2
dall’altro una durata più lunga di quella originariamente prevista del
periodo medio di godimento dei trattamenti pensionistici, e, dunque, un
livello di spesa sociale più elevato di quello preventivato e posto a base
delle risalenti “promesse” del legislatore.
Nel 2001 il Governo, procedendo alla verifica dello stato di salute del
sistema previdenziale, ha riscontrato il conseguimento dei risparmi di
spesa previsti dalle precedenti riforme, ma ha anche identificato un
mancato decollo della previdenza complementare. Una previdenza
complementare definitivamente elevata – da un punto di vista funzionale,
ma non ancora pratico – a “secondo pilastro” dell’intero sistema
pensionistico.
Una previdenza complementare che può esser definita come l’insieme di
tutte quelle iniziative finalizzate all’erogazione di beni e servizi per
soddisfare bisogni socialmente rilevanti e costituzionalmente garantiti
che, per carenza di risorse e per scelta di politica socio economica, non
possono essere più soddisfatti dallo Stato.
Inoltre, anche la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 393 del 2000,
l’Ordinanza n. 319 del 2001 e lo stesso D. lgs. n. 124 del 1993 nel suo
articolo di apertura, ha deposto nel senso che la previdenza
complementare deve essere valutata come strumento previdenziale con
funzioni pubbliche. La distinzione tra previdenza pubblica e previdenza
complementare si riduce quindi alla diversità dell’ambito e dell’intensità
della tutela, giustificata, piuttosto che da un diverso fondamento, dal
diverso modo con cui l’ordinamento ha valutato i bisogni socialmente
rilevanti e, in conseguenza, ha agito per realizzarli.
L’identità funzionale tra le due previdenze, pertanto, porta a ritenere la
previdenza complementare riferibile al 2° comma dell’art. 38 Cost.
3
piuttosto che al 5° dello stesso art., al quale è riferito piuttosto il c.d.
“terzo pilastro” della previdenza privata.
Dalla ricordata verifica del Governo sullo stato di salute del sistema
pensionistico, è nato un progetto di legge delega incentrato, oltre che
sulla ulteriore riduzione della spesa pensionistica, proprio sulla necessità
improrogabile di dare una forte spinta alla previdenza complementare. Il
provvedimento, dopo due anni e mezzo di “navigazione” parlamentare, è
divenuto legge il 23 agosto 2004.
In attuazione di quanto previsto dalla delega, il 24 novembre 2005 il
Consiglio dei Ministri ha finalmente approvato, dopo oltre un anno di
confronto con le parti sociali, il Decreto legislativo 5 dicembre 2005, n.
252 “Disciplina delle forme pensionistiche complementari”, stabilendone
il rinvio dell’entrata in vigore al 1° gennaio 2008.
Il provvedimento costituisce il nuovo testo di riferimento in materia di
previdenza complementare, in sostituzione del Decreto legislativo n.
124/1993, con l’obiettivo di incrementare l’entità dei flussi di
finanziamento alle forme pensionistiche complementari individuali e
collettive.
Per raggiungere tale risultato, il decreto in parola introduce importanti
cambiamenti quali l’equiparazione tra forme pensionistiche
complementari, una migliore tutela degli iscritti e maggiori incentivi
fiscali; ma la novità principale, sulla quale si è a lungo discusso, riguarda
il conferimento del trattamento di fine rapporto maturando alla
previdenza complementare tramite una procedura di silenzio - assenso.
Secondo tale procedura, il lavoratore avrà sei mesi di tempo, a partire dal
1° gennaio 2008 o dalla data di assunzione se successiva, per decidere
sulla destinazione del suo flusso annuo di tfr e potrà scegliere di
mantenerlo in azienda o di farlo confluire in una forma pensionistica
4
complementare, collettiva o individuale, a sua scelta; qualora, invece, nel
corso dei sei mesi questi non esprima alcuna preferenza, il tfr confluirà
nel Fondo pensione previsto dal contratto collettivo, da accordo
aziendale o, in mancanza, presso una forma pensionistica collettiva
residuale costituita presso l’INPS. A fronte della devoluzione del tfr, alle
imprese saranno riconosciute agevolazioni fiscali e contributive nonché
l’accesso semplificato ed agevolato al sistema del credito bancario.
Il meccanismo del silenzio - assenso, tra l’altro, non si applica ai
pubblici dipendenti nonostante la previsione della Riforma Maroni,
anche per essi, dell’uso a fini previdenziali dell’equivalente della
liquidazione. Affinché ciò avvenga nel concreto, sono necessari accordi
specifici tra l’amministrazione pubblica e le OO. SS. La stragrande
maggioranza dei dipendenti pubblici, compresi quelli degli enti locali,
non dovrà quindi manifestare alcuna scelta, né, in caso di silenzio, vedrà
la propria liquidazione finire nei fondi pensione. La scadenza del 2008
non riguarda infatti la sfera del pubblico impiego. La puntuale disciplina
del pubblico settore a cui il decreto rinvia chiamando in causa specifiche
norme delegate che svolgeranno il compito di regolamentare il settore
stesso, non fa che creare una “sfavorevole” differenziazione tra i settori
pubblico e privato a discapito del primo.
Relativamente al lungo e tormentato iter di approvazione del
provvedimento, esso è stato sicuramente frutto dell’importanza della
posta in gioco: il flusso annuo di tfr è stimato infatti intorno ai 14
miliardi di euro, cui vanno aggiunti circa 4 miliardi di euro di contributi
a carico dei datori di lavoro.
Tutte le parti in causa hanno cercato di tutelare al meglio i propri
interessi e la decisione di rinviare l’entrata in vigore al 2008, presa
5
all’ultimo minuto, testimonia le difficoltà di concordare una soluzione
che accontentasse tutti gli attori.
Le imprese (in primis Confindustria) hanno manifestato la propria
preoccupazione per la possibile perdita del tfr come fonte di
autofinanziamento a buon mercato, chiedendo in cambio le
compensazioni previste dalla delega, secondo cui il conferimento del
trattamento di fine rapporto è subordinato all'assenza di oneri per le
imprese.
Il presente lavoro, parte da una breve analisi dell’evoluzione del sistema
pensionistico pubblico italiano nel secolo scorso, con particolare
riferimento alla crisi degli anni ‘80 - ‘90 e ai provvedimenti che gli
hanno conseguito. Si procede poi con la descrizione dell’inquadramento
costituzionale della previdenza complementare nonché con la
specificazione dell’evoluzione normativa in materia: dal Decreto
legislativo n. 124 del 1993 al Decreto legislativo n. 252 del 2005.
Il secondo capitolo, propone un approfondimento sul trattamento di fine
rapporto come principale strumento di finanziamento della previdenza
complementare, passando attraverso la puntuale disciplina dell’art. 8 del
D. lgs. n. 124/1993 e il dibattito avuto in giurisprudenza sulla natura
della contribuzione ai fondi pensione.
Il terzo capitolo, affronta invece lo stesso tema del finanziamento della
previdenza complementare con inerenza al pubblico settore, occupandosi
in particolar modo del problema dell’assenza del trattamento di fine
rapporto e delle conseguenti modalità risolutive introdotte in merito.
Infine, il quarto capitolo approfondisce il tema dello sviluppo della
previdenza complementare passando per la Riforma Maroni e il
conseguente Decreto legislativo n. 252/2005.
6
In particolare, ci si concentra sul meccanismo del silenzio - assenso
previsto per la destinazione del trattamento di fine rapporto maturando ai
Fondi pensione - che opererà solo a partire dal 2008 -, nonché sui
problemi legati a tale previsione.
7
CAPITOLO PRIMO
LA PREVIDENZA COMPLENTARE NEL SISTEMA
COSTITUZIONALE ITALIANO
SEZIONE PRIMA
1.1. L’evoluzione del sistema di previdenza complementare in Italia:
dall’anomia di settore alla previdenza complementare
Il quadro storico della previdenza complementare trae origine dalla
difficoltà della previdenza di base nel realizzare il soddisfacimento di
tutti quei bisogni socialmente rilevanti a favore dei quali vi era
originariamente il diretto intervento dello Stato. Sin dai primi anni del
dopoguerra, il sistema previdenziale italiano, per far fronte alla crescente
inflazione post-bellica e alle difficoltà economiche connesse alla
ricostruzione del sistema produttivo, aveva abbandonato il finanziamento
delle prestazioni previdenziali e, specificamente, pensionistiche
attraverso il regime a capitalizzazione relativo agli anni ’30, adottando il
metodo a ripartizione. Allo stesso tempo, alla fine degli anni ’60,
l’introduzione del criterio di calcolo delle pensioni secondo il modello
retributivo, per cui le prestazioni erano calcolate sulla base della
retribuzione media del periodo finale del rapporto di lavoro (c.d.
pensione retributiva: d.p.r. n. 488 del 1968, legge n. 153/1969), aveva
creato l’aspettativa di un sistema previdenziale pubblico in continua
espansione e in grado di assicurare ai lavoratori prestazioni
8
proporzionate al tenore di vita raggiunto al termine della carriera
lavorativa
1
.
L’adozione del criterio retributivo era stata necessaria per
l’“iperinflazione” di allora, che aveva reso nulli i rendimenti dei
patrimoni accumulati in precedenza e per l’estensione dei diritti della
previdenza sociale a categorie di lavoratori più ampie.
Il sistema a capitalizzazione infatti, comporta il versamento da parte del
singolo lavoratore dei contributi accantonati in un “conto” a lui solo
intestato. Quando il lavoratore cessa la sua attività, riceve la pensione
pari al capitale accumulato ed ai risultati degli investimenti del capitale
stesso: in pratica, attraverso tale sistema «opera un congegno di genere
assicurativo e finanziario che assume l’età anziana come un rischio da
sopportare e da amministrare ognuno per sé»
2
.
Nel sistema a ripartizione, invece, la spesa del pagamento delle pensioni
deve essere coperta dai contributi versati nello stesso periodo dalla
popolazione attiva: ogni lavoratore «...sottrae alla sua ricchezza
finanziaria e consegna ad un soggetto pubblico di raccolta quanto
occorre per erogare una rendita alla generazione degli anziani in
pensione, maturando così il diritto a ricevere una rendita pensionistica
dai contributi della nuova generazione di lavoratori attivi quando sarà a
sua volta diventata generazione degli anziani»
3
. Attraverso quest’ultimo
metodo, dunque, acquista importanza sempre crescente la presenza di
una forte solidarietà intergenerazionale.
Il sistema previdenziale italiano, con un’economia in forte crescita
accompagnata da una decisa espansione demografica, aveva quindi
scelto un sistema pensionistico a ripartizione, totalmente dipendente dal
1
CINELLI, Diritto della previdenza sociale, Torino, 2005, 61.
2
BESSONE, Previdenza complementare, Torino, 2000, 4.
3
Ibidem.
9
livello di occupazione e dal rapporto tra popolazione attiva e quella in
quiescenza. È apparso pertanto inevitabile, alla fine degli anni ’80, che il
nostro sistema economico abbia avuto difficoltà a garantire l’equilibrio
della gestione della previdenza di base a causa della sopravvenuta
contrazione occupazionale e dell’invecchiamento della popolazione
relativo a questi ultimi decenni
4
.
Tutto ciò ha indotto il legislatore a valutare un passaggio graduale dal
suddetto sistema a quello a capitalizzazione individuale garantendo ai
lavoratori un livello inferiore di tutela attraverso prestazioni rese dalla
previdenza di base di importo minore. Questo ha determinato, a sua
volta, la necessità di un intervento della previdenza complementare per
salvaguardare, grazie al concorso della previdenza pubblica e di quella
complementare, le esigenze di vita dei lavoratori garantite dall’art. 38
della Costituzione
5
.
Così, in occasione delle riforme pensionistiche degli anni ‘90
6
, il
legislatore si è trovato, per così dire, “costretto” a fare della previdenza
complementare un regolamentato secondo “pilastro” previdenziale
accanto al primo costituito dalla previdenza di base, in coerenza con gli
orientamenti degli altri Paesi europei
7
.
4
È opinione condivisa in dottrina e nelle istituzioni europee che tale problema non riguardi solo il
nostro Paese, ma tutti gli Stati dell’Unione. Sul punto, FRUCI, Politica sociale e sistemi previdenziali:
gli esiti del convegno i.e.s.s. 2000, in Riv.Inf.Mal.Prof., 2000, 1011 ss., dove l’A. propone una sintesi
delle tematiche trattate nel corso della Conferenza di Goteborg, con specifico riferimento alla
questione dell'affidabilità del Sistema di sicurezza sociale alla luce dei cambiamenti economici e
sociali, è analizzata in riferimento alle riforme del sistema pensionistico e ai progetti di sostegno
all'occupazione. In questo contesto, secondo l’A., il ruolo del settore pubblico è molto importante per
garantire maggiore stabilità al sistema. A ciò si aggiunge il maggiore impegno che la CE deve
prendere nei confronti della politica sociale.
5
M. BESSONE, op. cit., 5.
6
D.lgs. n. 503 del 1992; legge 335 del 1995.
7
In una prospettiva comparata, nota già agli inizi degli anni ’90 OLIVELLI, Previdenza integrativa ed
Europa del 1993, in Dir. Lav., 1990, I, 427, che i sistemi previdenziali pubblico e privato avrebbero
dovuto necessariamente convivere nel futuro: la previdenza complementare avrebbe dovuto soddisfare
bisogni socialmente rilevanti, la cui realizzazione non sarebbe potuta essere totalmente assicurata
dallo Stato.
10
A tale scopo ha provveduto in attuazione della delega attribuita dalla
legge n. 421 del 1992, il d. lgs. 21 aprile 1993, n. 124 (integrato e
modificato più volte)
8
.
Questa scelta risponde alla tendenza sempre più radicata (anche negli
altri Paesi) di affidare le politiche sociali di welfare state non solo ad
iniziative e strutture pubbliche ma anche a soggetti collettivi (anche
operatori privati singoli o associati)
9
.
Peraltro, occorre osservare che già prima degli interventi degli anni ’90,
la previdenza complementare o integrativa si era diffusa, sebbene in
condizioni di sostanziale anomia, in alcuni settori nella logica degli artt.
38, 5° comma, e 47 Cost
10
.
8
D. lgs. N. 585 del 1993; legge n. 335 del 1995; legge n. 449 del 1997; d. lgs. N. 47 del 2000; d. lgs.
N. 168 del 2001.
9
CINELLI, op. cit., 548. v. anche BOZZAO, La previdenza pensionistica complementare: il d.lg. n.
124/93 alla luce dell' esperienza europea e degli orientamenti comunitari, in Dir.Lav, 1993, I, 377.
10
Sul tema, v. infra.
11
1.2.L’inquadramento costituzionale della previdenza complementare
1.2.1. Previdenza complementare e previdenza privata
Le radici dell’affermazione dell’idea del welfare state, cioè di un
modello di Stato che assicura il benessere dei propri cittadini realizzando
la libertà dal bisogno, sono da ricercare nei lavori della Commissione
D’Aragona negli anni del dopoguerra
11
che – sulla scia dell’orientamento
internazionale – propose anche per l’Italia le innovazioni realizzate
altrove al fine di riformare la previdenza sociale
12
. Nonostante il sistema
italiano non permettesse una facile applicazione integrale della sicurezza
sociale a causa della sua forte tradizione di tipo assicurativo –
mutualistico, i principi della sicurezza sociale volevano essere tradotti in
norme positive e rapporti giuridici, come era accaduto negli altri Stati,
dando concretezza alla responsabilità sociale della collettività, attraverso
l’universalità e l’uguaglianza delle prestazioni, e soprattutto la solidarietà
generale e tra generazioni.
Particolarmente, la solidarietà generale doveva fornire i mezzi per la
tutela universalistica non più in un’ottica sinallagmatica e categoriale,
bensì generalizzata e gravante sull’intera collettività, così da superare il
sistema contributivo per riconoscere il diritto alle prestazioni ad ogni
individuo che si trovasse in condizione di bisogno, attraverso un
principio di automaticità, attuando un sistema a ripartizione per
l’ulteriore finalità della redistribuzione del reddito. Veniva posto poi in
11
La Commissione, istituita con decreto 22 aprile 1947, n. 377, presso il Ministero del lavoro e della
previdenza sociale, concluse i suoi lavori il 9 febbraio 1948. In tale occasione, il Prof. SANTORO –
PASSARELLI sottolineò come l’uso del termine assicurazioni sociali” fosse stato bandito dalla
commissione per accogliere quello di “previdenza sociale”: cfr. SANTORO – PASSARELLI, Rischio e
bisogno nella previdenza sociale, cit., pag. 1151, nota 1. Di diverso avviso VENTURI ne, I fondamenti
scientifici della sicurezza sociale, 112, nota 1, il quale respinge l’uso del termine previdenza sociale
per il significato non univoco che le è stato attribuito e per la sua mancata accettazione nella dottrina
straniera, ed accoglie, invece, quello di “assicurazioni sociali”, su cui, come l’A. afferma, «esiste
universale consenso, indipendentemente dalle divergenti opinioni sull’appartenenza o meno del
sistema alla categoria giuridica dell’assicurazione».
12
Cfr. per l’argomento CIOCCA, La libertà della previdenza privata, Milano, 1998, 28 ss.
12
risalto il rapporto tra sicurezza sociale e libertà, un rapporto delicato in
quanto il rischio di un sistema perfettamente organizzato per garantire
sicurezza, e dunque libertà dal bisogno, come libertà in senso negativo
(libertà da) potrebbe essere quello di tradursi, paradossalmente, nella
negazione della liberta in senso positivo, cioè la libertà “del” singolo e la
libertà “per” il singolo
13
.
La problematica, dunque, ieri come oggi, investe la questione portante
per un ordinamento che voglia essere considerato democratico: quella
della libertà. Ed è proprio di un assetto pluralistico, coniugare la
realizzazione della sicurezza sociale, attraverso l’azione previdenziale e
assistenziale dello Stato con quella dei gruppi sociali e dei singoli,
espressione sostanziale della loro libertà.
Questa finalità è in linea con gli obiettivi di fondo della Costituzione
italiana, sanciti, in particolare negli artt. 2 e 3, e con la concezione
dell’autonomia dei privati, sia individuale sia collettiva, ed offre anche il
criterio che consente di interpretare direttamente l’art. 38 Cost. E ciò è
tanto più importante oggi dopo che la riforma pensionistica dettata dalla
legge 8 agosto 1995, n. 335, nell’identificare, all’art. 1, i suoi obiettivi
fondamentali, ha richiamato espressamente l’art. 38 della Costituzione e
che, per la prima volta, attraverso il d. lgs. n. 124 del 1993 e successive
modificazioni, è stata prevista una disciplina della previdenza privata,
intesa come previdenza complementare
14
.
13
Afferma ALIBRANDI in, Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Milano, 1994, 134, che
«occorre realizzare non soltanto una libertà dal bisogno, ma anche una libertà per la salvaguardia della
persona umana. La libertà da una negatività, anziché essere assunta per se stessa, come se fosse
sufficiente, deve essere integrata con una libertà per una positività, anche questa necessaria per una
autentica garanzia della persona umana».
14
Il sistema delle pensioni è stato sottoposto, negli ultimi anni, ad un processo di riforma prima con
l’art. 3 della legge delega 421/1992 e i relativi decreti legislativi, nonché con le leggi integrative,
comprese quelle sul blocco delle pensioni di anzianità. Su tale legislazione, CINELLI - PERSIANI,
Prodromi, svolgimenti e prospettive della riforma previdenziale, in CINELLI - PERSIANI, Commentario
della riforma previdenziale, Dalle leggi “Amato” alla finanziaria 1995, Milano, 1995, 1 ss.; FERRARO
- MAZZIOTTI, Presentazione, in FERRARO - MAZZIOTTI (a cura di ), Il sistema pensionistico riformato,
13
Per verificare l’influsso della sicurezza sociale sull’art. 38 Cost. e sul
problema della libertà nella previdenza, è fondamentale l’apporto della
dottrina che ha analizzato, con risultati assai diversi, la norma
costituzionale
15
.
Complessivamente, è lecito affermare che le opinioni su quale sia il
referente costituzionale della previdenza complementare si sono distinte
in funzione della sua riconduzione alla previdenza pubblica (e quindi al
2° comma dell’art. 38 Cost.) ovvero a quella privata (e dunque al comma
5° dell’art. 38 Cost.).
Tra le concezioni che distinguono funzionalmente la previdenza pubblica
da quella privata, è stata autorevolmente sostenuta la posizione secondo
cui la previdenza complementare si identifica con la previdenza privata e
appartiene ad una sfera assolutamente distinta e autonoma da quella
pubblica: essa è «espressione essenziale di libertà nell’attuazione di
forme protettive, che completano o elevano le prestazioni del sistema di
solidarietà pubblica» il quale è esclusivamente «ordinato alla
realizzazione della direttiva della liberazione dal bisogno e alla tutela dei
cittadini socialmente sottoprotetti»
16
. Secondo questa impostazione, la
previdenza complementare, in quanto previdenza privata, è espressione
di libertà e non tollera funzionalizzazioni per il perseguimento di tutele
Napoli, 1994, XIII ss.; CAZZOLA, Le nuove pensioni degli italiani, Bologna, 1995, 50 ss., poi con la L.
335/1995 ed infine con l’art. 59 L. 449/1997, che ha accelerato, con alcune eccezioni, i tempi di
attuazione della riforma del 1995, specialmente per quanto riguarda la pensione di anzianità, sulle
linee generali della quale, anche in rapporto alla precedente normativa, CESTER, Il quadro giuridico:
principi generali e linee di tendenza, in CESTER (a cura di ), La riforma del sistema pensionistico,
Torino, 1996, 3 ss.; PESSI, Corrispettività e solidarietà nel nuovo sistema previdenziale, in PESSI (a
cura di), La riforma del sistema previdenziale, Padova, 1995, 1 ss. Cfr. anche LAGALA - GAROFALO,
Lineamenti di diritto della della previdenza sociale, Bari, 2003, 63 ss., MAZZIOTTI, Diritto della
previdenza sociale, Napoli, 1999, 149 ss., CINELLI, Diritto della previdenza sociale, Bologna, 2005,
452 ss., DE SIMONE, Pianeta pensioni, Milano, 1999, 136 ss.
15
Per le diverse opinioni della dottrina v. OLIVELLI, La Costituzione e la sicurezza sociale. Principi
fondamentali, cit., 69 ss.
16
Così GRANDI, Previdenza integrativa e previdenza privata, in AA. VV., Questioni attuali di diritto
del lavoro, NGL – suppl., Roma, 1989, 220 ss.
14
relative alla garanzia degli standard protettivi socialmente rilevanti
17
,
affidate nella Costituzione ad interventi predisposti o integrati dallo
Stato; essa trova quindi il suo referente nell’ultimo comma dell’art. 38
Cost.
Non si potrebbe rilevare nessuna differenza di ruolo tra previdenza
privata (individuale ) e previdenza complementare (collettiva) , essendo
entrambi fenomeni di libertà – tutt’al più qualificato e arricchito, il
secondo, dal connotato sindacale (art. 39 Cost.)
18
– estranei alla logica
funzionale del sistema pubblico di sicurezza sociale.
Tale impostazione, è dunque volta ad interpretare l’art. 38 come la
previsione di un servizio pubblico finalizzato alla liberazione dal
bisogno, al quale sia la previdenza sociale, sia l’assistenza sociale
devono rispondere, seppure in modo diverso, ma sempre in attuazione di
un preciso dovere dello Stato, desunto dal combinato disposto dell’art.
38 Cost. con il secondo comma dell’art. 3 Cost
19
.
Dunque lo Stato ha un ruolo centrale nella realizzazione di interessi
generali, in un sistema in cui la tutela previdenziale viene attuata
immediatamente come fine pubblico e solo mediatamente per soddisfare
interessi di individui e gruppi, «che vengono protetti solo in quanto
connessi con l’interesse pubblico»
20
; e questo con il ricorso alla
solidarietà generale di tutta la collettività.
L’interesse privato, quando non diventa interesse pubblico, resta
l’oggetto di eventuali ed ulteriori interventi, volti a rispondere a bisogni
diversi rispetto a quelli tipici e consentiti dall’ordinamento costituzionale
17
Cfr. TURSI, La previdenza complementare nel sistema italiano di sicurezza sociale, Milano, 2001,
14.
18
PERSIANI, Retribuzione, previdenza privata, Roma, 1989, 258.
19
E’ la nota impostazione di PERSIANI ne: Il sistema giuridico della previdenza sociale, cit., poi
ripresa e sviluppata in tutti i saggi successivi, fra i quali, in particolare, il Commento all’art. 38, cit.
Sicurezza sociale (voce), cit.. v. anche ROSSI, Previdenza sociale, Padova, 1980.
20
Così, PERSIANI, Il sistema giuridico della previdenza sociale, cit., 144.
15
(art. 38 ult. comma), ma totalmente indifferenti per lo Stato, che realizza ,
invece, solo l’interesse pubblico.
La previdenza privata, in questa prospettiva, avrebbe nella Costituzione
solo la garanzia di sussistenza, essendo assente un collegamento con la
tutela previdenziale pubblica e con l’idea di sicurezza sociale, perché
profondamente diverse sarebbero le due funzioni.
Nel sistema previdenziale inteso come servizio pubblico si possono
evincere non più i rischi legati a schemi assicurativi, bensì i bisogni
socialmente rilevanti, esistenti effettivamente e non solo oggettivamente
determinati
21
. Altre tipologie di bisogni, come quelli connessi al
mantenimento del tenore di vita raggiunto durante l’attività lavorativa,
vengono ritenuti estranei al sistema pubblico e riservati alla previdenza
privata.
1.2.2. Previdenza complementare e art. 38, comma 2°, Cost.
La seconda impostazione che riconduce invece la previdenza
complementare al comma 2° dell’art. 38 Cost., si basa al contrario sulla
possibilità che privato e pubblico possano concorrere «alla realizzazione
di un armonico disegno normativo, mirante ad assicurare l’adeguatezza
degli strumenti, affinché i singoli lavoratori possano fronteggiare le
proprie esigenze di vita, nelle ipotesi dannose ed aleatorie previste dal
medesimo art. 38 Cost.»
22
.
21
Cfr. PERSIANI, Rischio e bisogno nella crisi della previdenza sociale, in Atti delle giornate di studio
A.I.D.LA.S.S., (Rimini 28 – 29 aprile 1984), Milano, 1985, 11.
22
Così, FLAMMIA, La previdenza integrativa tra pubblico e privato, in AA. VV., Questioni attuali di
diritto del lavoro, cit., 202 ss. V. soprattutto PESSI, La nozione di previdenza integrativa, in
Quad.Dir.Lav.Rel.Ind., n. 3/1988, 63 ss.