Sul dandy e il rapporto con le arti grafiche, cfr. G. FRANCI, Il
sistema del dandy: Wilde, Beardsley, Beerbohm. (Arte e artificio nell’Inghilterra fin de siècle), Bologna,
Patron, 1977.
42
The Critic as Artist, in op. cit., p. 1093.
43
Ibid.