2
riferimento, si sono approfonditi nella fase post-bipolare, nella quale la pretesa
di far rientrare, come in una sorta di quadratura del cerchio, fenomeni politici
sempre più chiaramente extra-statuali entro categorie e pratiche che hanno
regolato i rapporti internazionali per più di tre secoli, diventate ormai “troppe
strette”, è divenuta lampante. Persino le istituzioni internazionali sono state
costrette a fuoriuscire dal rispetto di quel diritto, stabilendo la liceità
dell’ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano e la possibilità di
penetrarne i confini con operazioni “umanitarie” nel caso di violazione di
massa dei diritti umani, considerata come un pericolo per l’umanità intera e
introducendo così principi universalistici in netto e distruttivo contrasto con il
particolarismo statuale moderno. Una fuoriuscita che ha molto della pretesa
rilegittimante di una struttura che, in quanto dominata dalle maggiori potenze,
rimane orientata al mantenimento dello status quo internazionale con ogni
mezzo, ma che è gravida di effetti perversi per lo stesso sistema interstatuale
moderno e per l’efficacia del controllo “di polizia” internazionale all’interno
del sistema.
Nelle analisi degli esperti americani questa condizione e questa
necessità traspaiono da diversi anni. I pericoli derivanti dalla turbolenza
internazionale, la natura delle minacce non tradizionali, soprattutto contro i
flussi delle risorse energetiche, il terrorismo in quanto forma irregolare di
guerra per antonomasia, richiedono strumenti nuovi, in grado di regolare con la
forza situazioni di grave frammentazione all’interno di Paesi periferici del
mondo, seppur tale forza venga supportata dalla dottrina (già elaborata nei
primi anni Novanta) “dell’ingerenza umanitaria”. Le motivazioni tradizionali
che imponevano o consentivano alle potenze di intervenire militarmente
appaiono superate nel contesto della frammentazione internazionale
contemporanea: questo accade perché le guerre fra Stati, intese come conflitti
fra eguali, diventano sempre meno presenti ed effettuali, mentre si impongono
interventi motivati o dal diritto alla legittima difesa (ma contro attori sfuggenti
e non –statuali o contro attori statuali – i rogue States – presi a pretesto per
avere di fronte un nemico chiramente individuabile) o dall’ingerenza
necessaria per la turbolenza “interna” ad attori, che minacciano la “stabilità”
della convivenza internazionale.
In questo quadro appare evidente a cosa si riducano i principi cardine
del diritto internazionale: quello plurisecolare di non ingerenza, il rispetto della
sovranità degli Stati, l’inviolabilità dei loro confini, la netta distinzione fra
inside e outside, la non sottoponibilità di uno Stato alla giurisdizione di un altro
( immunità giurisdizionale), l’intangibilità diplomatica dei rappresentanti
ufficiali degli Stati stessi. Paradossalmente questo avviene per garantire la
sopravvivenza del sistema delle relazioni internazionali post-westfaliane
moderne, la loro prevedibilità, la pace e la sicurezza, la cooperazione
internazionale: una sopravvivenza che invece proprio da questi mutamenti
appare come declinante e al tramonto, a causa dell’obsolescenza stessa dei
principi sovranisti sui quali si basa e che fondano l’intero impianto del diritto
internazionale.
Sebbene inizialmente questo scavalcamento del diritto internazionale
sia stato motivato proprio da una controrisposta alla violazione del diritto
internazionale stesso e della Carta dell’Onu da parte di uno dei rogue States
3
(l’Iraq, che aveva aggredito uno Stato sovrano internazionalmente
riconosciuto), dalla Guerra del Golfo in poi il principio giuridico è stato
sistematicamente violato non in risposta a violazioni del diritto internazionale,
ma a violenze interne contro le minoranze, che hanno giustificato l’adozione
del principio “dell’intervento umanitario”, divenuto orami dominante e
autonomo in quanto a forza di legittimazione dell’uso della violenza. Senza
esplicito mandato dell’Onu e in seguito ottenendo un tacito o espresso
consenso, gli interventi all’interno di altri Stati si moltiplicano in base al diritto
di intervenire per “tutelare i diritti” delle popolazioni soggette, garantendo in
tal modo all’ultima superpotenza rimasta il diritto di violare la sovranità degli
Stati e di motivarlo con le ormai largamente legittimanti “ragioni umanitarie”,
usate non a caso da tutte le organizzazioni internazionali, civili e militari, figlie
del periodo bipolare.
Qual è però il contesto nel quale questa crisi epocale si è prodotta e si
approfondisce? Due elementi sembrano centrali nell’evoluzione internazionale
contemporanea e nella crisi del fondamento giuridico della convivenza
interstatuale moderna: l’evidente sforzo egemonico statunitense, ampiamente
teorizzato dai consiglieri dell’Amministrazione della presidenza imperiale a
partire dalla fine del periodo bipolare, sforzo finalizzato a mantenere una
stabilità internazionale gerarchicamente guidata, da una parte e la somiglianza
crescente del mondo a un gigantesco “interno” nel quale far valere la domestic
analogy di marca hobbesiano, con un titolare impietoso della sovranità che
possa dominare i protagonisti di una guerra civile permanente che squassa in
forme molto diversificate (“nuove guerre”, “guerre post – statuali”, “post –
moderne”, di “frammentazione”, rischi non tradizionali, guerriglia, ecc…) e
irriducibili alla guerra interstatuale moderna e tradizionale, dall’altra.
L’esplosione della crisi del diritto internazionale e degli organismi
internazionali, che dura anche oggi approfondendosi di giorno in giorno e che,
rovesciando l’andamento di una storia di alcuni secoli, ha prodotto uno strappo
sempre più largo e non più ricucibile nel suo tessuto dottrinale, è culminata con
l’intervento in Kosovo ed è proseguita con quelli seguiti all’11 settembre 2001.
A partire dall’11 settembre 2001, infatti, il diritto internazionale ha
subito dei forti cambiamenti. La stessa guerra in Iraq non la si può far
prescindere da quella data che ha segnato molte vite umane e anche lo stesso
diritto internazionale. La guerra in Iraq del 20 marzo 2003 non è altro che il
prosieguo della “guerra al terrorismo” avviata contro l’Afghanistan, ritenuto il
“centro decisionale” di una rete che trova i suoi tentacoli in altri Stati tra cui il
vicino Iraq. Con l’11 settembre pezzi interi di diritto internazionale sono stati
spezzati così come le migliaia di vite umane a causa del crollo delle Torri
Gemelle del World Trade Center e delle due guerre successive in Afghanistan e
in Iraq.
Ancora di difficile interpretazione sono gli avvenimenti che 11
settembre 2001: quel giorno ben quattro voli civili americani sono stati dirottati
quasi contemporaneamente, due di questi sono stati lanciati contro le Twin
Towers del World Trade Center di New York a Manhattan radendole al suolo,
un terzo aereo è stato fatto schiantare sul Pentagono a Washington
distruggendone un lato, il quarto è precipitato, esplodendo, in Pennsylvania
vicino la città di Pittsburgh. Dopo aver raccolto prove, esibite in seno alla Nato
4
e tuttora coperte dal Segreto di Stato, sulla responsabilità di quanto accaduto a
carico del mandatario saudita Osama Bin Laden, capo dell’organizzazione
fondamentalista islamica Al Quaeda che ha in Afghanistan le sue basi
principali e i suoi centri di addestramento per i terroristi kamikaze e dopo aver
accertato la protezione che il regime afgano dei Talebani riserva a questa
organizzazione ed ad Osama Bin Laden in particolare, è scattata, il 7 ottobre
2001, la reazione degli Stati Uniti.
La reazione armata è giustificabile dagli Stati Uniti come legittima
difesa individuale e collettiva ed è proprio a tal proposito che gli Stati Uniti
stessi hanno fatto appello all’art. 5 della Nato per coinvolgere i paesi alleati
nella guerra ormai scatenata contro i terroristi e gli Stati che li hanno protetti o
finanziati. Ancora, la giustificazione della reazione americana dopo l’11
settembre 2001 è data dal fatto che l’attacco terroristico è stato sicuramente
portato a termini da individui che hanno dirottato gli aerei uccidendo il
personale di bordo; è stato un attacco non certo isolato e concluso da una sola
persona che potrebbe rientrare tra le ipotesi di aggressione armata.
All’indomani dell’11 settembre si è parlato di “silenzio del diritto” o
meglio di “silenzio dei giuristi”.
Terminato tale silenzio una serie di dibattiti, di interventi si sono
sollevati proprio sul ruolo del diritto internazionale, sulle scelte delle azioni da
intraprendere per combattere un terrorismo pronto ad agire così violentemente,
per punire i criminali artefici degli attentati e per prevenire la ripetizione di atti
inumani di una simile portata
2
.
Il dibattito si è concentrato proprio su una delle novità, sicuramente una
tra le più importanti conquiste, del diritto internazionale contemporaneo, cioè il
divieto dell’uso della forza nei rapporti tra Stati.
Ma prima di arrivare al cuore del problema, due esperti di diritto
internazionale (Picone e Quadri) tendono a fare delle precisazioni.
Nella sua analisi Picone
3
sostiene che, la vera trasformazione nel diritto
internazionale, si è avuta col formarsi, a partire dagli inizi degli anni Settanta,
della categoria delle norme internazionali generali produttive di obblighi “erga
omnes” degli Stati cioè di obblighi incombenti sugli Stati nei confronti della
stessa Comunità Internazionale, unitariamente intesa, ed “esigibili”
collettivamente dagli stessi (soprattutto quando la loro violazione dia vita ad un
crimine internazionale), in quanto questioni uti universi degli interessi della
Comunità medesima.
Gli obblighi erga omnes presentano delle caratteristiche: essi risultano
“indisponibili” da parte degli Stati stessi e cioè nel senso che questi ultimi non
potrebbero “delegarne” in via definitiva e generale la questione ad una
qualsivoglia Organizzazione Internazionale, anche se del peso e del grado di
“rappresentatività” delle Nazioni Unite.
2
CONDORELLI, Les attentats du 11 septembre et leurs suites: ou va le droit international?
Revue generale de droit international public 2001,p.829 ss
3
PICONE PAOLO, La guerra contro l’Iraq e la degenerazione dell’unilateralismo, Revue
Generale de Droit international public 2003, p. 333 ss.
5
Quadri invece distingue tra rappresaglia, che è propria degli Stati lesi
uti singuli per la tutela dei propri diritti e l’intervento che, invece, abbraccia
l’intera Comunità Internazionale.
Gli Stati uti universi agiscono come gestori dell’ordinamento giuridico
internazionale, e la Comunità Internazionale, attraverso l’intervento, agisce sia
a garanzia dell’ordine giuridico violato sia nella creazione di un ordine
giuridico nuovo; l’intervento è pertanto una categoria generale che comprende
anche l’istituto della guerra sia intesa all’instaurazione di un ordine giuridico
nuovo sia mirante all’attuazione di quello esistente
4
.
A questo punto ci si chiede se l’uso della forza, nelle due situazioni
sopra citate, possa essere posto sullo stesso piano o sia bene invece rilevare
come, nell’intervento in Iraq, non solo la Comunità internazionale ha agito
senza l’avallo del Consiglio di Sicurezza, ma soprattutto ha agito
unilateralmente, ponendo qualche dubbio circa la legittimazione del conflitto
iracheno.
Per un'attenta e approfondita analisi della questione sarà necessario
analizzare il diritto internazionale generale e la Carta delle Nazioni Unite circa
gli aspetti che riguardano il limite all’uso della forza all’interno della Comunità
internazionale.
4
SERRAINO ANDREA, Uso della forza armata a fini diversi dalla legittima difesa, 2001 p. 9
ss.
6
1.1 DIVIETO DELL’USO DELLA FORZA NELLA CARTA DELLE
NAZIONI UNITE.
Conclusa la Seconda guerra mondiale, gli Stati fondatori delle Nazioni
Unite stabilirono, già nel preambolo della Carta, che bisognava: “…salvare le
future generazioni dal flagello della guerra che per due volte nel corso di
questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità…”.
L’art. 1 par. 1 della Carta delle Nazioni Unite non pone dubbi circa lo
scopo principale delle Nazioni Unite: “mantenere la pace e la sicurezza
internazionale”, ed a questo fine: “prendere efficaci misure collettive per
prevenire e rimuovere le minacce alla pace e per reprimere gli atti di
aggressione o altre violazioni della pace…”.
La Carta delle Nazioni Unite a differenza del Convenant (della Società
delle Nazioni) non si è limitata a vietare la guerra ma ha preferito bandire l’uso
della forza, evitando così ambigue interpretazioni del termine.
La norma che vieta l’uso della forza armata è l’art.2 par.4 della Carta
che così recita: “I Membri (dell’Organizzazione) devono astenersi nelle loro
relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro
l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in
qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite”.
E’ evidente come tale divieto non colpisce soltanto il ricorso alla guerra
ma ammette un limite ancor più generale circa l’uso e la minaccia della forza
medesima.
A tale obbligo, al fine di collegare tale disposizione agli scopi
dell’Organizzazione sanciti nell’art.1, alcuni autori affiancano anche quanto
stabilito dal par.3 dello stesso art.2:
“I Membri devono risolvere le loro controversie internazionali con
mezzi pacifici, in maniera che la pace e la sicurezza internazionale, non siano
messe in pericolo”.
È la stessa Assemblea Generale dell’ONU che il 18 novembre 1987 in
una dichiarazione stabilisce che l’obbligo previsto dall’art. 2 par. 3 è
“inseparable” dal divieto del ricorso alla minaccia o all’uso della forza nelle
relazioni internazionali.
È facile pertanto intuire quanto ampio sia il divieto stabilito dalla Carta
soprattutto in considerazione delle altre numerose norme che sviluppano tale
divieto e ne considerano le eccezioni.
Alcuni studiosi, poi, avanzano una nuova distinzione tra le disposizioni
concernenti l’uso della forza, che riguardano gli Stati individualmente
considerati da quelle riguardanti il sistema di sicurezza collettivo che fa capo al
Consiglio di Sicurezza
5
.
Al primo gruppo appartengono, ovviamente, l’art.2 par.4, che sancisce
appunto il divieto generale di usare la forza nelle relazioni internazionali, le
relative eccezioni che hanno per oggetto la legittima difesa individuale e
collettiva (art.51) e le azioni contro Stati ex nemici (art.107).
Al secondo gruppo invece fa riferimento l’intero capitolo VII della
Carta.
5
SERRAINO op. cit. p. 13 ss.
7
Il sistema di sicurezza collettivo, previsto dalla Carta dell’ONU, è
sicuramente più avanzato del sistema di garanzia istituito dal Convenant della
Società delle Nazioni.
In base all’art. 39 della Carta, infatti “il Consiglio di Sicurezza accerta
l’esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace, o di un atto
di aggressione…” ed in seguito può non solo fare raccomandazioni o decidere
misure non implicanti l’uso della forza (art. 41) ma intraprendere, se le misure
previste dall’art. 41 risultano inadeguate, con forze aeree, navali, o terrestri
“ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la
sicurezza internazionale…” (art. 42).
L’art. 42 consente infatti l’uso di misure militari non solo quando quelle
di cui l’art. 41 si siano dimostrate inadeguate (e quindi siano inutilmente
adottate) ma anche quando il Consiglio le giudichi insufficienti in
considerazione della gravità della situazione. Spetta comunque al Consiglio di
Sicurezza decidere l’adeguatezza o meno delle misure adottate o adottabili ai
sensi dell’art. 41
6
.
Qualora il Consiglio di Sicurezza sia impossibilitato a prendere una
decisione in tal senso, cioè impossibilitato a condurre direttamente operazioni
di polizia internazionale, porre fine a delle azioni di minaccia o violazioni della
pace o ad atto di aggressione o a stipulare accordi con gli Stati membri,
destinati a porre a sua disposizione per necessità “forze aeree, navali e
terrestri” allora si afferma la prassi dell’autorizzazione agli Stati dell’uso della
forza da parte dello stesso. Tale prassi per Picone rappresenta l’elemento di
maggiore trasformazione “istituzionale” che si è avuto a partire già con la
prima azione contro l’Iraq.
A tal proposito la Carta prevede anche la possibilità di fare ricorso ad
organizzazioni internazionali cui delegare il compito di eseguire azioni
coercitive sempre però sotto la direzione del Consiglio di Sicurezza (art. 53).
6
PICONE PAOLO op. cit. p. 339
8
1. 2 IL CARATTERE COGENTE DEL DIVIETO DELL’USO
DELLA FORZA POSTO DALL’ ART . 2 P. 4.
Soffermandoci sulle disposizioni del primo gruppo, l’art. 2 par. 4
appare di notevole importanza la sentenza emessa dalla Corte internazionale di
Giustizia il 27 giugno del 1986 in merito all’affare delle attività militari e
paramilitari in Nicaragua e contro di esso, nella quale essa ha stabilito che il
divieto enunciato dall’art. 2 p. 4 della Carta abbia ormai valore di norma di
diritto internazionale generale, valevole pertanto per tutti gli Stati e non solo
per gli Stati membri dell’ONU.
La stessa Dichiarazione del 1987, sopra richiamata, ha riconosciuto al
divieto, carattere di norma “universale”. Il divieto è qualificato così come
principio fondamentale o essenziale del diritto internazionale generale e
indicato come l’esempio maggiore di norma di jus cogens.
In più la Commissione di diritto internazionale ha considerato
l’aggressione, che concreta la violazione più grave del divieto in parola, un
esempio tipico di “crimine internazionale”.
In merito alla definizione di aggressione la ris.n.3314 del 14 dicembre
1974 precisa che, come tale deve intendersi, vi sia stata o meno dichiarazione
di guerra, uno qualsiasi degli atti seguenti
7
:
a) l’invasione o l’attacco del territorio di uno Stato da parte delle forze
armate di un altro Stato, o un’occupazione militare, anche temporanea,
risultante da una tale invasione o da un tale attacco, o un’annessione con
l’impiego della forza del territorio o di una parte del territorio di un altro Stato;
b) il bombardamento, da parte delle forze armate di uno Stato, del
territorio di un altro Stato, o l’impiego di qualsiasi arma da parte di uno Stato
contro il territorio di un altro Stato;
c) il blocco dei porti o delle coste di uno Stato da parte delle forze
armate di un altro Stato;
d) l’attacco da parte delle forze armate di uno Stato contro le forze
armate terrestri, navali o aeree, o la marina e l’aviazione civili di un altro Stato;
e) l’utilizzazione delle forze armate di uno Stato che sono stanziate sul
territorio di uno Stato con l’accordo dello stato ospite, in violazione delle
condizioni previste nell’accordo o un prolungamento della loro presenza sul
territorio in questione al di là della scadenza dell’accordo;
f) il fatto che uno Stato consenta che il suo territorio, che ha messo a
disposizione di un altro Stato, sia utilizzato da quest’ultimo per perpetrare un
atto di aggressione contro uno Stato terzo;
g) l’invio da parte di uno Stato o in suo nome di bande o di gruppi
armati, di forze irregolari o di mercenari che si dedicano ad atti di forza armata
contro uno Stato di tale gravità che si equivalgono agli atti sopra enumerati, o il
fatto di impegnarsi in maniera sostanziale in una tale azione”.
Un’altra risoluzione dell’Assemblea Generale, la ris.n.2625 del 24
ottobre 1970, nell’approvare la dichiarazione relativa ai principi di diritto
internazionale concernenti i rapporti amichevoli e la cooperazione tra Stati, in
conformità alla Carta delle Nazioni Unite, aveva già definito il ricorso alla
7
SERRAINO op. cit. p. 20 ss.
9
minaccia o all’impiego della forza una violazione del diritto internazionale e
ulteriormente stabilito che la guerra di aggressione costituisce un crimine
contro la pace, che determina una responsabilità di diritto internazionale.
Secondo tale risoluzione gli Stati devono astenersi da atti di
rappresaglia implicanti l’uso della forza, come pure dall’organizzare o
incoraggiare forze irregolari, in particolare bande di mercenari, in vista di
incursioni sul territorio di altri Stati di guerra civile o atti di terrorismo. Le
stesse acquisizioni territoriali ottenute con la minaccia o l’impiego della forza
sono considerate illegittime.
Ancora la Dichiarazione del 1987 sul rafforzamento dell’efficacia del
principio dell’astensione dalla minaccia o dall’uso della forza nelle relazioni
internazionali, stabilisce due importanti assunti al n. 21 e al n. 3. Al n. 21
prevede come il divieto in esame, vincola “indipendentemente dal sistema
politico, economico, sociale e culturale proprio di ciascuno Stato e dalle sue
alleanze” e al n. 3 che “nessuna considerazione, di qualsivoglia natura, può
essere addotta per giustificare il ricorso alla minaccia o all’uso della forza in
violazione della Carta delle Nazioni Unite”.
Nella prima disposizione citata viene rilevata la comune opinione circa
l’inammissibilità di trattati che individuano nell’esigenza di evitare mutamenti
interni o alterazioni nei rapporti di alleanze internazionali una giustificazione
del ricorso alla forza, mentre, nella seconda disposizione, viene sottolineata la
preminenza riconosciuta dalla Comunità internazionale alla norma di
comportamento in discorso.
Rilevante è anche l’importanza che un’autorevole dottrina riserva al
divieto della minaccia e dell’uso della forza soprattutto alla luce della citata
sentenza nel caso delle attività militari e paramilitari contro il Nicaragua
8
che,
ricordiamo, ha riconosciuto valenza di jus cogens al principio che vieta il
ricorso alla forza; tale disposizione farebbe da argine all’autotutela, cioè il
“farsi giustizia da sé”, intesa come normale reazione all’illecito internazionale.
Se nel diritto interno l’autotutela è ammessa solo entro certi limiti, poiché è
considerato un fatto eccezionale, nell’ambito del diritto internazionale, dove
comunque manca un sistema accentrato di garanzia di attuazione delle norme, è
la regola; avendo fatto rientrare nel diritto consuetudinario e avendo
riconosciuto il carattere cogente di quanto appunto stabilito dall’art.2 par. 4,
l’autotutela, fuori dalle ipotesi della legittima difesa, non può consistere nella
minaccia o nell’uso della forza.
La guerra non è più, come considerata in passato, uno strumento per la
risoluzione delle controversie tra Stati. Qualora dovessero nascere contrasti che
possono pregiudicare la pace e la sicurezza internazionale il ricorso deve essere
diretto a mezzi pacifici concordemente scelti dagli Stati e ciò è stabilito da
un’altra fondamentale norma della Carta, l’art.33 par.1 il quale prevede che:
“le parti di una controversia, la cui continuazione sia suscettibile di
mettere in pericolo il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale,
devono, anzitutto, perseguire una soluzione mediante negoziati, inchiesta,
mediazione, conciliazione, arbitrato, regolamento giudiziale, ricorso ad
organizzazioni o accordi regionali, o altri mezzi pacifici di loro scelta”.
8
Attività militari e paramilitari in Nicaragua e contro di esso , in C:I.J Recueil , 1986
10
Il divieto sancito dall’art. 2 par.4 della Carta vincola non solo gli Stati
membri dell’ONU, ma anche tutti gli Stati, in quanto ormai norma
consuetudinaria.
In più la Corte Internazionale di Giustizia, nell’affare sulle attività
militari e paramilitari in Nicaragua, del 27 giugno 1986, ha riconosciuto alla
norma, non solo il rango di norma appartenente al diritto internazionale
consuetudinario e, in quanto tale, vincolante tutti gli Stati, ma anche
riconosciuto alla disposizione in esame valore di jus cogens.
È la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 23 maggio 1969 a
dare una definizione astratta e indeterminata dello jus cogens in relazione alla
invalidità degli accordi internazionali.
Secondo il relativo art. 53 “ (è) una norma imperativa del diritto
internazionale generale, una norma accettata e riconosciuta dalla Comunità
Internazionale degli Stati nel suo insieme, come norma alla quale non è
permessa alcuna deroga e che può essere modificata soltanto da una nuova
norma del diritto internazionale generale avente lo stesso carattere”.
La dottrina, pur condividendo i dubbi di carattere “redazionale”
dell’art.53, tenta di individuare tale gruppo di norme facendo leva sull’art. 103
della Carta delle Nazioni Unite il quale afferma che:”in caso di contrasto tra gli
obblighi contratti dai Membri delle Nazioni Unite con la presente Carta e gli
obblighi da essi assunti in base a qualsiasi altro accordo internazionale
prevarranno gli obblighi derivanti dalla presente Carta”. Il rispetto dei principi
della Carta è considerato ormai una delle regole fondamentali della vita di
relazione internazionale, infatti gli Stati, pur non essendo sempre stati leali
verso gli organi dell’ONU, non hanno mai messo in discussione l’intangibilità
e la superiorità dei principi contenuti nella Carta stessa.
Nell’analisi dell’art. 2 par. 4 si evidenzia che il divieto vincola gli Stati
individualmente considerati.
L’articolo, infatti, si riferisce espressamente ai “Membri”
dell’Organizzazione. Se poi si considera il carattere cogente acquisito dalla
norma è conseguenza naturale che “ogni” stato deve astenersi, nelle sue
relazioni internazionali, dalla minaccia e dall’uso della forza armata.
Sembra che l’intenzione dei fondatori dell’ONU sia stata quella della
messa al bando in generale dell’uso della forza da parte degli Stati e la stessa
incompatibilità con i fini delle Nazioni Unite manifesta l’intento di dare
completezza al divieto.
In altri termini l’art.2 par. 4 pone un divieto di carattere assoluto e ogni
tentativo di limitarne la cogenza cade di fronte ad una attenta analisi ed
interpretazione. Gli stessi tentativi di vincolare la limitazione sancita dalla
Carta al sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite, affermando che
l’art. 2 par. 4 pone un divieto assoluto nella misura in cui il sistema funzioni,
non sono accettabili; infatti in tal caso gli Stati sarebbero liberi di ricorrere a
forme di autotutela ammissibili prima dell’entrata in vigore della Carta.