5
Zurigo nel 1869 che «riuscirono ad imporre una revisione della
Costituzione in seguito ad una serie di lotte e disordini».
«A partire da questo momento il governo verrà eletto direttamente dal
popolo e tutte le leggi adottate dal Parlamento saranno sottoposte a
votazione popolare», scrive Fahrni
6
ed è sempre Fahrni che rimarca come
la Costituzione federale adottata nel 1874 è ancor oggi attuale e come la
«democrazia referendaria, nella quale grazie al referendum ed alla
raccolta di firme ogni legge può essere sottoposta a votazione popolare,
rappresenta uno degli elementi più importanti nella storia della Svizzera
moderna. Fino ad oggi il referendum è rimasto l’elemento centrale del
sistema politico della Svizzera
7
».
La piccola ed industriosa Svizzera quindi costituisce un “miracolo” di
perfetta convivenza civile fra popoli di lingua e cultura diverse – tedesco,
francese, italiano, romancio - con un efficiente sistema istituzionale che
rende liberi i 23 cantoni di una Confederazione dove vivono oltre 7
milioni di cittadini su circa 42 mila kmq e gli elettori, e finalmente, ma
soltanto dal 1971, anche le elettrici vanno a votare per un referendum
almeno una o due volte l’anno sull’ordinamento del loro piccolo Stato.
Proprio sull’esempio della Svizzera l’Italia scelse di utilizzare lo
strumento del Referendum nel 1946 per voltare pagina in maniera netta
ed irreversibile nella sua storia civile. Analogamente aveva fatto la
Francia nel 1945 per chiudere con la Terza Repubblica ed avviare la IV.
«È nata la Repubblica italiana» titolava a tutta pagina il Corriere della
Sera, che aveva l’aggettivo “Nuovo” nella testata, fondata nel 1876 da
Eugenio Torelli Viollier, nell’edizione di giovedì 6 giugno 1946 e con un
6
Idem, pag. 86.
7
Idem, pag. 87.
6
fondo senza firma ma attribuibile al direttore Mario Borsa - che
nonostante le pressioni della proprietà aveva schierato il Corriere a
favore della Repubblica
8
- auspicava una “tregua nazionale”, dopo la
“tregua istituzionale” durata circa due anni dalla fine del secondo
conflitto mondiale, «durante la quale il popolo non dovrà pensare che a
riprendere concordemente il suo lavoro e ad operare gradatamente la sua
resurrezione».
I risultati del Referendum, il comportamento del Re e quello del
Presidente del Consiglio Alcide de Gasperi che assunse i poteri del Capo
dello Stato, il pericolo di una guerra civile con il Paese occupato dai
vincitori occidentali della Seconda Guerra Mondiale, insomma
quell’insieme di fatti della “calda estate del ‘46” è ancora oggi oggetto di
dibattito, tanto che lo storico Sergio Romano, rispondendo al lettore
Giovanni Coduri nella sua rubrica sul “Corriere della Sera” domenica 30
aprile 2006 con il titolo “Monarchia o Repubblica: la calda estate del
’46”, ha ricordato “una delle migliori inchieste sul referendum di Luigi
Barzini Jr. che apparve sul “Corriere della Sera” dall’1 al 9 gennaio
1960, in otto puntate, dove «Barzini arrivò rapidamente alla conclusione
che vi erano state molte irregolarità (non tutte dello stesso colore) ma non
esitò a sostenere che Romita (Ministro dell’Interno del primo Governo
De Gasperi che durò dal 10 dicembre 1945 al 1° luglio 1946 e, quindi
all’epoca del Referendum, responsabile delle elezioni del Referendum e
della Costituente n.d.a.), pur essendo entusiasticamente repubblicano, si
era comportato con impeccabile imparzialità». Forse un nuovo conteggio
avrebbe modificato i risultati – sostiene Romano – ma non dal punto di
8
Supplemento speciale Insieme da 25 anni – Il compleanno del Corriere, 1876-2001.
7
assicurare alla monarchia il vantaggio consistente di cui aveva bisogno
per sopravvivere.
L’Assemblea costituente – eletta nella stessa elezione del 2 giugno –
lavorò circa due anni per elaborare la nuova Carta Costituzionale, la
prima nella Storia d’Italia, non potendosi considerare lo Statuto albertino
una Carta Fondamentale, e la discussione fra i Costituenti fu accesa
soprattutto sul modello di Repubblica, poiché i tre grandi partiti di massa
– Democrazia Cristiana, Partito Comunista Italiano e Partito Socialista -
che costituivano l’ampia maggioranza dell’Assemblea Costituente
volevano una Repubblica di tipo “parlamentare”. A sostenere una
“Repubblica Presidenziale” sul modello americano con un forte
decentramento amministrativo imperniato sulle Regioni o sul
Regionalismo fu soltanto il piccolo Partito d’Azione, il partito dei
“maestri di scuola” come lo definiva il comunista Giancarlo Pajetta ma
che era piuttosto “il partito degli assistenti universitari” come lo definì
Leo Valiani, una delle personalità più eminenti di quel piccolo partito che
voleva coniugare il liberalismo con il socialismo anticipando i tempi. Il
Partito d’Azione aveva fra le sue file un giurista di grande spessore, Piero
Calamandrei, che inutilemnte si battè per un presidenzialismo unito ad un
forte regionalismo, come il suo allievo Paolo Barile ricordò in un
intervento apparso sul n.15 (13 aprile 1981) dell’Europeo, allora diretto
da Lamberto Sechi, in uno speciale dedicato alla nascita della Repubblica
che contiene una lunga intervista a Leo Valiani dove Valiani fra l’altro
ricorda sia il tentativo del Partito d’Azione sia la posizione
presidenzialista del PdA . Il PdA poteva contare soltanto su 7 deputati
alla Costituente contro i 207 della DC, i 115 del Partito Socialista, che
8
allora si chiamava Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, i 104 del
Partito Comunista Italiano
9
.
Il Referendum fu previsto all’art.75, non senza contrasti all’interno della
Costituente, con un compromesso tra i grandi partiti che, scegliendo il
parlamentarismo per la Repubblica, volevano una “democrazia
rappresentativa” con due Camere con uguale dignità in un sistema
“multipartitico” e non “bipartitico” che costringeva ai Governi di
coalizione
10
, essendo il Governo e non il Capo dello Stato responsabile di
fronte al Parlamento che doveva esprimere “ la fiducia” al Governo con
una maggioranza assoluta dei componenti.
L’art.75 prevede soltanto il referendum abrogativo per le leggi ordinarie
con la richiesta di 500 mila elettori o di 5 consigli regionali, mentre è
vietato per le leggi tributarie, di amnistia e di indulto, e per la ratifica di
trattati internazionali.
La Costituzione non prevede quindi un referendum deliberativo, il
popolo italiano cioè non può approvare leggi, le può solo cancellare e
non può ratificare direttamente trattati internazionali. Per avere la legge
che disciplina il Referendum gli italiani hanno dovuto aspettare 24 anni,
poiché soltanto con la legge del 23 maggio n.352 del 1970 vengono
dettate le norme per la richiesta del Referendum. Si tratta di una legge di
“compromesso” all’interno del centrosinistra che avvia la democrazia
referendaria in Italia con il Referendum per l’abrogazione della legge sul
divorzio nel 1974 ed è proprio con quell’evento che il Referendum
dimostra la sua “forza dirompente” nella democrazia politica ma – poiché
ogni eccesso è sempre difetto, come ammonivano i latini - con l’azione
9
Leo Valiani, Nascita della Repubblica, in L’Europeo, n. 15/1981.
10
Giovanni Ferrara, Il Governo di coalizione, Giuffré, 1973.
9
successiva, soprattutto del partito radicale di Marco Pannella – 18
Referendum dal 1974 al 1990 – e con il cosiddetto Movimento
Referendario di Mario Segni nel 1991 per le nuove leggi elettorali
l’Istituto di democrazia diretta così utilizzato ha perso la sua “forza
riformatrice” e di interesse nella pubblica opinione fino al completo
fallimento del Referendum per la procreazione assistita del 2005 che non
ha raggiunto il quorum di partecipazione previsto dalla legge ordinaria
(partecipazione minima del 51% del corpo elettorale).
Il referendum deliberativo è invece previsto dall’art.11 della Costituzione
della V Repubblica francese dopo esser stato previsto nell’art.3 della
Costituzione della IV Repubblica del 1945 che proclamava «che la
sovranità era esercitata dal popolo con il voto dei suoi rappresentanti e
con il referendum
11
». Ma la Costituzione della IV Repubblica – una
Repubblica “parlamentare” – non andava oltre.
È con la V Repubblica voluta dal generale de Gaulle che il referendum
deliberativo sprigiona la sua forza e la sua efficacia per l’esercizio della
sovranità popolare e per il consolidamento delle Istituzioni.
Questo è il tema del presente lavoro che naturalmente non può essere
esaustivo, ma vuole porre alcuni interrogativi in un momento in cui in
Italia si stanno avviando serie riforme della nostra Carta Costituzionale
del 1948.
L’autore ritiene che sia tempo ormai di istituire anche nella nostra
Costituzione il Referendum deliberativo sul modello francese nel quadro
dei nuovi poteri che dovranno essere assegnati o al Presidente del
Consiglio o al Capo dello Stato, poiché appare superato il modello di
11
Raffaele Feola, op. cit., pag. 4.
10
referendum abrogativo previsto nel 1948 dai Costituenti, soprattutto
perché è consolidata la democrazia repubblicana, anche se occorre, con
una nuova e seria legge elettorale e con un rinnovato interesse per la
politica, dare nuova vitalità ai partiti politici dopo il ciclone di
“tangentopoli” che ha spazzato via i vecchi partiti dalle cui macerie non
sono nate formazioni degne di questo nome e del ruolo che la stessa
Costituzione assegna loro. Rigenerare i partiti o addirittura costituirne dei
nuovi come potrebbe essere un “Partito Democratico” sul quale è aperto
un serio dibattito nel Paese.
«A furia di frequentare gli esercizi di reality show, i politici italiani sono
diventati analfabeti in simbologia, hanno cioè dimenticato il consenso
derivante dalle idee e dai programmi che esprimono carica simbolica», ha
scritto il prof. Giuseppe De Rita
12
, presidente del CENSIS e già
Presidente del CNEL, uno dei più acuti osservatori e conoscitori della
realtà sociale italiana che – come Presidente del CNEL – a metà degli
anni ‘90 è stato il protagonista della speranza della “Programmazione
Negoziata” con lo strumento dei Patti Territoriali che poteva
“rivitalizzare” il protagonismo economico e sociale soprattutto delle
realtà del Meridione dopo la chiusura della Cassa per il Mezzogiorno e la
fine dell’intervento straordinario.
De Rita ritiene che «poco o nulla coinvolgente sarà anche il Referendum
sulla riforma della Carta Costituzionale, che pure tocca il punto fondante
di una moderna democrazia. Alla fine sarà un Referendum di scarsa
simbologia: il partito del no difenderà una Costituzione di quasi sessanta
anni fa, che ormai dice poco ai giovani ed a coloro che non fecero
Resistenza e ricostruzione morale del Paese; il partito del sì difenderà una
11
riforma che partiva da una spinta fortemente simbolica (la devolution e il
federalismo), ma che poi ha messo dentro, confusamente, tutto e il
contrario di tutto».
Quello di De Rita è un parere autorevole al quale – come vedremo nelle
conclusioni - se ne contrappongono altri altrettanto autorevoli di diverso
avviso .
L’autore di questo lavoro ritiene che è un serio “pessimismo della
Ragione” da parte di un eccellente sociologo, ma non può non
richiamarsi all’ “ottimismo della Volontà”.
Del resto Max Weber diceva che «in politica si raggiunge il possibile
soltanto quando si punta sistematicamente all’impossibile».
12
Giuseppe De Rita, Corriere della Sera dell’8 marzo 2006.