storiografica. Forse da un lato per la reticenza di alcuni protagonisti, imbrigliati nel loro
desiderio di preservare un’autoimmagine positiva, forse perché c’è stato chi, nel
riprendere il viaggio della memoria e del ricordo di quegli anni, ha sovraccaricato il
ricordo di emozioni che, nel momento in cui gli eventi si compivano, avevano tutt’altra
valenza.
Questo lavoro dunque è frutto di una scelta: innanzitutto quella di privilegiare un
campo di analisi fino ad ora poco battuto, se non in chiave quasi esclusivamente
sociologica e cioè il rapporto tra i principali movimenti collettivi della sinistra libertaria
degli anni ’60 e ’70 e la violenza politica, e di privilegiarlo attraverso un percorso di
analisi storica che cerchi, tra documenti e testimonianze di coloro che hanno vissuto
quel periodo, di individuare tutte le possibili connessioni tra movimenti e violenza.
Un rapporto controverso, discusso, fonte ancor oggi di diverse polemiche, di ferite
ancora aperte, soprattutto se si deve fare i conti con il dolore delle vittime della
violenza.
Ma al di là di qualsiasi giudizio morale e etico sulla violenza, lo scopo di questo lavoro
è capire se i principali movimenti collettivi della sinistra libertaria tra il 1967 e il 1977
hanno praticato la violenza e in che misura, e quali sono state le differenti tipologie di
violenza manifestate.
L’attenzione è posta solamente sui “movimenti della sinistra libertaria” cioè su
specifici movimenti politici riconducibili, per programmi, linguaggi e culture, alla
tradizione «operaia, popolare e democratica»: in particolare farò riferimento alle
esperienze del Movimento Studentesco, di Potere Operaio, di Lotta Continua,
dell’Autonomia Operaia e del Movimento del ’77.
Da questa analisi verranno esclusi i gruppi che scelsero la clandestinità e decisero di
proporre una violenza quasi meccanica, per i quali, penso alle Brigate Rosse, la violenza
era ridotta a una sorta di fatto automatico, dando, come dice Antonio Chiocchi “alla
violenza una nuova codificazione [dove] essa non conserva più alcuna traccia di
creatività sognatrice: acquisisce le sembianze e il respiro gelido di un congegno”
4
. E
verranno esclusi anche quei gruppi che non hanno goduto di una imponente adesione (se
non per brevi momenti) o non hanno contemplato in modo deciso, né attraverso i loro
4
A.Chiocchi, Catastrofi del politico, in “Quaderni di società e conflitto”, n.8/1995-2005,su
www.cooperweb.it/societaeconflitto/quaderni8_cap4.html .
6
scritti né con le loro azioni, nel loro armamentario ideale e strategico la teoria o la
pratica della violenza.
Dato che si parla di violenza politica non si può non considerare il “nemico”. Oltre a
quello istituzionale, lo Stato, che rappresentava il nemico naturale per chi voleva
“sovvertire il sistema”, vi è il nemico storico rappresentato dal fascismo che in quegli
anni investe una duplice funzione: movimento anti-sistema esso stesso, e “braccio”
armato della repressione verso le lotte studentesche e operaie. Vedremo in che modo e
in quali occasioni la violenza politica dei movimenti della sinistra libertaria entri in
gioco, in uno scontro che vedrà di fronte questi tre soggetti antagonisti: Stato,
estremismo di destra e movimenti della sinistra libertaria.
Accanto ad una scelta di carattere tematico, se ne impone un’altra relativa alla
periodizzazione della c.d. “stagione dei movimenti”, cioè quel lungo ciclo di protesta
che indicativamente abbraccia due decenni.
Si è soliti definire quel periodo come il ’68. Ma non c’è concordanza, soprattutto tra i
protagonisti di quegli anni, su dove cominci e dove finisca “il ’68”.
Per Goffredo Fofi “il ’68, almeno in Italia, è durato molto poco […]. Diciamo
dall’occupazione di Palazzo Campana a Torino di fine ottobre 1967 all’estate-autunno
1968.”
5
.
Tale visione secondo Diego Giachetti, appartiene a un “processo di rimozione del
fenomeno ’68 […] (che) consiste nell’accendere i riflettori solo sull’evento ’68,
scorporandolo da quello che è avvenuto dopo, per collocarlo in una dimensione spazio e
luogo, come se la storia si fosse bruscamente interrotta, senza avere un seguito”
6
.
Anche lo storico Peppino Ortoleva impone una delimitazione in senso tematico e
cronologico affermando che “Qui l’analisi si ferma: il 1968 finisce, e comincia la storia
di diversi movimenti politici di nuova sinistra, a carattere strettamente nazionale, o
locale, e caratterizzati da una base sociale in parte diversa da quella che era stata propria
del movimento studentesco”
7
; in definitiva, rimuovendo il rapporto tra le lotte operaie e
studentesche.
5
AA.VV., Il ’68 senza Lenin ovvero: la politica ridefinita, Roma, Edizioni e/o, 1998, p.5.
6
D.Giachetti, Oltre il Sessantotto. Prima, durante e dopo il movimento, Pisa, BFS Edizioni, 1998, p.11.
7
P.Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Roma, Editori Riuniti, 1988, p.17.
7
Secondo Giachetti, “vi è un prima e un dopo, un lento enuclearsi di quelle che saranno
le ragioni del ’68 e poi un dispiegarsi/tramutarsi delle domande poste dal ’68 in tutti gli
anni ‘70”
8
. Poi conclude: “Chiusa nella bara degli “anni di piombo” un’intera
generazione politica, formatasi negli anni ’70, viene fatta scomparire dalla storia
d’Italia, imprigionando i comportamenti politici e i processi sociali e culturali dentro lo
schema, rigido ma funzionale al potere, del terrorismo e della lotta armata”
9
.
Questo lavoro, prefiggendosi lo scopo di studiare un particolare soggetto politico e
sociale, vale a dire il movimento sociale o meglio definibile movimento collettivo, ha
un inizio con la comparsa del primo movimento collettivo in Italia, nel 1967, cioè il
Movimento Studentesco. Dopo di che ripercorre cronologicamente il decennio,
analizzando i passaggi importanti di cambiamento dei movimenti, fino ad arrivare alla
fine del 1977, quando esce di scena l’ultimo movimento collettivo del ciclo, cioè quello
del ’77.
Da quel momento in poi inizia la fase di riflusso di molti militanti, che
abbandoneranno la loro partecipazione a quelle lotte . Negli anni ’80, dove le parole
d’ordine saranno “anti-nuclearismo” e “pacifismo”, i movimenti ritorneranno sulla
scena politica, ma con un’altra connotazione ideale, con altri obiettivi, e soprattutto con
la scelta convinta della non-violenza come “strumento” per il raggiungimento dei
proprio obiettivi.
Perché la scelta di questo lavoro verte proprio sulla violenza?
La violenza è entrata molte volte negli interminabili dibattiti degli anni ’60 e ‘70. C’e
chi la condannerà, chi la riterrà inevitabile, chi la giustificherà, chi la organizzerà. Ma
inevitabilmente in quel periodo tutti i protagonisti si troveranno a parlarne. O perché
costretti da uno Stato che, alle richieste degli autori delle proteste, risponderà con la
repressione, o con le bombe e le stragi appartenenti a un pezzo di storia ancora irrisolto,
o spinti dalla stessa componente culturale e ideologica alla base dei movimenti collettivi
di quegli anni, che era incline, sebbene a fasi alterne, se non a praticarla, perlomeno a
discuterla, a considerarla “necessaria”, “liberatrice”. Ma, come vedremo, la radicalità
del movimento nelle sue diverse epressioni storiche, presupponeva sin dall’inizio un
impatto perlomeno ideale con la violenza.
8
D.Giachetti, op.cit., p.17.
9
Ibidem, p.19.
8
Il lavoro procederà in questo modo: arriverò ad affermare che, in base al tipo di
violenza (o non violenza) detta o “esercitata”, in Italia tra il 1967 e il 1977 si sono
manifestate quattro fasi ben distinte tra loro: avvalendomi anche, ma non solo, degli
studi delle scienze sociali, che hanno fornito un importante chiave di lettura anche in
prospettiva storiografica di quel periodo, arriverò ad affermare che nel ciclo di protesta
oggetto del mio studio si possono distinguere: una prima fase che chiameremo “la fase
della strategia della provocazione” (1967-1968) nella quale le agitazioni studentesche,
sul solco di modelli culturali e politici internazionali di natura pacifista – penso a
Berkeley, il Free Speech Movement, il movimento dei diritti civili in America –
adopereranno una strategia certamente radicale e aperta ad un confronto duro col
“nemico, ma con tattiche prevalentemente non violente; una seconda fase che
chiameremo invece “della violenza difensiva” (1968-1969), nella quale dopo gli
avvenimenti di Valle Giulia, i movimenti adopereranno una tattica di risposta alla
violenza repressiva dello Stato attraverso modalità non organizzate o semi organizzate
di organizzazione della violenza; una terza fase (1970-1972) che chiameremo “della
violenza semi-organizzata”, che va dalla strage di Piazza Fontana fino alla crisi di
Potere Operaio e di Lotta Continua, nella quale, al tentativo dello Stato di rispondere
all’esplodere dei movimento attraverso la “strategia della tensione”, i principali gruppi
decidono di adoperarsi per una accelerazione dell’auspicato fenomeno rivoluzionario;
accelerazione che ne provocherà la crisi; e una quarta ed ultima fase (1973-1977),
dominata dalla presenza della Autonomia Operaia, fase che chiameremo della “violenza
esistenzialista”, nella quale, accanto all’escalation della violenza terroristica, si produce
in parallelo anche una violenza quasi di natura “individualista”, atta a produrre
l’immediato soddisfacimento dei propri bisogni e desideri (il motto sarà in questo
periodo “rivoluzione qui e ora”).
La scelta di dividere in fasi, anche se risulta utile per la comprensione del fenomeno, è
una scelta che nasconde il limite di ogni cesura temporale, e cioè quello di escludere o
includere eventi che andrebbero semmai considerati o inseriti in un’altra fase o periodo
storico. Ma è necessaria perchè, come risulterà poi evidente dalla lettura di questo testo,
al presentarsi di un determinato evento storico, di una data, qualcosa cambia non solo
nella struttura organizzativa dei movimenti, ma qualcosa cambia anche e soprattutto nel
rapporto tra violenza e movimenti.
9
Ma partiamo da una necessaria definizione concettuale. Poiché il titolo della tesi
contiene le parole “movimenti collettivi e violenza politica”, credo sia importante
comprendere a quale categorie concettuali ci riferiamo.
10
Capitolo 1
Introduzione ai concetti di “movimento
collettivo” e “violenza politica”
I Movimenti collettivi
Dalla fine degli anni ’60 in Italia come in altre democrazie occidentali nuovi attori
sociali emergono, con l’obiettivo di mobilitare e aggregare domande politiche e di
rimettere in discussione forme e contenuti della politica istituzionalizzata: sono i
movimenti collettivi.
Essi si differenziano dai partiti e dai gruppi di pressione per un più basso livello di
organizzazione. Rispetto ai partiti, non entrano in competizione per conquistare voti, ma
ricercano il consenso attraverso azioni di protesta, utilizzando i mezzi di comunicazione
per rivolgersi a istituzioni e opinione pubblica. Rispetto ai gruppi di pressione, i
movimenti collettivi non puntano soltanto e in maniera prevalente a rappresentare gli
interessi dei loro iscritti o simpatizzanti, ma si propongono come portatori di modelli
politici e sociali alternativi.
Da questo periodo insomma settori di società precedentemente esclusi dalla scena
pubblica prendono la parola, e la prendono in modo fragoroso. Un tale movimento di
idee e di proposte non poteva certo passare inosservato alle scienze sociali, che da quel
momento in poi inizieranno a interessarsi in modo attento al fenomeno, proponendo
diverse teorie e modelli che avremo modo di osservare nel corso di questo capitolo. Ma
quello che preme qui immediatamente sottolineare è che i movimenti collettivi si
differenziano in maniera netta e decisa, nelle modalità di ricerca del consenso e nei
modelli organizzativi, da qualunque altro precedente soggetto portatore di istanze
politiche e sociali.
Per la natura del fenomeno e per le difficoltà interpretative che ne derivano, gli
studiosi delle scienze sociali non sono finora pervenuti a una definizione univoca e
ampiamente condivisa di “movimento collettivo”, in quanto essi sono soggetti a
continue variazioni dovute al periodo storico o all’area geografica di riferimento.
11
Inoltre, la ricerca sui movimenti sociali ha privilegiato finora un’analisi del singolo
movimento o della singola campagna di protesta. Sono stati pochi i tentativi di
analizzare degli “insiemi di movimenti”
10
.
Tra le tante definizioni, quindi, reputo più adatta al contesto storico che andremo ad
analizzare quella che considera i “movimenti sociali” (o movimenti collettivi) come
“attori collettivi che attraverso uno sforzo organizzato e sostenuto di reticoli di individui
e gruppi dotati di una comune identità, si mobilitano in campagne di protesta per la
realizzazione di mutamenti sociali e/o politici”
11
.
Lo studio dei movimenti collettivi ha trovato numerosi punti di analisi e di
elaborazione di prospettive teoriche. Fino agli anni ‘60 erano il modello marxista e il
modello struttural-funzionalista che fornivano le chiavi di lettura per interpretare i
conflitti sociali. L’impostazione marxista che faceva risalire l’identità politica soltanto
ai condizionamenti socio-economici connessi alla stratificazione sociale, riduceva le
tensioni sociali al solo conflitto di classe tra borghesi e proletari; dall’altro, l’approccio
del modello strutturale-funzionalista, che trova in Talcott Parsons il suo più importante
teorico, proponeva spiegazioni di tipo culturalista, sostenendo l’importanza di ulteriori
appartenenze per spiegare il conflitto sociale come ad esempio il genere, l’etnia e
differenti tradizioni culturali. A mettere in discussione la capacità esplicativa dei due
consolidati approcci fu proprio il ciclo di protesta oggetto del mio studio: dal 1968
infatti “magistrati, medici e insegnanti assunsero iniziative al di fuori delle tradizionali
associazioni di categoria, mettendo in discussione i criteri, i valori e le pratiche
professionali tradizionali. Furono investiti settori di opinione ben più ampi dei soggetti
direttamente mobilitati, sollecitando una politicizzazione diffusa e un ripensamento dei
rapporti tra sfera privata e pubblica”
12
.
Naturalmente il riemergere sensibile del movimentismo in Italia si inseriva in un più
ampio contesto di mobilitazione e protesta che interessava le società avanzate tra gli
anni ’60 e ’70. Negli Stati Uniti le mobilitazioni si strutturavano in questo periodo in
pragmatici gruppi di interesse e in organizzazioni spiccatamente anti-sistema, spesso
10
Tra le eccezioni ricordiamo S.Tarrow, Democrazia e disordine. Movimenti di protesta e politica in
Italia. 1965-1975, Roma-Bari, Laterza, 1990 (orig. Democracy and Disorder. Protest and Politics in Italy
1965-1975, Oxford, Clarendon Press, 1989.
11
D.della Porta, “Movimenti collettivi e sistema politico in Italia, 1960-1995”, Roma-Bari, Laterza,
1990, pag. 4.
12
R.Biorcio, Sociologia Politica, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 81.
12
con caratteri di fanatismo religioso. In Europa invece i movimenti, benché presentassero
caratteristiche nuove rispetto al passato, conservavano gli elevati livelli di
ideologizzazione e i tratti marcatamente antisistema dei maggiori movimenti operai
13
.
Come reazione all’eccessivo determinismo dei precedenti approcci, alcuni studiosi
diedero vita a due nuovi paradigmi che trovarono terreno fertile rispettivamente in
ambito americano e europeo
14
.
Negli Stati Uniti la teoria del collective behaviour, che considerava i movimenti
collettivi come risposte irrazionali di settori della società particolarmente deprivati, fu
però rivista dallo schema elaborato da Neil Smelser: in tale schema il movimento
collettivo è il primo stadio di mutamento sociale “prima che i mezzi sociali siano stati
mobilitati per un attacco specifico e possibilmente efficace alle fonti di tensione”
15
.
Tale teoria non prevedeva un’analisi dei contenuti del conflitto tra movimento e
sistema.
Due i tentativi che si proponevano di uscire dalla teoria dell’agire collettivo come
dato empirico: la teoria della privazione relativa
16
e la teoria della mobilitazione delle
risorse
17
.
La prima pone a fondamento dei movimenti sociali la presenza di malcontento e,
quindi, di rivendicazioni diffuse in una parte della popolazione. “Assume, inoltre che
tale stato di disturbo dell’ordine sociale si trasforma in movimento se credenze e
ideologie gli danno espressione e termini condivisibili”
18
. Questa teoria è orientata a
cogliere la formazione della base potenziale dei movimenti, ovvero la domanda latente,
ma non spiega l’impegno degli attori individuali.
La resource mobilization theory, invece, si fonda sulla teoria della scelta razionale e si
concentra sull’offerta di possibilità di azione collettiva (le organizzazioni e i leader
13
D.della Porta, M.Diani, I movimenti sociali, Roma, NIS, 1997.
14
B.Klandermans, S.Tarrow, Mobilization into Social Movements: Synthesizing European and American
Approaches, in B.Klandermans, S.Tarrow, H.Kriesi, International Social Movement Research, vol.I,
Greenwich (Conn.), JAI Press Inc., 1988.
15
N.J.Smelser, La teoria del comportamento collettivo, Firenze, Vallecchi, 1968.
16
T.J. Crawford, M.Naditch, Relative Deprivation, Powerless and Militancy: The Psychology of Social
Protest, in “Psychiatry”, 2/1970; vedi anche T.Gurr, Why Men Rebel, Princeton, Princeton University
Press, 1970.
17
J.D.McCarthy, M.N.Zald, Resource Mobilization and Social Movements: A Partial Theory, in
“American Journal of Sociology”, 82/1977. vedi anche A.Oberschall, Social Conflict and Social
Movements, Englewood Cliffs (NJ), Prentice Hall, 1973.
18
A.Pizzorno, op.cit, pp.135.
13
potenziali): dando per scontato che situazioni di scontento sociale siano sempre presenti,
essa focalizza l’analisi sull’infrastruttura organizzativa dei movimenti e sui processi
attraverso i quali le tensioni strutturali (grievances) conducono verso azioni collettive
manifeste.
In quest’ottica, pertanto, la formazione di movimenti sociali sarebbe strettamente
legata alle risorse disponibili nel sistema: se migliorano le risorse, i costi della
mobilitazione diminuiscono e il conseguente incremento della partecipazione aumenta
la probabilità di successo del movimento. Benché la teoria della mobilitazione delle
risorse abbia favorito la produzione di ambiziose costruzioni teoriche, mancano
sistematiche verifiche sul terreno empirico
19
; inoltre tale approccio non propone
un’analisi dei contenuti della mobilitazione.
Da ultimo, nella sociologia americana, si è sviluppata una ulteriore corrente, che
accentua l’attenzione rivolta verso l’ambiente politico in cui i movimenti operano
20
: tale
approccio ponendo in considerazione le interazioni tra attori e forme d’azione
tradizionali e non convenzionali ha aperto un fecondo ambiente di ricerca anche se
riduce esclusivamente al politico l’azione dei recenti movimenti omettendone
l’innovazione culturale
21
.
In Europa dopo che venne messa in discussione la centralità del rapporto tra capitale e
lavoro nell’ambito del conflitto sociale
22
, si sviluppa un approccio che individua nei
movimenti ambientalisti, pacifisti e femministi degli anni ’60 e ’70 caratteri “nuovi”
rispetto ai precedenti circa la sfera dei valori, le forme di partecipazione e
l’organizzazione interna e orienta l’indagine sulle trasformazioni strutturali delle società
industriali occidentali.
il concetto di “nuovi movimenti sociali” trae spunto da due fenomeni intrecciati. E’ una
designazione utilizzata per identificare forme e tipi originali di mobilitazione degli
anni’60 e ’70, ma diventa anche teoria che sollecita tutta una serie di contributi che
19
A parziale eccezione ricordiamo la ricerca, di matrice storiografica, condotta da Tilly (1978) sui
repertori e registri d’azione dei movimenti sociali.(C.Tilly, From Mobilization to Revolution, Reading
(Mass.), Addison-Wesley, 1978.).
20
C.Tilly, op.cit,; vedi anche S.Tarrow , op.cit; vedi anche H.Kriesi, R.Koopmans, J.Duyvenback,
M.Giugni, New Social Movements in Western Europe, London, Ucl, 1995.
21
A.Melucci, Libertà che cambia, Milano, Unicopli, 1987.
22
A.Touraine, La voix et le regard, Paris, Seuil, 1978.
14
guardano alle singole mobilitazioni per cercare di rinnovare l’analisi dei movimenti
sociali, la riflessione sull’avvento della società postindustriale”.
Il lavoro sociologico sui nuovi movimenti sociali si sviluppò in Europa attraverso le
molteplici inchieste del gruppo di Touraine, le analisi di Melucci in Italia, di Offe in
Germania, delle ricerche coordinate da Kriesi in Svizzera, di Klandermans e Koopmans
in Olanda.
Secondo questo filone di indagine, per ciò che riguarda le forme di organizzazione e i
repertori d’azione, i nuovi movimenti sociali sono espressamente ostili alla
centralizzazione e alla delega dell’autorità a stati maggiori lontani; la loro struttura
organizzativa è esile e conferisce vasta autonomia alle componenti di base. Si schierano
per un’unica questione per volta, da qui il nome di single-issue organization.
Rispetto ai motivi per i quali si attiva la mobilitazione i nuovi movimenti sono
portatori di rivendicazioni impostate sui valori post-materialisti quali, ad esempio, la
salvaguardia dell’ambiente e la garanzia dei diritti delle minoranze. Nel tentativo di
percorrere strade d’azione completamente indipendenti dallo Stato, i nuovi movimenti
sociali si differenziano dai loro predecessori anche in merito alla relazione con la sfera
politica. Mentre i “vecchi” movimenti agivano spesso in stretto rapporto con i partiti le
nuove conformazioni se ne allontanano perentoriamente. Da ultimo, un ulteriore
carattere distintivo di questi movimenti è legato all’identità degli attori che li
costituiscono: secondo l’approccio dei “nuovi movimenti sociali” le nuove forme di
mobilitazione non sono più espressione di classi o di categorie socio-professionali in
quanto non si costituiscono più in relazione a condizioni di natura socio-economica ma
a seguito della condivisione di specifici ideali.
La teoria dei nuovi movimenti sociali è stata oggetto della critica speculare a quella
rivolta alla teoria della mobilitazione delle risorse: se quest’ultima si occupa
esclusivamente del “come” dell’azione collettiva la prima pone attenzione solo al
“perché” di tale azione, cioè del passaggio dal conflitto all’azione sociale. Una ulteriore
critica all’approccio dei nuovi movimenti sociali riguarda la generalizzazione alla
globalità dei fenomeni di azione collettiva degli elementi innovativi riscontrati in alcuni
movimenti
23
.
23
D.della Porta, op.cit., 1996; vedi anche S.Tarrow, Power in Movement.Social Movements, Collective
Action and Politics, New York-Cambridge, Cambridge University Press, 1994.
15
Come abbiamo potuto osservare, i diversi punti di analisi e le teorie espresse, hanno
arricchito il campo di definizione di un fenomeno collettivo, ma hanno reso
inapplicabile a uno specifico contesto storico di azione collettiva, teorie che abbiano la
pretesa o il carattere di universalità. Per questo bisogna necessariamente operare una
scelta di carattere soggettivo che meglio si adatti al periodo, al tipo di azione collettiva
elaborata, alle strutture organizzative espresse e agli esiti dell’azione prodotti, e
pervenire a una ulteriore specificazione relativa alle caratteristiche dei movimenti
sociali, in modo da poter differenziare i movimenti collettivi degli anni’ 60 e ’70 in
Italia da altri movimenti sociali di altre epoche storiche.
La prima caratteristica che a mio parere va sottolineata è relativa alla natura anti-
istituzionale dei movimenti collettivi degli anni ’60 e ’70 in Italia: i movimenti
rappresentano una novità e una discontinuità rispetto al passato, in quanto ad essi non
segue l’istituzionalizzazione. Il ciclo dei movimenti si svolge con un percorso che vede
il passaggio da una prima fase caratterizzata dall’informalità, a una successiva segnata
dal rifiuto o dalla incapacità di istituzionalizzazione. Valga per tutti l’esempio di Lotta
Continua che, come vedremo, nel momento in cui passerà alla fase della
istituzionalizzazione, diventa qualcosa di differente rispetto ai caratteri tradizionali di un
movimento collettivo. Ma questo avrò modo di spiegarlo nel prosieguo del lavoro.
Il secondo elemento differenziatore è connesso alla centralità della dimensione
generazionale: come sottolinea Hobsbawn, “La gioventù, in quanto gruppo
autoconsapevole che si estendeva dalla pubertà fino ai venticinque anni, diventò un
agente sociale indipendente. La radicalizzazione politica degli anni ’60, anticipata da
contingenti più piccoli di dissidenti e di contestatori di varia estrazione, appartenne a
questi giovani, che respingevano il ruolo di ragazzi o perfino di adolescenti (ossia il
ruolo di chi non è ancora maturo e adulto), mentre non riconoscevano alcun valore
umano alle persone sopra i trent’anni, tranne che a qualche guru occasionale”
24
.
Il terzo elemento è relativo alla radicalità dei comportamenti. I movimenti di quegli anni
rappresentano nuovi comportamenti, valori, modi di agire. Dice Marco Grispigni:
24
E.J.Hobsbawn, Il secolo breve, Milano, Rizzoli, 1995, p. 381.
16
“I movimenti degli anni ’60 e ’70 o sono estremisti o non sono: non esistono possibili
mediazioni. La radicalità del modo di essere , i gusti, le mode, gli atteggiamenti, i
valori, la filosofia di vita di quei movimenti non può che essere estremista. […] Si tratta
di rovesciare un ordine delle cose ben più profondo e radicato di un potere politico. Non
c’è spazio per la mediazione, occorre imporre una radicalità assoluta e con questa
destabilizzare il consueto”
25
.
Anti-istituzionalizzazione, dimensione generazionale e radicalità dell’azione,
rappresentano le tre caratteristiche che insieme differenziano i movimenti collettivi
degli anni ’60 e ’70 da esperienze collettive precedenti e successive. E sono le
caratteristiche che meglio possono spiegare il sistematico ricorso a repertori di natura
violenta durante il ciclo di protesta oggetto del mio studio. Ma questo verrà evidenziato
nei prossimi capitoli.
In conclusione di questo excursus sul concetto di movimento collettivo, mi preme
soffermarmi sulla definizione di “famiglia dei movimenti”. Con tale termine indichiamo
“l’insieme di movimenti che, a prescindere dai loro obiettivi specifici hanno valori di
base simili e sovrapposizioni organizzative, e talvolta si alleano per campagne di
protesta”
26
. Si tratta di un concetto che ha una limitazione spaziale e temporale, poiché
si riferisce a un tipo di movimento sociale, definito a livello nazionale, che segue un
ciclo di emergenza, stabilizzazione, e infine scomparsa, che può durare alcuni decenni.
Questo lavoro analizzerà una specifica famiglia di movimento collettivo, che è quella
della sinistra libertaria. Il politologo Herbert Kitschelt nel dare una definizione di tali
movimenti, ha scritto: “ Sono “di sinistra” perché condividono con il socialismo
tradizionale la sfiducia nel mercato, nell’investimento privato, e nell’etica del successo,
insieme alla fiducia nella redistribuzione egualitaria. Sono “libertari” perché si
oppongono al controllo delle burocrazie pubbliche e private sulle condotte individuali e
collettive. Essi, invece, auspicano una democrazia partecipatoria e sostengono il diritto
dei singoli e dei gruppi a definire autonomamente le istituzioni economiche, politiche e
culturali, sottraendole al dictat di burocrazie e mercati”
27
.
25
M.Grispigni, Elogio dell’estremismo.Storiografia e movimenti, Roma, Manifestolibri, 2000, p.18.
26
D.della Porta, D.Rucht, Movimenti sociali e sistema politico. Un confronto tra Italia e Germania, in
“Rivista italiana di Scienza politica”, XXII, n. 3, 1992, pp.501-37.
27
H.Kitschelt, New Social movements and the decline of party organization, in R.J. Dalton, e M.Kuechler
(a cura di), Challenging the political order. New social movements in western democracies, Cambridge,
Polity Press, 1990, pp.179-208.
17
La famiglia dei movimenti della sinistra libertaria in Italia, seppure tra distinguo e
scelte organizzative diverse da movimento a movimento, tra il 1967 e il 1977 oscillerà
tra queste due tendenze: in alcuni casi manifesterà un anti-autoritarismo e un
libertarismo che non ha precedenti col percorso culturale e ideologico della sinistra
tradizionale (tanto da parlare appunto di “nuova sinistra”). In altri momenti, invece,
ripiegherà verso forme di azione e verso strutture organizzative che richiameranno per
certi versi temi tradizionali cari alla c.d. “vecchia sinistra”. Ma avremo modo di
parlarne approfonditamente nel corso di questo lavoro.
La violenza politica
Marcello Flores in un suo recente saggio
28
si è soffermato a lungo sul concetto di
violenza, riflettendo su quella che ha accompagnato tutto il Novecento, cercando di
individuarne le componenti più indicative, delineando gli effetti che essa ha sull’essere
umano, e cercando di indicare una molteplicità di cause ma anche una possibile
interrelazione e gerarchia tra esse.
Sono tanti i motivi che scatenano la violenza, come sono tante le forme che essa
assume; diversi ma con tratti spesso simili i contesti in cui essa avviene e le occasioni
che permettono di iniziarla e concluderla. Dice Flores: “L’importanza delle definizioni,
pur se difficili da dare, è fuori di ogni dubbio. Usarle, tuttavia, non dovrebbe avere
minimamente a che fare con quella spinta alla gerarchia e alla classificazione che è
invece troppo spesso presente; che si è vista esistere anche nella valutazione quantitativa
e che appare un elemento ineliminabile di quella spettacolarizzazione del male cui i
media sovente si piegano acriticamente. Distinguere la violenza, comunque, non vuol
dire solo tentare di riconoscere se e quando c’è stato un genocidio; o parlare di massacri,
assassinii di massa, stragi, carneficine pensando di riuscire in questo modo a
rappresentare con maggiore precisione quanto avvenuto. Ci sono altre tipizzazioni della
violenza che possono essere utili alla loro comprensione, pur se scontano i limiti di ogni
proposta classificatoria, di ogni modello entro cui costringere la realtà sempre mutevole
e gli eventi storici sempre unici e irripetibili. Ci sono le violenze territoriali, guerre di
28
M.Flores, Tutta la violenza di un secolo, Milano, Feltrinelli, 2005.
18
conquista o di mantenimento del proprio predominio geopolitico; ci sono le violenze
etniche, che hanno accompagnato l’instaurazione di stati-nazione impossibilitati a essere
omogenei o il dissolvimento di imperi; ci sono le violenze ideologiche, legate alle
grandi religioni politiche che si sono costruite in epoca contemporanea attorno e dentro
stati totalitari e dittatoriali; ci sono le violenze fratricide, dei conflitti civili interni agli
stati e tra cittadini della stessa nazione; ci sono violenze strategiche, come i
bombardamenti aerei delle popolazioni civili; ci sono violenze economiche, motivate da
scelte di efficienza e produttivismo. Ma ci sono anche possibili categorie di violenza:
offensiva o difensiva, oppressiva o di liberazione; o anche violenza legale o illegale
(secondo le leggi internazionali e dei singoli stati), giustificata o condannata (secondo
l’opinione pubblica o una parte di essa).[…]. La spiegazione di questo intreccio, di
questo accavallamento di caratteristiche, risiede forse nella molteplicità identitaria che
accompagna la condizione della modernità. Nei conflitti, e nella dinamica che porta alla
violenza, l’identità è uno strumento indispensabile di mobilitazione: più sono le identità
messe in gioco, che sembrano poste in pericolo, e maggiore è l’emotività che può
spingere a identificare un nemico contro cui indirizzare la propria reazione e a scegliere
la violenza come reazione privilegiata”
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.
Tale premessa era necessaria in quanto il lavoro che mi accingo a fare cercherà di
comprendere le dinamiche, le cause e le diverse tipologie di violenza che si sono
manifestate all’interno dei principali movimenti della sinistra libertaria durante il c.d.
’68 strisciante, cioè il lungo ciclo di protesta che attraversò la società italiana, le sue
istituzioni, gli stessi movimenti per due decenni, in un modo così deciso e radicale, tale
da poterne percepire le conseguenze politiche, culturali, sociali ed economiche ancora
oggi.
La violenza degli anni ’60 e ’70 in Italia, come vedremo, non è mai stata una. Se è
ovviamente condivisibile un giudizio di natura etica e morale sulla ingiustificabilità di
qualsiasi violenza, una classificazione di natura esplicativa e chiarificatrice risulta
indispensabile, in quanto per molto tempo si è voluto mettere forse in modo deliberato
sotto un’unica lente d’indagine la violenza espressa dai movimenti, la cosiddetta
violenza di massa, che si manifestava in un contesto storico e politico nel quale era per
certi versi necessario rompere in modo radicale con gli schemi tradizionali del confronto
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M.Flores, op.cit. pp. 26-7.
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