4
La lotta armata è uno dei portati della crisi della politica e del ‘politico‘; tale inciso né
costituisce la sua struttura profonda. Su tale struttura se ne erige un’altra, periferica,
scaturita dall’evoluzione di cicli politici così sintetizzabili: a) la colonizzazione politica della
società; b) la miscela di consociativismo costituzionale e consociativismo di governo;
c) l’incapacità da parte dei movimenti del ‘68 di rinnovare, su un più avanzato fronte di
democrazia e di libertà il sistema politico e il funzionamento della macchina statuale;
d) la crisi delle culture e della progettualità politica dei partiti della sinistra e dei gruppi della
sinistra rivoluzionaria; e) la sconfitta del ‘68; f) la dilatazione totalizzante della sovranità
dell’emergenza.
In Italia, è il complesso di tali concause, strutturali e periferiche, a fungere da base alla
formazione e all’esplosione del fenomeno della lotta armata e a spiegarci il suo grado di
deflagrazione politica, che non trova riscontro in nessuna altra democrazia avanzata
dell’occidente capitalistico. Molti paesi avanzati (Germania, Usa, Giappone, Francia,
Belgio) hanno dovuto fare i conti con “organizzazioni comuniste combattenti” e simili; ma
in nessuno di essi la lotta armata ha fatto registrare la durata, il ruolo politico e il peso
sociale che essa ha avuto in Italia. La particolarità e l’eccezionalità della lotta armata in
Italia possono spiegarsi unicamente ponendo in connessione le due strutture sopra citate.
Tentare interpretazioni di filiazione diretta della lotta armata italiana o col blocco del
sistema politico o con l’agonia dei movimenti o con la crisi della sinistra storica e di quella
rivoluzionaria, appare assai limitativo e limitante. Tutti questi fenomeni sono prodotto
sociale prima ancora che causale storico-politica. (1)
La lotta armata, come soggetto innescante prassi politico-militari connotate dall’orizzonte
ideologico della “liberazione comunista”, ha rivelato un altro fattore non intenzionale (si
può dire: un “effetto perverso”) e contraddittorio, tra fini dichiarati/perseguiti ed esiti
dispiegati dalla sua azione. La lotta armata, in Italia, pur avendo nelle BR l’attore di
maggior rilievo, non è riducibile solo ad esse (2) anche se sono fondamentalmente, se non
esclusivamente, le Br a sostenere la scelta armata con un criticabile e arretrato, ma
organico e compiuto impianto teorico-politico così come si evince dai primi testi brigatisti, a
partire dall’Autointervista del 1971, fino alle ultime interviste raccolte da Carla Mosca di rai
1 e Rossana Rossanda de “il manifesto”.
5
Note
(1) Per una condivisibile critica teorico-metodologica delle teoriche del “blocco di sistema”,
ecc., quale causa primaria della formazione e dello sviluppo della lotta armata, cfr.,
Donatella della Porta, Il terrorismo di sinistra, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 51-56. Si
rimanda, inoltre, a Gruppo di Ricerca su “Società e conflitto”, Snodi, cit.; in particolare, la
“Premessa” del cap. II.
(2) Ha giustamente sottolineato la necessità di un’indagine sulla diversità delle matrici
sociali, delle culture, delle strategie politiche e dei modelli organizzativi delle
organizzazioni che hanno praticato la lotta armata S. Segio, Le fonti aride della storia
ufficiale. La violenza politica di sinistra secondo l’Istituto Cattaneo, “il manifesto”,
3/10/1991; si tratta della recensione critica del libro di D. della Porta citato nella nota
precedenti.
Per quanto concerne la storia di Prima linea si rimanda a AA.VV., 1983-1985: Dallo
scioglimento di “Prima Linea” alle “Aree Omogenee”, ciclostilato, Torino, 1985; si tratta di
una raccolta di documenti e dichiarazioni che autotestimoniano il processo di
dissociazione collettiva percorso da Prima linea;
6
LA LOTTA ARMATA E I CODICI
DELLA VIOLENZA
7
Capitolo 1
Le finalità costitutive e i sistemi valoriali della lotta armata ruotano attorno a un doppio
ordine di esigenze: rovesciare l’universo etico-politico e storico-sociale dell’ordine
borghese-capitalistico, ritenuto totalitario e senza speranze di libertà; accedere, attraverso
la teoria-prassi combattente, all’universo etico-politico della “liberazione comunista”, entro
il cui seno la rivoluzione sociale e politica è portato di libertà assoluta per la “comunità
liberata” e il singolo. Pertanto la lotta armata si costruisce come rottura dal sistema
borghese-capitalistico e, insieme, come superamento delle teorie della rivoluzione della
tradizione, per le quali l’organizzazione armata della violenza è una variabile temporanea
ed estrema e non, invece, una regolarità costante del progetto di trasformazione sociale
(1). Deviando dagli enunciati classici della rivoluzione, soprattutto quelli della tradizione
marxista e leninista cui più direttamente si richiama, la teoria-prassi combattente si
costituisce come l’unico mezzo conforme al raggiungimento dei fini della “comunità
liberata”. Possiamo definire questa posizione un postulato d’esistenza a priori. Da esso
discende l’autoinvestitura, da parte della lotta armata, dei ruoli propri del soggetto della
liberazione e delle funzioni intrinseche al progetto liberante. Per questa via, essa arriva a
delineare gli elementi ideologici di un immaginario della rivoluzione che codifica il soggetto
combattente come “comunità liberante”. Questa codificazione simbolica possiamo definirla
un postulato d’esistenza a posteriori. La lotta armata, pertanto, si disloca a monte come un
assoluto a cui il soggetto e la comunità che vogliono salvare il mondo e l’umanità dal giogo
borghese-capitalistico non possono sottrarsi; detto questo, tra fondazione e legittimazione
della lotta armata, si istituisce, così, un perfetto circolo chiuso. Il comunismo è qui
codificato e introiettato come plusvalore simbolico. Ciò sgrava il soggetto combattente del
fardello della questione della propria identità e della propria azione, affrancando, inoltre, la
prassi armata dalla responsabilità etica e politica dell’autoriflessione critica sui suoi moduli,
sui suoi contenuti e sui suoi esiti. E’ il mondo di fuori che va cambiato, partendo dal proprio
mondo di dentro, assunto come espressione della perfezione e come arma di salvezza. Il
mondo di fuori può qui essere cambiato esattamente e solo dalla lotta armata, dalla
legittimità dei suoi sistemi valoriali e dal profilo della sua identità e della sua azione. La
trasgressione delle regole etiche e politiche della società ufficiale non è altro che la
proiezione sublimata della fede incrollabile nei valori etico-politici, di quei mondi simbolici
8
della perfezione morale e politica a cui il soggetto combattente e la teoria-prassi armata
hanno interiormente dato adesione. Tali mondi simbolici prefigurano ideologicamente,
politicamente e storicamente la società perfetta: sotto l’effetto di tale coerenza terribile, il
comunismo si potrebbe realizzare attraverso l’organizzazione della violenza armata. È
l’amore per la lotta armata che condensa l’amore per il mondo; è l’amore per il mondo
della perfezione comunista che giustifica il disprezzo e l’odio per il mondo della corruzione
e dell’imperfezione borghesi-capitalistiche. La lotta armata conquista il soggetto che la
sceglie, poiché si presenta ai suoi occhi, ai suoi sensi e al suo cuore come il corpo mistico
della rivolta assoluta che in una società secolarizzata e appiattita non manca di esercitare
un enorme potere di fascino. Nell’estasi combattente v’è una componente sacramentale:
se per la teologia di Tommaso d’Aquino la “sacramentalità” risiede nella partecipazione al
“sacerdozio del Cristo” (Summa Theologica, III, 63, 3), il “carattere sacramentale”
dell’opzione armata sta nell’intensa e incondizionata partecipazione emotiva al tempo
futuro, conficcata nella strenua ribellione al tempo presente. La sete della “giustizia
possibile” si ammanta della “ingiustizia necessaria”: l’omicidio politico sistematico. Questa
è la colpa attraverso cui la lotta armata si costringe a passare, per redimere il mondo. In
questo modo, vengono conferite stabilità e durata all’identità combattente originaria, a
fronte di una realtà instabile e in profondo sommovimento. Al tempo stesso, i codici
simbolici primari valgono come riconoscimento dell’Altro quale mondo ostile, da negare e
rovesciare, mediante una capillare e funzionale pratica di disarticolazione e di distruzione.
Il simbolo si fa per intero cultura e la cultura si risolve integralmente nel simbolo. La
funzione simbolica propria della lotta armata consiste esattamente nell’invenzione,
elaborazione e surroga dell’oggetto assente: il comunismo. La forma sociale è quella della
“guerriglia nella metropoli”, il “sistema lotta armata” è organizzazione di organizzazione.
Intenzionalità, forma e mezzi sono concatenati da processi di trasmissione organizzativa
che sono l’uno causa ed effetto dell’altro. Forme e mezzi debbono confermare
l’intenzionalità del disegno politico; La guerra non sottostà alla sovranità del fine politico
dal quale non può essere ferreamente dominata. Il “sistema lotta armata” rovescia la
prospettiva clausewitziana di Politica mater di tutte le cose. L’organizzazione di scala della
violenza armata per l’insediamento della società comunista, apre un nuovo orizzonte a
metà strada tra Eraclito e Clausewitz: la guerra va in soccorso della politica rivoluzionaria,
per superarne gli interni limiti di performatività; la politica va in soccorso della guerra
rivoluzionaria, per dotarla di coordinate simbolico-ideologiche.
9
Per Clausewitz la guerra non è semplicemente uno dei molti strumenti, ma l’ultima ratio
del raggruppamento amico-nemico. Il cervello della guerra continua ad essere la politica:
essa cioè non è dotata di una ‘logica propria’(2). Nel “sistema lotta armata” invece, il
principio di ostilità assoluta non si disloca nel ‘politico’ né si impianta nella guerra, ma nel
simbolismo. Il simbolismo della lotta armata è la prigione primaria da cui il corpo della lotta
armata non riesce e non può riuscire ad evadere. I corpi vivi dei combattenti sono i
guardiani, gli agenti terribili e, insieme, i primi prigionieri di questo sistema simbolico da cui
erompe una scarica di violenza che non conosce freni. Il primato delle forme simboliche
sdoppia il principio di ostilità in due componenti: l’elemento politico e l’elemento militare.
‘Politico’ e militare si fondono in una connessione indisgiungibile. È, questa, l’essenza
della guerriglia metropolitana italiana. I limiti del ‘politico’ vengono superati col ricorso alla
guerra; i limiti della guerra vengono superati col ricorso al ‘politico’. Le forme simboliche
assicurano la ricombinazione interattiva tra ‘politico’ e guerra. Viene, così, innescato un
effetto feedback, la cui funzione è quella di bilanciare e assemblare in maniera intelligente
il composto indisgiungibile politica e guerra.
A questo punto però la guerriglia come forma e come mezzo, si separa dall’utopia
comunista, dei cui valori è, suo malgrado, la negazione. L’intenzionalità comunista non
coincide con l’intenzionalità della guerriglia, pur essendo quest’ultima ideologicamente
votata al comunismo. Nella guerriglia, la politicità ed eticità del comunismo convivono con
l’anti-politicità e antieticità della guerra per il comunismo. Qui la guerra diviene la critica
armata del ‘politico’: la risposta rivoluzionaria alla crisi della politica. Il ‘politico’, per parte
sua, fungendo quale centro ideologico della progettazione della società comunista, si
modella come superamento delle frontiere militari della guerra. Pertanto l’organizzazione
intenzionale della guerriglia, attraverso l’organizzazione dei mezzi di combattimento,
preserva, sì, la guerriglia come forma, ma l’allontana dall’intenzionalità comunista. Se nella
teoria politica rivoluzionaria il comunismo viene anteposto alla libertà e la rivoluzione
dichiara la sua anteriorità a confronto del ‘politico’, qui la guerriglia si antepone sia alla
libertà che al ‘politico’. Ritenendo di valere istantaneamente come comunismo e libertà, la
guerriglia si convince di essere scopo e mezzo della causa rivoluzionaria. La sua pura e
semplice esistenza dimostrerebbe la conformità del mezzo allo scopo; il suo sviluppo
sarebbe il mezzo dell’organizzazione pratica delle finalità comuniste. Al contrario, quanto
più promuove la riproduzione di sé, tanto più si allontana dalle finalità dell’utopia
10
comunista: il comunismo che non c’è, è qui rimpiazzato e surrogato simbolicamente dalla
guerriglia: non eventi, valori e messaggi comunisti irrompono nell’orizzonte della storia e
dell’esistenza; bensì i teatri della guerra con i suoi lutti e le sue atrocità. L’azione
combattente e la mobilitazione del potenziale combattente, aprono una cesura drammatica
nei confronti dell’azione collettiva e del potenziale di liberazione insito nella società.
Quanto più mobilita e organizza se stessa, tanto più la guerriglia smobilita e disorganizza i
movimenti collettivi. Quanto più smobilita e disorganizza i movimenti collettivi, tanto più
stringe il cappio intorno al suo collo.
Il carattere di eccentricità della guerriglia rispetto ai movimenti collettivi si abbina all’effetto
destrutturante che essa ha su di loro. Partita con lo scopo di organizzare i movimenti per il
rovesciamento del potere dato, si trova ad organizzare se stessa come potere contro lo
Stato. Alla fine, si trova contro lo Stato e contro i movimenti. Dallo Stato è combattuta e
sconfitta; dai movimenti è criticata, ma non sconfitta. Anzi, la sconfitta dei movimenti
segna l’apogeo dell’azione combattente. Apogeo che, però, costituisce un canto del cigno:
difatti, dalla fase apicale della guerriglia (1977-1979) all’inizio della fase crepuscolare
(1980-85) passano soltanto poco più di due anni. La guerriglia, che voleva essere per il
comunismo, si posiziona contro tutto e tutti: al terminale, è chiaro che essa, fin dal
principio, è solo per se stessa. Stanno qui le ragioni della sua solitudine e del suo
isolamento progressivo. Siffatta catena di processi e fenomeni destabilizzanti, ancor più,
conduce all’implosione esplosiva, se si concede l’ossimoro, dell’esperienza della lotta
armata nella fase epigonale (1986-1988) che possiamo considerare come fase finale e
ultimativa che si corona con l’uccisione di Roberto Ruffilli, nell’aprile del 1988.
Nell’ambito della simbologia insita nella lotta armata, ruolo importante gioca la violenza,
nei vari codici attraverso cui viene interpretata. Con un espresso richiamo a Lenin, Hannah
Arendt rileva che la violenza è il “comune denominatore” delle guerre e delle rivoluzioni. La
violenza ovviamente ha sempre bisogno di strumenti (3). Engels è ancora più preciso
rilevando che “la forza non è un semplice atto di volontà, ma che esige per manifestarsi
condizioni preliminari molto reali, soprattutto strumenti” (4). Ma è un’altra la considerazione
di Hannah Arendt che ci preme qui sottolineare e riguarda il rapporto tra i mezzi e il fine
che è regola e sostanza dell’azione violenta: “Dato che il fine dell’azione umana non può
mai essere previsto in modo attendibile, i mezzi usati per raggiungere degli obiettivi politici
il più delle volte risultano più importanti, per il mondo futuro, degli obiettivi perseguiti” (5).