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su un’efficace strategia di comunicazione. Tutto questo significa intervenire in profondità
all’interno dell’impresa, nel suo tessuto, e operare un cambiamento prima di tutto culturale.
Il concetto di responsabilità sociale si lega fortemente – e si evolve – con la tendenza
alla delocalizzazione produttiva, che ha assunto un’importanza cruciale nelle imprese
contemporanee.
Ciò avviene in risposta alla crescente necessità competitiva delle aziende, obbligate a
reagire tempestivamente e in modo flessibile ad una domanda di mercato sempre più
complessa, articolata ed eterogenea. Non va però tralasciato come la delocalizzazione
produttiva sia anche a volte una strada obbligata per raggiungere l’eccellenza nella
produzione di beni o nella fornitura di servizi.
La tendenza cui si assiste, pertanto, è verso il superamento di strutture organizzative di
grandi dimensioni, statiche, rigidamente concentrate in un unico ambiente organizzativo e
territoriale e, all’opposto, le aziende sperimentano modelli organizzativi decentrati di minori
dimensioni. Superando i confini fisici dell’unità centrale l’impresa si articola sul territorio,
spesso anche a livello globale, ricercando l’integrazione con una forte cultura e
comunicazione aziendale, con l’obiettivo di ricercare un miglioramento continuo dei livelli
qualitativi dei cicli produttivi, delle risorse impiegate, delle condizioni di lavoro nonché della
qualità del prodotto/servizio.
I due concetti – CSR e delocalizzazione – si fondono per creare ciò che può essere
definita delocalizzazione responsabile. Secondo una ricerca di Altis-Operandi1, la
delocalizzazione può essere percepita, da una parte come una sorta di “tradimento”
dell’impresa italiana, dall’altra come un’opportunità affinché l’impresa possa essere più
competitiva sul mercato. Il 52% dei cittadini ritiene che un impresa è socialmente
responsabile se non delocalizza la produzione all’estero, mentre la percentuale scende
sensibilmente al 31% tra gli stakeholder, cioè tra quegli “addetti ai lavori” che riescono ad
apprezzare maggiormente i vantaggi dell’internazionalizzazione produttiva.
La presente tesi si compone di cinque capitoli. Nel primo verrà analizzato il concetto
di responsabilità sociale d’impresa in un contesto internazionale. La tematica della CSR è un
argomento ampiamente dibattuto sia dal punto di vista accademico che dal punto di vista
aziendale. Minori, invece, sono i contributi relativi alla disciplina calata in un contesto
internazionale, nel quale è necessario analizzarne maggiormente le implicazioni.
1
I Quaderni dell’Osservatorio Operandi, volume I, luglio 2005.
http://altis.unicatt.it/Allegati/Quaderni_OssOperandi_1.pdf
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Il secondo capitolo tratta dei processi di delocalizzazione e delle cause ed effetti ad
esso correlato. Si analizzerà, soprattutto da un punto di vista quantitativo, come le imprese
competono nei mercati globali e fortemente competitivi. Non mancherà un’esposizione degli
strumenti che le imprese hanno a disposizione per internazionalizzarsi ed un approccio critico
alle difficoltà che le imprese italiane affrontano sui mercati esteri.
Il terzo capitolo si focalizza sul processo di delocalizzazione che coinvolge l’Egitto. Il
paese presenta una serie di caratteristiche strutturali positive che permettono alla nazione di
posizionarsi tra le mete più ambite per le imprese straniere, diventando un vero ponte tra
l’Europa e il mondo arabo.
Il Miro Radici Group è un solido gruppo industriale che opera principalmente nel
settore tessile e meccanotessile. Nel quarto capitolo si analizzerà in maniera approfondita
l’azienda sia dal punto di vista dell’approccio alla responsabilità d’impresa sia dal punto di
vista della delocalizzazione produttiva. Infatti, il Miro Radici Group, per rimanere
competitivo nei mercati altamente concorrenziali nei quali opera, ha dovuto modificare
fortemente la struttura aziendale dirottando parte della propria produzione in Asia e in Egitto.
Nell’ultimo capitolo si affronterà il caso di Chimica Edile srl, una piccola impresa
industriale ma con una proiezione decisamente internazionale. Qui la CSR, nonostante le
limitate dimensioni aziendali, ricopre un ruolo rilevante e, pur nella limitatezza degli
strumenti a disposizione, si posiziona all’interno della realtà aziendale in modo esplicito e
formalizzato.
La tesi si pone l’obiettivo di unire i due concetti – responsabilità d’impresa e
internazionalizzazione produttiva – per raggiungere quella che è stata sopra definita come
delocalizzazione responsabile. Il risultato vuole essere perseguito combinando un primo
contributo teorico ad una verifica dei concetti “sul campo” tramite i due casi aziendali.
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CAPITOLO 1
LA RESPONSABILITA’ D’IMPRESA NEL CONTESTO
INTERNAZIONALE
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1.1 LA RESPONSABILITA’ D’IMPRESA IN UN’OTTICA GLOBALE
La CSR è uno degli argomenti attualmente più dibattuti nel mondo delle imprese.
Molti manager sono ansiosi di comunicare la loro attenzione verso l’impatto del proprio
business sul sistema sociale e sull’ambiente, e che stanno operando efficacemente affinché
questo impatto diminuisca. Il problema è: come può l’impresa capire se sta operando
correttamente su questo fronte? Molte discussioni sulla CSR vertono sui principi di
accounting e sullo sviluppo di una struttura che permetta di aggiungere le misure sociali ed
ambientali alle performance finanziarie per creare la triple bottom line2.
Fra le varie soluzioni teoriche a questi problemi la predominante suggerisce di
internalizzare le esternalità. Questo significa che alle imprese dovrebbe essere richiesto il
pagamento dei costi imposti alla società tramite le esternalità create. Così si incoraggerebbe
l’impresa, ad esempio, ad adoperarsi per ridurre l’inquinamento prodotto3.
Attualmente ci troviamo ben distanti da questa soluzione teorica. Le imprese
potrebbero operare in modo migliore nell’ambito della CSR. Dovrebbero misurare con cura
l’impatto ambientale e sociale prodotto – anche se diverse aziende già lo fanno tramite il
bilancio sociale – anziché implementare sporadiche iniziative di facciata per testimoniare la
propria adesione ai principi della CSR.
Trascurare palesemente i temi etici di ordine globale può provocare gravi danni, fino
alla perdita di parte dei propri clienti nazionali. In più ricerche è stato evidenziato che i
consumatori, dal momento che riconoscono che l’azienda opera a livello mondiale in maniera
non etica, esprimono un disaccordo evitando i prodotti dell’azienda in questione. Per non
parlare dell’impatto di questa tematica sui dipendenti e sugli investitori.
Perfino Adam Smith, padre del capitalismo, sosteneva che valori morali come apertura
e fiducia sono parte integrante di un capitalismo di successo. Smith avvertiva che se vengono
violate queste regole il sistema non può funzionare correttamente.
2
Il concetto di Triple Bottom Line è stato introdotto per la prima volta dal sociologo ed economista inglese John
Elkington con la sua SustainAbility Ltd. Il termine Triple Bottom Line è finalizzato ad indicare la triplice
dimensione delle attività economiche delle imprese: non solo i profitti pure legittimi e necessari, ma anche il
rispetto sociale del personale e della comunità, e quello egualmente fondamentale dell'ambiente.
3
In questo ambito si può citare ‘Responsible Care’che è il programma volontario dell’industria chimica
mondiale basato sull’attuazione di principi e comportamenti riguardanti la sicurezza dei dipendenti e la
protezione ambientale. Per quanto riguarda la protezione ambientale si richiede di agire "pro-attivamente" per
soddisfare definiti standards ambientali, tramite sistemi di gestione ambientale e progetti di riduzione delle
emissioni e dei rifiuti.
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Anche Larry Smeltzer [Davids 1999], professore all’Arizona State University,
intravede una correlazione tra gli standard etici e il successo economico. “Se guardi le nazioni
più industrializzate al mondo – Usa, Canada e Europa Occidentale – troverai un’elevata
sensibilità etica. Le cose vanno di pari passo. Invece, le nazioni con bassi standard etici come
molti paesi africani, hanno anche scarse norme che regolano il business. La mancanza di
apertura e standard definiti fa allontanare le imprese straniere”.
Le due principali aree di intervento della CSR sono i diritti umani e il rispetto
dell’ambiente. Per quanto riguarda il primo campo è interessante analizzare l’operato di Levi
Strauss del 1993 in Bangladesh. In quell’anno Levi’s si è trovata ad affrontare il problema
dello sfruttamento del lavoro minorile da parte dei fornitori tessili locali, in un paese dove i
ragazzi che non hanno un lavoro sono costretti a mendicare. Levi’s ha intelligentemente
risolto il problema rimuovendo dalle fabbriche i minorenni ma continuando a pagar loro lo
stipendio, a condizione che frequentassero la scuola full time. Quando questi ragazzi
raggiunsero i quattordici anni ripresero il lavoro in fabbrica.
Per quanto riguarda la seconda area di interesse – l’ambiente – ci sono tre motivi
principali per considerarlo tra le tematiche a cui dare priorità. Innanzitutto i media stanno
allargando il loro interesse anche a disastri ambientali che accadono nei paesi lontani. Ad
esempio, tra i media occidentali ha suscitato ampio clamore nel novembre 2005 lo scoppio
dell’impianto chimico della China National Petroleum Corporation4 che ha inquinato le acque
del fiume Songhua, mettendo a repentaglio la vita di milioni di cinesi. Il secondo motivo si
riferisce alla crescente consapevolezza che le azioni ambientali che avvengono in una parte
del mondo influenzano negativamente anche il resto del pianeta. E infine, ci sono i costi. Se
un’azienda produce inquinamento è tenuta, in qualche modo, a coprire il valore delle
esternalità negative prodotte.
4
http://it.wikinews.org/wiki/Cina_inquinamento_del_fiume_Songhua_2005. Il 23 novembre scorso,
un'improvvisa esplosione nell'impianto chimico della China National Petroleum Corporation, ha provocato il
rilascio nelle acque del fiume Songhua di tonnellate di benzene
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1.1.1 IL CODICE ETICO
Come possono le imprese che operano a livello globale navigare nelle tumultuose
acque della responsabilità sociale? Secondo gli esperti, implementando con forza un vero
programma etico e riconoscendo che, nonostante le differenze culturali, alcuni valori
fondamentali sono validi in tutto il mondo [Davids 1999].
Il codice etico può definirsi come la “Carta Costituzionale” dell’impresa, una carta dei
diritti e doveri morali che definisce la responsabilità etico-sociale di ogni partecipante
all’organizzazione imprenditoriale. E’ un mezzo efficace a disposizione delle imprese per
prevenire comportamenti irresponsabili o illeciti da parte di chi opera in nome e per conto
dell’azienda, perché introduce una definizione chiara ed esplicita delle responsabilità etiche e
sociali dei propri dirigenti, quadri, dipendenti e spesso anche fornitori verso i diversi gruppi di
stakeholder.
Per implementare un programma etico all’interno dell’impresa, scrivere un codice nel
quale viene indicato cosa possono fare i dipendenti e cosa non possono fare è tipicamente il
primo passo. Per fare questo è consigliato la costituzione di comitati specifici composti da
lavoratori provenienti dalle diverse realtà ed analizzarne le loro proposte. In questa fase si può
facilmente commettere l’errore di costruire il codice improntato sulla sola realtà della casa-
madre, senza considerare le implicazioni che comporterebbe all’estero.
Infatti, vi sono fattori che possono essere definiti culture-specific (moral free zone,
vedi §1.3). Ad esempio in Europa, rispetto agli USA, c’è una minore disponibilità a
denunciare violazioni etiche perpetrate da colleghi al medesimo livello gerarchico. In questi
casi dovranno essere progettati dei sistemi di reporting che permettano di aggirare questo tipo
di problematica.
Una volta concluso e accettato da tutte le unità, il codice deve diventare un documento
vivo e al centro dell’attenzione. Ad ogni lavoratore deve essere chiaro come riferirsi ad esso
nelle operazioni di tutti i giorni.
Nella preparazione del codice etico le imprese devono individuare un difficile
equilibrio tra le sensibilità culturali delle regioni straniere e il proprio senso di corretto ed
etico. Sono da evitare entrambi gli estremismi: l’approccio ‘il mio modo di fare è quello
corretto’ e il relativismo assoluto. Il processo per costruire un modello che assicuri che il tuo
comportamento rispetta i principi etici è fondamentale. Se si progetta correttamente questo
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processo si può essere sicuri delle proprie decisioni, anche se altri soggetti arriveranno a
conclusioni differenti.
1.2 LE STRATEGIE GLOBALI
La pressione pubblica sulle aziende è in aumento in questi ultimi anni. La domanda è
ulteriormente stimolata dalla rapida crescita del mercato globale che ha messo in contatto le
aziende multinazionali con sempre più pubblico. Il nuovo ‘ordine economico’ spinto da un
rapido miglioramento delle tecnologie, da un affievolimento delle barriere commerciali, e da
un incremento nel trasferimento della conoscenza, suggerisce la necessità di un nuovo modo
di considerare la responsabilità sociale delle imprese in un contesto internazionale.
E’ stata condotta una ricerca sul database Business Source Premier [Marne 2005] ed è
stato rilevato un numero molto basso di studi empirici internazionali sulla CSR (es. cross-
cultural) rispetto al totale dei contributi riguardanti questa tematica. C’è ancora tanto lavoro
da fare relativamente agli studi inter-culturali di valori e comportamenti etici, nonostante un
crescente interesse nella gestione internazionale di queste dimensioni etiche. E’ necessario
sottolineare che gli studi inter-culturali si presentano concettualmente e metodologicamente
complessi e, quindi, difficili da condurre.
Secondo uno studio di Bartlett e Ghoshal [1998] su nove multinazionali operanti in
differenti paesi/settori, le aziende tendono ad aggregarsi attorno a quattro distinti modelli
relativamente alla strategia, alla struttura e ai processi gestionali.
Le imprese multinazionali enfatizzano l’importanza di un adattamento locale e di
un’attenzione alle differenze nazionali, e tendono ad essere strutturate come una
decentralizzata e debolmente coordinata serie di filiali nazionali. La loro accentuata sensibilità
all’ambiente locale porta queste imprese a modificare i loro prodotti, il marketing, e i processi
di business in base all’alto grado di conoscenza locale e di potere decisionale periferico.
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All’altro estremo opposto si trovano le imprese globali, che enfatizzano i vantaggi di
costo derivanti dall’integrazione, e quindi da una funzione strategica centralizzata nella sede
principale. Esse ipotizzano la presenza di un segmento di mercato globale con un alto grado di
interessi comuni e tendono a soddisfare i loro consumatori con prodotti standardizzati di una
adeguata qualità a prezzi ragionevoli, indipendentemente dalla localizzazione.
Il terzo gruppo può essere etichettato come imprese internazionali. Tendono anche
loro ad avere una gestione centralizzata molto forte, ma in questo caso il focus si sposta ad un
trasferimento e ad un adattamento locale delle pratiche centralizzate da parte di filiali
commerciali straniere. I prodotti sono sviluppati prima nella nazione d’origine e poi venduti
all’estero. Le filiali commerciali estere sono utilizzate allo scopo di supportare la casa-madre
nelle vendite e nell’approvvigionamento di materie prime.
In generale non è sempre possibile la scelta tra centralizzazione e coordinamento, a
questo punto risulta necessario introdurre un’ulteriore tipologia. Infatti, il nuovo approccio
che potremmo definire transnational suggerisce alle imprese di trovare un equilibrio tra le
necessità di centralizzare quando possibile e la spinta all’adattamento locale ove richiesto. Le
imprese transnational tendono a sviluppare una rete indipendente di unità periferiche nella
quale la conoscenza può essere trasferita in modo rapido e multidirezionale tra le strutture.
L’attenzione, quindi, si sposta allo sviluppo degli appropriati meccanismi di coordinamento
tra le unità regionali senza comprometterne le libertà di manovra.
1.2.1 APPROCCI ALLA CSR
1) Imprese Multinazionali. Le imprese che rientrano in questo approccio alla CSR
tendono a comportarsi in modo socialmente accettabile dalle realtà locali di ogni nazione nella
quale operano. Questa tipologia di impresa ritiene che sia troppo difficile, se non impossibile,
creare ed operare secondo un codice etico universalmente accettato. Una conferma empirica
di questa prospettiva è fornita da una recente indagine del World Business Council for
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Sustainable Development5. Infatti gli autori riportano “enfasi significativamente differenti” tra
le diverse regioni del mondo con riferimento alla CSR. “I concetti occidentali non devono
essere imposti agli altri paesi”
2) Imprese Globali. In contrasto con la precedente qui ci si riferisce ad un’autorità
morale che trascende i confini nazionali e le differenze culturali, tramite la quale può essere
definito uno standard universale e interculturale di comportamento etico delle imprese. I
sostenitori di questo approccio ritengono che i principi fondamentali sono simili nelle
differenti culture e religioni e, questi principi, possono essere utilizzati per indicare un
comportamento aziendale ideale che attraversa tutte le nazioni. In questo caso si può parlare
di ipernorme (vedi §1.3).
Le imprese che seguono l’approccio globale alla CSR tendono a stabilire un codice
universale di condotta e utilizzarlo in ogni contesto culturale nel quale operano. Questo è
sostanzialmente l’approccio delle Nazioni Unite nel creare il progetto Global Compact, che si
riferisce a una serie di dieci principi universali relativamente ai diritti umani, al lavoro, e
all’ambiente (vedi §1.7). In un discorso del 1999 al World Economic Forum il segretario
generale Kofi Annan ha suggerito ai leader mondiali di comprendere questi dieci principi
universalmente accettati nei loro processi di business.
3) Imprese Internazionali. La caratteristica principale di queste imprese è la
propensione ad esportare nei paesi esteri in cui si opera la filosofia e le pratiche domestiche di
CSR, senza alcun adattamento, e spesso anche senza preoccuparsi delle conseguenze. La
presunzione è quella che l’azienda, in qualche modo, ha una migliore conoscenza delle
corrette pratiche e, quindi, vuole condividerle con i paesi meno sviluppati. Numerosi sono gli
studiosi che denunciano questa forma di imperialismo morale.
4) Imprese Transnational. Condividere i principi basilari universali non vuol dire
seguire le medesime regole e pratiche in tutto il mondo, anzi questo approccio presuppone
differenti pratiche locali al fine di raggiungere il medesimo obiettivo finale. Il modello in
questione è in grado di bilanciare nel modo migliore la necessità di mantenere una identità
culturale locale con il necessario riconoscimento di valori che trascendono le singole
comunità.
5
http://www.wbcsd.org/DocRoot/IunSPdIKvmYH5HjbN4XC/csr2000.pdf
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1.3 VALORI ETICI GLOBALI: IPERNORME E MORAL FREE SPACE
Come possono i manager guidare con successo l’impresa nella tumultuosa ‘zona
grigia’ che si trova all’intersezione di differenti culture? Hofstede [1980] e altri ricercatori
hanno ampiamente dimostrato l’importanza delle differenze culturali nel business.
Alcune imprese, riconoscendo l’esistenza di differenze culturali, accettano
semplicemente tutto ciò che prevale nel paese ospitante [Donaldson-Dunfee 1999]. Così
facendo si rischia di commettere un errore in quanto si espone l’impresa, senza un adeguato
sistema di difesa, ai valori - anche non condivisibili - dell’ambiente ospitante e non si coglie
l’opportunità di individuare il necessario collante che permette l’impostazione di una strategia
di cooperazione. Viene sottovalutato il ruolo delle ipernorme, cioè di quei principi
fondamentali di riferimento che servono per valutare altre norme di ordine inferiore,
definendo ciò che può essere definito etico per l’umanità.
Un altro approccio, invece, consiste nell’esportare tutti i valori domestici all’estero,
con l’obiettivo - spesso in buona fede - di imitare i programmi etici di successo posti in essere
a casa propria. In questo caso si rischierebbe di correre l’errore di non rispettare le altre
culture, negando l’importante ruolo del moral free space.
Assunto che i valori etici di business variano da nazione a nazione, la domanda che si
può porre un global manager è: come è possibile gestire questa complessa e mutante realtà
globale?
Gli studiosi di questa materia hanno suggerito più soluzioni, anche radicali. Si va da un
estremo nel quale i manager cinicamente dovrebbero considerare l’ambiente del paese
ospitante alla pari degli altri fattori competitivi, all’altro opposto, nel quale prevale la
concezione che l’impresa, in ogni caso, produce nel paese ospitante più vantaggi che danni.