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È difficile definire la natura della stanchezza e la sua
differenziazione da altri disordini della sfera radicale. In queste
condizioni le cause attribuite per giustificarla restano molte e
discordanti (virus, patogeni, nematodi, carenze nutrizionali,
collasso della struttura del suolo, tossine, ecc.), creando
disordine ed incomprensioni.
La stanchezza del terreno definisce le condizioni di uno
specifico disordine dell’assetto saprofitico del suolo, legato a
vari fattori, tra cui:
alterazioni del metabolismo dei residui organici colturali. La
stanchezza d'origine metabolica si accompagna ad effettori
(fattori e condizioni) quali la semplificazione della biodiversità
(monocoltura, distruzione delle reti bioniche) (Zucconi, 1997) e
della sostanza organica nel suolo; si accompagna soprattutto
alla riduzione dell’umificazione ed in parte anche all’impatto
che su di essa esercitano i biocidi (pesticidi, fumigazioni, ecc.).
Il parassitismo trova nella monocoltura e negli antiparassitari il
massimo fattore causale, ed in parte anche nel danno arrecato
alla rizosfera da elevate concimazioni minerali, in assenza di
humus.
L’impoverimento nutrizionale è legato alla riduzione degli
apporti organici e dell’umificazione, con incremento della
mineralizzazione e conseguente riduzione dei livelli degli
elementi nutrizionali per lisciviazione.
Infine, il collasso della struttura del suolo dipende direttamente
dalla mancanza di humus, oltre a risentire dell’effetto negativo
delle concimazioni sui reticoli cristallini dei colloidi minerali.
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Gli effettori coinvolti ruotano intorno alla stessa umificazione
(Tab.1).
RIDUZIONE
DELLA
UMIFICAZIONE
ALTERATA
MINERALIZZAZIONE
APPORTO DI
BIOCIDI
RIDUZIONE
DELLA
BIODIVERSITA’
CONCIMAZIONE
MINERALE
RIDUZIONE
DELLA
SOSTANZA
ORGANICA
Tab.1 Relazione tra effettori del declino biologico del suolo
1.2 Eziologia della stanchezza
La stanchezza si espande ed aumenta di complessità in tempi
recenti, in parallelo alla specializzazione produttiva e
all’intensificarsi dei mezzi colturali che caratterizzano
l’agricoltura moderna. A differenza di altre alterazioni dello
sviluppo, nella stanchezza mancano gli elementi diagnostici
rigorosi e di una comprensione degli effettori responsabili. Ne
consegue che anche i mezzi di cura restano approssimativi,
raramente efficaci o efficaci per ragioni non spiegate (si pensi
alla rotazione o al terreno fresco in buca). Gli elementi carenti
in quest’analisi sono molti, impedendo di delineare le relazioni
generali tra componenti fisiche e biologiche del suolo
(vegetazionali, cenosiche, saprofitiche), e le risultanze che ne
emergono (risorse, equilibri, omeostasi).
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In mancanza di una tale comprensione non sappiamo
distinguere tra alterazione nutrizionali, parassitarie od
allelopatiche, in suoli biologicamente degradati; né dire quali
siano rapportabili alla stanchezza e quali implichino altri
fenomeni o complicanze. È difficile da osservare la condizione
di partenza che genera quest’alterazione del suolo, ciò perché,
in molti casi di declino del suolo, restano latenti quando cercate
sulle colture, o peraltro confusi con più generiche variazioni
dello sviluppo. È pertanto necessario discriminare tra le
condizioni esistenti nel suolo rispetto al loro impatto sulla
pianta. Si tratta di un problema che si riflette anche
nell’esigenza di una terminologia più coerente con l’esistenza
di una relazione causale tra stanchezza (condizione necessaria)
e manifestazione sulla pianta (effetto). Il problema è in realtà
più sottile, nel senso che l’esistenza di un suolo malato
rappresenta una condizione necessaria ma non sufficiente
affinché la stanchezza di manifesti sulle piante (Zucconi e
Monaco, 1987). Al contrario, la mancanza di manifestazioni,
peraltro relativa anche alla nostra capacità d’osservazione, non
è sufficiente a decretare l’assenza del problema. La realtà è che
solo in alcuni casi le piante soffrono in suoli malati e, quando
lo fanno, ciò è dovuto al fatto che ulteriori fattori concorrono al
disadattamento radicale.
La condizione di degrado del suolo tuttavia resta anche quando
non si evidenzia sulla pianta, o quando si manifesti in
condizioni diverse dall’autosuccessione.
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1.2.1 Ipotesi nutrizionale
Zucconi (1996) indica che l’ipotesi, secondo la quale
l’autoinibizione è determinata da un impoverimento
nutrizionale specifico del suolo indotto dalle varie specie,
richiede almeno due assunzioni di base:
a) l’esauribilità degli elementi nutritivi nell’arco temporale
del ciclo vitale delle specie;
b) la specie-specificità degli assorbimenti minerali tale da
indurre carenze e/o squilibri nutrizionali di intensità tale
da causare morte per alcune specie e buono sviluppo per
le altre.
L’autore mostra come entrambi gli assunti sono negati dagli
studi sperimentali in campo agrario, il primo in quanto
l’impoverimento nutrizionale del suolo, nella maggior parte dei
casi, è solo temporaneo e il livello dei nutrienti in forma libera
ritorna rapidamente ai livelli originari attraverso l’equilibrio di
scambio con le frazioni insolubili, una volta cessato
l’assorbimento attivo; il secondo per la mancanza di specificità
così nette fra le specie nell’assorbimento minerale dei nutrienti
e nella loro composizione chimica.
L’ipotesi inoltre prevede che l’autoinibizione sia superabile
attraverso l’apporto di nutrienti che reintegrino le eventuali
carenze e/o squilibri. Infine, in tale caso, le carenze nutrizionali
dovrebbero essere rilevabili in campo attraverso le analisi del
suolo. Nuovamente le testimonianze sperimentali dal campo
agrario mostrano come la concimazione spesso non abbia
effetto o come questo sia molto limitato e, al contrario, le
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colture non soggette a stanchezza si avvantaggino in maniera
superiore della concimazione.
Zucconi (1996) indica che il problema non sta nella presenza
dei nutrienti ma nella loro biodisponibilità e discrimina fra le
due indicando con “trofismo” la capacità di utilizzare i nutrienti
in relazione alle condizioni allelopatiche ambientali. A
conferma porta l’esempio dell’idroponica, dove il semplice
riequilibrio della soluzione non basta per superare la
stanchezza. Zucconi (1996), attraverso il confronto fra
assunzioni, previsioni dell’ipotesi ed etologia della stanchezza,
dimostra come l’ipotesi nutrizionale abbia una ridotta coerenza
e capacità di spiegare i fenomeni osservati in campo agrario.
Fra i punti maggiormente critici per l’ipotesi c’è il fatto che la
stanchezza sia aumentata e non ridotta con l’apporto di residui
della stessa coltura (che rappresenta un aumento dei nutrienti),
una pratica teoricamente in grado di rapportare tutti gli elementi
“specifici” assorbiti. Inoltre, la stanchezza è presente anche
nelle aree di suolo precedentemente utilizzate dalle radici e non
più sfruttate attivamente dalle radici vive (cavità radicale),
quindi non attivamente depauperate di nutrienti, e dove,
attraverso le analisi del suolo, non si rilevano carenze
nutrizionali.
1.2.2 Ipotesi parassitaria
L’ipotesi parassitaria ha come assunto di base che la
monocoltura, o l’elevata densità in condizioni naturali,
determini, attraverso diversi meccanismi, la diffusione e
l’aumento della pericolosità di patogeni, parassiti o predatori.
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Tale assunto è supportato da una vasta gamma di studi
sperimentali e modellistici che mostrano come tale omogeneità
nella distribuzione spaziale e nell’abbondanza degli ospiti possa
facilitare lo sviluppo e la dispersione dei parassiti.
Secondo assunto dell’ipotesi è che i patogeni e/o parassiti siano
caratterizzati da un’attività trofica verso gli ospiti altamente
specie-specifica, tale da giustificare la elevata specificità della
stanchezza. I supporti sperimentali più forti dal campo agrario a
tale ipotesi sono essenzialmente due:
a) abbondante e diffusa presenza, sulle radici di piante che
mostrano il fenomeno, di patogeni e/o parassiti , in
particolare di funghi e nematodi;
b) il fenomeno è superabile, almeno nel breve periodo,
attraverso la fumigazione (sterilizzazione) del terreno che
elimina i parassiti terricoli.
Zucconi (1996) rileva che in agricoltura nove ricercatori su
dieci indicano nei parassiti la causa del fenomeno della
stanchezza del terreno proprio a causa dei punti a) e b). L’autore
indica anche come entrambi i punti siano coerenti con i
comportamenti della stanchezza solo ad una analisi superficiale
del fenomeno. Infatti:
a) i patogeni e/o parassiti, anche se spesso presenti,
compaiono in associazioni di volta in volta differenti e
questo è relativamente incoerente con una sintomatologia
abbastanza costante ed aspecifica a livello di parte aerea;
inoltre, nella maggior parte dei casi si tratta di patogeni
polifagi ad ampia diffusione, carattere incompatibile con
la elevata specie-specificità del fenomeno;
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b) l’efficacia della sterilizzazione è proporzionale al suo
spettro di azione; i prodotti specifici (nematodicidi,
fungicidi, battericidi) hanno solo una limitata azione
positiva, mentre le sterilizzazioni, non selettive e con
ampio spettro di azione, sono le più efficaci; questo
comportamento è incoerente con la specificità del
fenomeno; inoltre, risulta non spiegabile come le
sterilizzazioni siano efficaci anche localizzate (non
eliminano i parassiti nel suolo adiacente i quali possono
ricolonizzare in breve tempo l’area di suolo sterilizzata);
inoltre, la nuova pianta in caso di reimpianto è in grado di
usare il suolo non sterilizzato senza mostrare danno).
Inoltre, l’ipotesi parassitaria non spiega come la stanchezza sia
inducibile con residui aerei e radicali, anche sterilizzati negli
esperimenti (Zucconi, 1996). Infine, l’effetto delle
sterilizzazioni è transitorio e nelle sterilizzazioni condotte su
suoli per specie agrarie è stato rilevato che perdono di efficacia
dopo alcuni anni anche se reiterate.
Questo insieme di evidenze suggerisce che nell’agroecosistema
la proliferazione dei parassiti radicali possa essere, più che
altro, una conseguenza della stanchezza, che può anche
aggravarne gli effetti.
Zucconi (1996) sostiene che la stanchezza sia causata da altri
fattori e che questa situazione di inospitalità del suolo induca un
generale indebolimento della pianta che la renderebbe
maggiormente suscettibile ad attacchi dei parassiti. Tale ipotesi
è in parte sostenuta anche da altri autori (Chou, 1986).
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1.2.3 Ipotesi tossinica
La teoria tossinica associa la stanchezza alla presenza nel
terreno di molecole organiche tossiche (fitotossiche) che,
derivate dalla presenza di una precedente coltura, sarebbero in
grado di influire negativamente sulla seguente. Questa ipotesi
appare solo approssimativamente coerente con l’esistenza delle
allelopatia in natura.Tuttavia per questa teoria esiste un campo
teorico in cui può essere indagata. Questo è costituito dalle
allelopatie che controllano mediante messaggi chimici
(allelosostanze) le relazioni tra piante della stessa specie o di
specie diverse; inoltre, lo fanno con un elevato grado di
discriminazione e, se non di specificità in senso assoluto, per lo
meno sulla base di precise gerarchie di affinità-disaffinità.
1.2.3.1 L’ordine allelopatico.
Nella maggior parte degli studi effettuati sulle allelopatie,
relativi sia ai FAS (fattori allelopatici secondari)che ai FAP
(fattori allelopatici primari), queste sono viste come dei
meccanismi essenzialmente di inibizione che un individuo di
una certa specie utilizza verso i conspecifici e/o gli
eterospecifici con l’obbiettivo di ridurne l’effetto competitivo
(Muller, 1969; Rice, 1984).
Zucconi (1996) propone un modello sulla struttura delle
comunità vegetali che pone al centro della loro organizzazione i
FAS con funzione di segnali. In questo modello le differenti
specie formano un dipolo in relazione alle loro specifiche
sensibilità ai FAS, con specie che risultano tendenzialmente
affini (epatiche) e specie tendenzialmente disaffini (dispatiche)
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ai residui di una certa specie. Tali sensibilità, specie-specifiche
alla marcatura del suolo determinata dai FAS, porta ad effetti di
attrazione e/o repulsione fra piante con il risultato che in
comunità, dove tale interazione è potuta avvenire per un tempo
sufficiente, si arriva alla formazione di un corteggio
(associazione) di specie particolari (Zucconi, 1996). Questo tipo
di organizzazione ha riflessi sia sulla struttura, quindi sulla
disposizione spaziale e temporale delle piante in seno alla
comunità, sia sulla funzionalità della comunità come la
produttività, l’efficienza nell’uso delle risorse e l’umificazione.
Relativamente alla struttura spaziale, il modello prevede che
queste forze possano determinare un relativo avvicinamento
delle specie epatiche ed un di stanziamento fra specie
xenofobiche e fra conspecifici causa aupatie, cioè la sofferenza
indotta dai propri residui e da quelli dei conspecifici. Tale
organizzazione spaziale permetterebbe ad ogni specie di essere
circondata da specie eupatiche che teoricamente favoriscono il
riciclo efficiente della sostanza organica attraverso una
maggiore efficienza dell’umificazione e una riduzione dei
patogeni in comune tra specie.
Zucconi (1996) ipotizza che tale organizzazione comporti nel
complesso una maggiore efficienza nell’uso dello spazio e delle
sue risorse in questo contenute, dal punto di vista dell’intera
cenosi. In questa visione, la cenosi è vista come il sovrasistema
dotato di proprietà emergenti, le quali sono negate ai singoli
elementi (gli individui delle singole specie) che la compongono.
Il modo in cui funziona complessiva la comunità è quindi la
risultante di un’azione di cooperazione fra piante superiori e fra
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queste e i microrganismi saprofitici nell’effettuare funzioni
complementari fra loro e in parte precluso ai singoli.
In questo quadro complessivo, le allelopatie non sono più viste
come un elemento di esclusiva inibizione ma come un fattore
che fa parte dell’organizzazione della comunità vegetale in
quanto fonte di informazione per le differenti specie, capace di
ottimizzarne la distribuzione e l’utilizzazione del territorio. Il
modello sostiene che esistano delle sensibilità specie-specifiche
ai FAS e che queste sensibilità siano alla base
dell’organizzazione della comunità. Tale specie-specificità può
essere determinata da :
1. differente sensibilità delle specie ai FAS;
2. diversa capacità di acclimatamento delle specie ai FAS.
Il modello dell’ordine allelopatico effettua una serie di
previsioni sulla struttura, sulla dinamica e sulla biodiversità
delle comunità vegetali. La maggior parte delle previsioni
vengono effettuate in relazione al concetto di autopatia, poiché
questa è una caratteristica relativamente comune delle specie
che possono variare nel loro grado di autoinibizione (Zucconi,
1996). Al contrario, la sensibilità delle varie specie ai FAS di
un’altra specie (xenofilia, xenofobia) non è prevedibile senza
una precedente sperimentazioni (Zucconi, 1996). Risulta quindi
problematico effettuare delle previsioni di carattere generale in
base a tali sensibilità.
1.2.3.2 La specie-specificità dell’autoinibizione
Una delle condizioni necessarie del modello di simulazione
presentato è che la l’autoinibizione sia altamente specie-
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specifica. Zucconi (1996), attraverso una serie di esperimenti
propri e dalla letteratura, mostra che per numerose specie
arboree (Malus spp., Prunus persica, Prunus avium, Pirus
communis ecc.) ed erbacee di interesse agrario, sebbene
l’inibizione in monosuccessione risulti spesso intensa nei
confronti dei conspecifici (autoinibizione), in numerosi casi lo è
anche su alcuni eterospecifici (xenofobia). Purtroppo, anche se
la maggior parte degli studi relativi agli agroecosistemi
confronta diverse specie contemporaneamente, queste quasi mai
sono specie coesistenti in maniera naturale. Tali studi, quindi,
anche se mostrano l’esistenza di un’elevata specie-specificità
del fenomeno, sono però di limitata utilità per la comprensione
dell’effetto di tali differenti sensibilità nel determinare
l’organizzazione delle cenosi naturali.
L’autotossicità, è anche coinvolta nella stanchezza del terreno
(Rice, 1984; Singh et al., 1999). Solo poche specie vegetali
hanno una forte attività allelopatica: erba medica (Medicago
sativa L.) (Xuan et al., 2002), asparago (Asparagus officinalis
L.) (Young, 1986), grano saraceno (Fagopyrum esculentum
Moench) (Tsuzuki, 2001), veccia villosa (Vicia vilosa L.) (Fujii,
2001), kava (Piper methysticum L.) (Xuan et al., 2003a),
trifoglio rosso (Trifolium pratense L.) (Katznelson, 1972), taro
(Colocasia esculenta Scott) (Tsuzuki et al., 1995) e fagiolo
vellutato (Mucuna pruriens) (Fujii, 2001). Negli ultimi anni, si
è verificato un aumento mirato sulle prospettive di sfruttare
l’allelopatia non solo per la gestione delle infestanti, ma anche
per il controllo di patogeni e insetti. Le infestanti possono
essere controllate sia coltivando una specie con l’abilità di
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rilasciare allelochimici, sia incorporando residui vegetali con un
alto contenuto di allelochimici nel suolo (Elijarrat & Barcelo,
2001). L’erba medica, per esempio, può fortemente inibire la
crescita del risone infestante mentre pellets di erba medica,
quando applicati in campi di risone a 1-2 t/ha, causano una
significativa riduzione di infestanti senza nessun disturbo alle
colture (Xuan et al., 2002).
1.2.3.3 I fattori allelopatici primari (FAP)
Le piante sono in grado di modificare l’ambiente ipogeo e la
superficie del suolo attraverso un’azione diretta ed attiva del
vegetale, con l’emissione di fattori allelopatici primari o FAP.
Un esempio è l’emissione di H
+
per favorire l’assorbimento di
NH
4
+
o quello di Fe e altri elementi in condizioni di pH
sfavorevoli. Numerose specie, fra cui Oriza sativa, sono in
grado di elevare il potenziale ossidoriduttivo nelle aree
adiacenti le radici assorbenti, attraverso la diffusione di O
2
in
condizioni di anaerobiosi. In condizioni di particolari carenze
nutrizionali, alcune specie formano dei raggruppamenti di radici
definiti “proteoidi” (diffuse nella famiglia delle Proteaceae e
nelle Leguminose), particolarmente attive nell’escrezione di
acidi organici. Ad esempio, Lupinus spp. emette acido citrico in
suoli con pH elevato per facilitare la solubilizzazione e, quindi,
l’assorbimento del fosforo. In questo caso l’addensamento di
radici, sebbene sia teoricamente contrario ai principi
dell’efficiente assorbimento minerale, permette di concentrare
l’azione di escrezione in particolari aree evitando diluizioni
inefficienti.
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Ci sono una serie di azioni che la pianta effettua per modificare
l’ambiente radicale, favorire l’assorbimento dei nutrienti, la
penetrazione radicale, per comunicare con gli altri vegetali ecc.
Durante la loro crescita le radici emettono un’ampia gamma di
sostanze ad elevato peso molecolare (mucillagini, polisaccaridi,
ectoenzimi) e a basso peso molecolare (acidi organici, zuccheri,
amminoacidi, fenoli) con varie funzioni che determinano
l’alterazione delle condizioni biologiche del suolo e la
modificazione delle dinamiche delle popolazioni microbiche.
Questi sono solo alcuni esempi di come le piante possono
variare attivamente l’ambiente suolo, alterando le caratteristiche
fisio-chimiche e le dinamiche di popolazione dei microrganismi
e determinando la formazione della rizosfera.
Caratteristica comune dei FAP è quella di avere un’attività il cui
effetto è limitato al breve periodo (ordine di grandezza ore,
giorni). Per mantenere nel tempo e nello spazio la loro
funzionalità è necessario che la pianta mantenga le sue attività
radicali. Ad esempio, nel caso dell’escrezione delle molecole
organiche, queste sono rapidamente degradate dai batteri e/o
enzimi (Zucconi, 1996).
1.2.3.4 Ricambio aereo e radicale: i FAS
Gli escreti radicali (fitoncidi e coline), essendo rapidamente
inattivati dai parte dei microrganismi terricoli, non partecipano
al meccanismo della successione tra specie e non influiscono di
per sé sulla stanchezza.
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Ovviamente si potrebbe anche supporre l’esistenza di molecole
resistenti alla decomposizione. Tuttavia l’attività di una
molecola organica è associata
1. alla sua solubilità e diffusibilità
2. all’esposizione dei gruppi funzionali responsabili appunto
della sua azione.
Queste condizioni sono anche quelle che ne facilitano
l’interazione chimica e l’attacco microbico, e pertanto
l’inattivazione.
Sono solo i tessuti o gli organi vegetali mostrano una resistenza
alla degradazione in funzione di specifiche difese (cere,
suberine, lignine, ecc.) e di un ridotto rapporto
superficie/volume.
Ne deriva che la presenza prolungata di tossine in assenza della
pianta viva può essere spiegata in funzione della
decomposizione microbica dei residui della precedente coltura,
detti fattori allelopatici secondari o FAS.
I residui forniscono un substrato abbondante (tonnellate/ha) e,
nel caso delle arboree, caratterizzato da una decomposizione
prolungata. Si spiega allora la possibilità di una presenza
pluriennale delle tossine nel terreno in funzione di un attacco
progressivo e continuato ad un simile substrato. In tale flusso le
tossine stesse, distrutte metabolicamente dopo essere state
formate, sono continuamente rimpiazzate attraverso i processi
di degradazione dei residui restando ad un livello relativamente
elevato e costante fino alla sostanziale distruzione di tutto il
substrato.