gesti, sorrisi e gli sguardi definendo in tal modo i suoi desideri e pensieri,
progressivamente riducono questa loro funzione grazie all’emergere della parola.
Alcuni bambini con disabilità offrono meno contatto visivo, sono meno disponibili al
contatto fisico, per cui spesso risulta difficile interpretarne le espressioni, o stabilire un
focus comune di attenzione. Le frequenti difficoltà che si possono aggiungere, a livello
motorio, si possono ripercuotere nella ridotta possibilità di sperimentare se stessi come
individui in grado di apportare modifiche all’ambiente che li circonda, e di agire sugli
oggetti, esplorandoli e scoprendone le caratteristiche percettive.
Viene meno quindi questo momento di apprendimento (per prove ed errori), che dovrebbe
condurre ad individuare il “nucleo funzionale” dell’oggetto e favorire la progressiva
consapevolezza e messa a fuoco dei concetti e delle categorie di significato.
Parimenti accade con grande frequenza che gli adulti tendano a soddisfare le esigenze del
bambino con difficoltà prima che queste vengano espresse, o perché conoscono le loro
preferenze o perché interpretano i segnali mimico-gestuali non intenzionali.
Nel comunicare con un bambino disabile, è indispensabile tentare di attribuire un
significato alle sue espressioni, a certi suoni che emette, o a movimenti che sono soltanto
riflessi. Il significato può non essere quello giusto, ma è fondamentale trasmettere
l’esperienza che “vale la pena comunicare”, perchè i movimenti ed i suoni possono
svilupparsi in modo da avere significati specifici se si attribuisce ad essi un significato e se
vengono interpretati in modo positivo.
Ciò si realizza soprattutto a livello di aspettative, disposizioni e atteggiamenti che
permettono al bambino di essere attivo.
Nel SECONDO capitolo viene affrontato l’argomento della Comunicazione Aumentativa
e Alternativa, definita come l'insieme di conoscenze, di tecniche, e strategie che è possibile
attivare per facilitare la comunicazione con persone che presentano una carenza o
un'assenza, temporanea o permanente, nella comunicazione verbale.
L'aggettivo Alternativa sta ad indicare il ricorso a modalità di comunicazione diverse dal
linguaggio verbale-orale.
L'aggettivo Aumentativa sta ad indicare come le modalità di comunicazione utilizzate
siano tese non a sostituire ma ad accrescere la comunicazione naturale e consente di
pensare alle strategie, alle tecniche e agli ausili come possibilità di fornire qualcosa di
aggiuntivo ad abilità comunicative di cui la persona è già in possesso (gesti, vocalizzi,
sguardo, ecc..).
3
La CAA è un settore della pratica clinica che si pone come obiettivo la compensazione di
una disabilità (temporanea o permanente) del linguaggio espressivo; vengono infatti create
le condizioni affinché il disabile abbia l’opportunità di comunicare in modo efficace,
ovvero di tradurre il proprio pensiero in una serie di segni intelligibili per l’interlocutore.
Grazie a tecniche e strumenti di CAA molte persone disabili sono ora in grado di utilizzare
un codice efficace che dà loro la possibilità di usufruire di nuove opportunità educative e
sociali. E’ importante sottolineare che gli interventi di CAA sono percorsi che non sempre
arrivano a raggiungere gli obiettivi prefissati nel breve periodo. Specialmente nel caso di
soggetti che soffrono di patologie congenite, il potenziamento o lo sviluppo delle
competenze comunicative, compresa la motivazione a comunicare, divengono obiettivi
irrinunciabili. Il percorso che viene creato parte dunque dai bisogni comunicativi della
persona; gli strumenti che vengono forniti devono essere adattati alle sue esigenze attuali,
ma al tempo stesso devono essere flessibili ed evolversi nel tempo parallelamente
all’evoluzione della persona in tutti i suoi aspetti (cognitivi, emotivi, sociali, etc.).
Un altro aspetto di fondamentale importanza è il coinvolgimento dell’ambiente, ovvero
delle figure significative appartenenti ai diversi contesti di vita del disabile. Un percorso di
CAA che inizia e finisce in un ambulatorio specialistico difficilmente raggiungerà i propri
obiettivi, ovvero fornire la possibilità di comunicare, interagire con le altre persone in
situazioni e luoghi diversi.
Lo sviluppo della CAA è stato inizialmente sollecitato per incrementare le abilità
comunicative di bambini (in particolare quelli con esiti di Paralisi Cerebrale Infantile) in
cui era evidente la discrepanza tra linguaggio espressivo, gravemente deficitario, e
linguaggio ricettivo (comprensione) che non presentava invece severe compromissioni.
Esperienze successive hanno però evidenziato che anche in alcuni casi di insufficienza
mentale gli interventi di CAA hanno ottenuto buoni risultati. Esistono tuttavia dei
prerequisiti che delimitano il campo di applicabilità della CAA:
ξ l’intenzionalità a comunicare;
ξ un buon livello di capacità di rappresentazione simbolica;
ξ la capacità di codifica e discriminazione del “sì” e “no”.
Attualmente questi interventi vengono effettuati nelle seguenti condizioni di disabilità:
condizioni congenite (ad es. PCI, sindromi genetiche, ecc.), condizioni acquisite (ad es.
esiti di trauma cranico, ictus, ecc.), condizioni neurologiche evolutive (ad es. Sclerosi
4
Laterale Amiotrofica, AIDS cerebrale, Sclerosi Multipla, Morbo di Parkinson, ecc) e
condizioni temporanee.
Il TERZO capitolo esamina le varie modalità espressive che affiancano il linguaggio
verbale nella C.A.A. con la finalità di aumentare e potenziare le capacità comunicative
della persona. Vengono qui considerati i sistemi di simboli grafici: essi sono nati per
rispondere alle esigenze di bambini e ragazzi non in grado di utilizzare il codice alfabetico.
Dagli anni ‘70 si sono sviluppati sistemi grafici diversi, in funzione soprattutto delle
differenze cognitive (quindi anche dell’età) dell’utilizzatore; quelli più usati sono il CORE,
il PCS e i Simboli Bliss.
(La scelta di simboli idonei all’utilizzatore non esclude l’utilizzo, all’interno della stessa
tabella o di una comunicatore, di foto, disegni o simboli appartenenti ad altri sistemi grafici
se questi risultassero più chiari o di più semplice utilizzo.)
L’urgenza di un più ampio vocabolario di significati comportava però la difficoltà di
rappresentare anche significati astratti (es. libertà, rabbia, paura, domani) in una forma
simbolica che fosse facilmente decodificabile. A questa carenza supplisce il linguaggio
Bliss. Il Bliss è un linguaggio iconografico che esprime i concetti mediante sequenze di
icone: è dunque molto diverso da linguaggi come l'italiano o come il francese, che sono
infatti dei linguaggi grafemici e che esprimono i concetti mediante sequenze di grafemi
(forme scritte dei fonemi, cioè dei suoni elementari che si producono nel parlare). Un'icona
è, infatti, un disegno semplicissimo che rappresenta, immediatamente ed individualmente,
un concetto; si può raffigurare su etichette, incollare su dei tabelloni, o addirittura
manipolare, tramite tastiera o altri sistemi di input, sul monitor del computer.
Nel linguaggio Bliss si utilizzano, per esprimere i concetti, delle icone composte Bliss,
dette anche simboli Bliss ottenute mediante una sequenza di due o tre icone semplici Bliss
(che sono circa ottanta). Esistono oggi, codificati e concordati, a livello internazionale,
circa tremila simboli Bliss, che esprimono, quindi, i più svariati concetti.
Il QUARTO capitolo guarda alla tecnologia di assistenza come mezzo per oltrepassare le
barriere e, di conseguenza, per accrescere la partecipazione alle attività.
Riabilitare significa, in prospettiva, mettere l'individuo in condizione di avere e gestire un
ruolo sociale. Gli ausili si collocano tra la persona con disabilità verbale, quindi con un
codice comunicativo particolare e l’ “ambiente” in senso lato, dove si utilizza un codice
socialmente condiviso.
5
Il ruolo di mediazione può essere svolto da ausili, persone o tecniche che si collocano tra la
persona con difficoltà di espressione verbale e l’ambiente circostante.
Oggi la tecnologia ha fatto notevoli progressi, ma resta la necessità di studiare ogni caso e
di personalizzare le soluzioni. Il primo passo è rappresentato da un'accurata valutazione
fisica, ma altrettanto opportuna è la valutazione cognitiva soprattutto per quanto concerne
la capacità di raggiungere il massimo livello di integrazione tra le capacità residue e quelle
rese possibili dall'apparecchiatura. È possibile costruire strumenti informatizzati che
consentono la supplenza di parecchie funzioni deficitarie. È certamente questo il settore in
cui ci si possono attendere successi rilevanti, non solo per casi singoli, ma anche soluzioni
generalizzate che vanno dalla vita sociale quotidiana al lavoro. In questo senso il successo
delle tecnologie è legato ad alcuni aspetti psicologici, come il benessere individuale, la
scoperta delle proprie capacità, l'accettazione dei propri limiti, la socialità. I risultati,
tuttavia, non riguardano soltanto l'area psicologica relazionale ed affettiva (autostima,
motivazione, capacità di reagire all'insuccesso), bensì anche l'area cognitiva.
Le procedure di facilitazione possono essere ampiamente usate, e con grande successo, nel
controllo dell'ambiente di vita di una persona disabile: il controllo dell'ambiente è un
elemento fondamentale nel progetto di una vita autonoma ed esistono ormai molti sistemi
per poterlo realizzare. È stato notato che possono insorgere problemi di ordine psicologico
legati a particolari forme di dipendenza dalla macchina e che il paziente può subire un
certo grado di abbandono e di isolamento. Questi due rischi sono insiti in qualunque tipo di
facilitazione ed ancora una volta appare evidente come e quando la tecnologia debba essere
integrata in un processo culturale ed umano.
Tutto questo vale a dimostrare un potenziale miglioramento della qualità della vita e,
perché ciò si realizzi, occorre un approccio multidisciplinare, in cui le politiche di
intervento si integrano ad evitare i rischi dell'emarginazione.
Il QUINTO capitolo fa il punto sulla differenza fra il processo linguistico naturale e
l’acquisizione di un codice alternativo, il quale presuppone un percorso diverso da quello
preposto ontogeneticamente. Un codice alternativo al verbale non può essere veicolato
all’interno del sistema naturale, poiché cambiano i parametri di riferimento. Va allora ri-
costruita una modalità idonea, in cui tale codice possa essere introdotto: sia il disabile che
il suo interlocutore devono conoscere e condividere le modalità del nuovo schema
operativo, poiché non è possibile imparare una modalità comunicativa se non la si agisce
realmente. Lo schema comunicativo naturale è stato infatti acquisito attraverso
6
l’interazione sociale, non certo attraverso “esercizi di comunicazione”. Per questo appare
importante far agire subito e in modo attivo la persona disabile verbale, creando un
contesto che implichi la presenza di un’intenzione, di uno scopo comune e un set di
procedure comunicative riconoscibili, similmente ai contesti altamente strutturati, familiari
e stabilizzati, entro i quali avviene lo scambio comunicativo fra adulto e bambino nello
sviluppo naturale del linguaggio verbale.
In questo contesto la consapevolezza del funzionamento del linguaggio (struttura e
sviluppo) è, per l’abile, un aiuto fondamentale per calibrare l’indagine nei confronti
dell’altro. I sistemi di CAA si sono dimostrati un’ottima possibilità alternativa in molti
casi. L’esperienza ha però rivelato che è spesso necessario effettuare uno specifico e
talvolta lungo percorso prima che ci sia una reale integrazione tra il sistema di CAA e la
persona che lo utilizza. In particolare, per quanto riguarda l’acquisizione di un codice, i
disabili possono imparare ad associare e riconoscere i significati nelle figure o nei simboli,
ma non necessariamente li utilizzano per comunicare: è come se mancasse un raccordo tra
quei segni e ciò che i disabili vorrebbero “dire”. Essi non sanno effettuare autonomamente
una correlazione tra le rappresentazioni grafiche e le proprie conoscenze; sanno realizzare
solo una corrispondenza biunivoca semantica, ma non contestuale e riferita alla propria
personale esperienza. Inoltre, poiché la situazione di forzata dipendenza nella relazione li
costringe generalmente ad un ruolo passivo, l’utilizzo del codice alternativo è spesso
indotto dall’interlocutore (operatore, insegnante, ecc.), e le “frasi”, i messaggi, sono il
prodotto di un mero esercizio comunicativo. I soggetti sono “guidati” a dare delle risposte
secondo un modello linguistico esterno, di cui loro non conoscono le regole. Vengono
perciò a mancare i presupposti per un vero apprendimento e il lavoro si “riduce” ad un
addestramento volto al riconoscimento di immagini statiche vuote di significato affettivo.
Ma la dimensione comunicativa non si realizza in un’esercitazione, così come la funzione
linguistica non rappresenta il processo comunicativo in tutta la sua complessità.
Quali modalità relazionali utilizzare allora per individuare bisogni e conoscenze reali e
come renderli palesi in modo che il disabile li possa riconoscere e verificare?
Come avviarlo all’apprendimento di un codice inteso in senso linguistico?
Come correlare i “segni” alternativi ai significati della sua mente?
È sulla base di questi interrogativi e sui risultati delle esperienze che si è strutturata una
specifica metodologia di intervento. Essa si articola in:
7
ξ valutazione delle abilità comunicative presenti e dei bisogni comunicativi del
soggetto;
ξ valutazione delle strategie e modalità comunicative speciali (simboli, tabelle e libri
di comunicazione, Vocas) che possono migliorare la comunicazione e la qualità
della vita dei soggetti e delle loro famiglie;
ξ formazione in C.A.A. di operatori con funzione di programmazione e
coordinamento dell’intervento diretto negli ambienti di vita dei soggetti perché
siano in grado di affrontare autonomamente un intervento di C.A.A.
Accanto a tante energie impiegate nella ricerca di strumentazioni e tecniche in grado di
dare espressione a chi non parla, si fa viva l’ urgenza di mettere a punto dei programmi che
tengano conto delle concrete condizioni di vita della persona con deficit del linguaggio e
quindi delle sue risorse, della rete parentale e amicale, del contesto socio culturale e delle
tradizioni locali. Il successo della CAA dipenderà quindi da un insieme di fattori quali le
abilità della persona, la disponibilità degli interlocutori, l'atteggiamento generale nei
confronti dei disabili, la qualità delle politiche sociali. Questi elementi devono essere
monitorati continuamente per poter individuare delle strategie efficaci, potendo rivelarsi
delle barriere per la comunicazione:
ξ le barriere di accessibilità dipendono dal grado di abilità della persona negli aspetti
motori, sensoriali, cognitivi e sociali;
ξ le barriere di opportunità sono invece generate dall'ambiente esterno in vari modi
come ad esempio la mancanza di conoscenze specifiche sulla CAA e sui disturbi
della comunicazione, un atteggiamento negativo nei confronti della disabilità, la
carenza di strutture e di personale qualificato etc.
Questo ultimo tipo di barriere è purtroppo più difficile da superare di quanto non siano le
barriere di accessibilità. Il così detto “modello della partecipazione” è finalizzato
all'individuazione e al superamento continuo di questi ostacoli. La CAA va quindi intesa
come un intervento “ecologico” che deve necessariamente essere portato avanti non solo
all' interno dei servizi ma anche e soprattutto nei contesti naturali di vita della persona
(scuola, famiglia, etc.). L'obiettivo è quello di allargare quanto più possibile il cerchio dei
partner comunicativi a partire dai familiari per arrivare a quanti interagiscono solo
saltuariamente con la persona.
8
Si tratta quindi di un intervento che parte dalle reali aspettative e dai bisogni della persona
nonché dalle attività che questa è chiamata a svolgere nei differenti contesti, un modello
partecipativo finalizzato in ultima analisi all'integrazione oltre che all'autonomia
comunicativa.
9
1 LA COMUNICAZIONE PREVERBALE
1.1 LE MODALITÀ DI COMUNICAZIONE DEL BAMBINO
La comunicazione implica necessariamente un processo prima ancora che un contenuto. I
bambini cominciano ad essere attivamente coinvolti in una relazione quando hanno
acquisito una competenza interattiva e questo prima ancora di imparare a condividere i
contenuti specifici delle comunicazioni. “Ed è proprio l’intenzionalità comunicativa che si
esprime attraverso una comunicazione non verbale che spinge il bambino a scoprire e ad
apprendere il codice linguistico.”
1
Già nei primi giorni di vita il bambino appare predisposto a rispondere in maniera selettiva
agli stimoli sociali: ha preferenza per i volti delle persone e ancor di più per gli occhi, e fin
dalle prime settimane riconosce il volto la voce e l’odore materni, dimostra preferenza per
lo schema di un volto ordinato piuttosto che uno con gli elementi interni disposti in
maniera disordinata: ciò fa pensare ad un meccanismo di riconoscimento a base innata
sensibile alle caratteristiche strutturali del volto umano. Il pianto, il sorriso e l’espressione
facciale vengono interpretati e hanno effetto sugli adulti che si prendono cura di lui. Una
delle funzioni fondamentali dell’adulto, nel processo di interazione sociale con il bambino,
è infatti quella di organizzare la propria attività in modo tale da strutturare modelli di
reciprocità temporalmente legati e continuamente ricorrenti nell’esperienza del bambino
stesso adattando la propria iniziativa ai momenti di pausa del piccolo. A tale attività
strutturante dell’adulto viene attribuita una notevole importanza nello sviluppo di capacità
comunicative e sociali nel bambino
2
. Schaffer sostiene, inoltre, che tutte le interazioni in
cui il neonato è coinvolto, presentano alcune caratteristiche comuni ad ogni forma di
dialogo in cui è che è la madre ad inserirsi, adattando il proprio comportamento a quello
spontaneo del piccolo (“pseudodialoghi”)
.
1
RIVAROLA A., Riflessioni introduttive alla Comunicazione Aumentativa e Alternativa, in Scascighini G.( a
cura di) Comunicazione Aumentativa e Alternativa. Esperienze in regioni di lingua italiana, Edition S.Z.H.
1997, pag 56.
2
CFR. SCHAFFER H.R., L’interazione madre-bambino: oltre la teoria dell’attaccamento, Franco Angeli,
Milano 1990, pp 15-43
10
Questo rappresenterebbe il prototipo di una grande quantità di interazioni precoci e
mostrando, in particolare, che l’integrazione temporale delle risposte dei due partners si
verifica sulla base di due fattori principali: il comportamento spontaneo dei bambini,
organizzato da meccanismi endogeni, e la disponibilità della madre ad accordarsi con
questo modello. Anche le caratteristiche formali dello scambio verbale, come il turn
talking, precedono la comparsa del linguaggio: gli scambi vocali sono caratterizzati dallo
stesso modello, fondato sull’alternanza dei turni e utilizzato dai bambini più grandi già in
possesso del linguaggio. Fin dai primi mesi di vita l’interazione faccia a faccia tra il
bambino e la madre appare caratterizzata da sincronia, coordinazione, alternanza di turni,
contingenza e straordinaria armonia nei comportamenti motori, vocalici ed espressivi, è
una comunicazione affettiva che riguarda la diade piuttosto che argomenti esterni ad essa
3
.
Questa è la fase della comunicazione preintenzionale: il bambino produce comportamenti
(pianto, sorriso, vocalizzi..) che per l’adulto possono assumere il valore di segnali, ma non
è ancora consapevole di produrre, attuando questi comportamenti, un segnale
comunicativo: il bambino viene trattato come partner comunicativo dall’adulto ma non è
ancora tale in forma intenzionale
4
. Solo intorno alla metà del primo anno di vita il bambino
comincia a guardare alternativamente l’adulto ed un oggetto/evento esterno che attrae in
quel momento la sua attenzione: “l’interazione da diadica diventa triadica e
l’oggetto/evento esterno diventa qualcosa che si comunica, un potenziale argomento della
conversazione”
5
.
Compare allora il fenomeno dell’attenzione condivisa: bambino e adulto guardano lo
stesso oggetto/evento condividendo il medesimo fuoco di attenzione esterno alla diade
mantenendo allo stesso tempo un coinvolgimento sociale reciproco. Il bambino è ora in
grado di seguire la linea dello sguardo del genitore. Tra i 10 e 13 mesi si verifica un altro
importante progresso: il bambino comincia attivamente a dirigere l’attenzione dell’adulto
3
Per questi movimenti diadici si parla anche di “protoconversazioni” (Cfr. BATESON M.C., Mother- infant
exchanges: The epigenesis of conversation interaction, in Annals of the New York Academy of Science,
n°263, 1975, pp. 101-113).
4
“In generale durante la prima metà del primo anno di vita il bambino si impegna attivamente in interazioni
diadiche con l’adulto ma non è ancora in grado di inserire l’attenzione per un oggetto/evento all’interno della
sequenza.” CAMAIONI L. (a cura di) Psicologia dello sviluppo del linguaggio, Il Mulino, Bologna 2001, pp
21-29.
5
Ibidem, pag 23.
11
verso un evento esterno
6
. La capacità di coordinare entro la stessa sequenza
l’orientamento verso un oggetto/evento con l’orientamento verso un’altra persona è una
tappa importante nello sviluppo comunicativo ma non segnala ancora la conquista
dell’intenzione comunicativa: consente di stabilire un fuoco di attenzione esterno alla
diade ed è la base per trasformare qualsiasi oggetto/evento interessante in argomento di
comunicazione. La modalità di scambio si trasforma progressivamente in quella
“reciproca”, in cui i partners assumono nelle interazioni ruoli reciproci e coordinati.
Quando il bambino diventa in grado di crearsi delle aspettative nei confronti delle risposte
dell’adulto, comincia una nuova modalità di comunicazione, definita “modalità di
richiesta”, in cui il pianto diventa meno insistente e alternato a pause.
Il bambino ora sa di produrre comportamenti che hanno il valore di segnali, e lo fa per
soddisfare i propri bisogni (ad esempio indica con il dito una bottiglia d’acqua e guarda
alternativamente la bottiglia e la madre, finché questa interviene per dargli da bere,
interpretando correttamente il gesto come una richiesta). La cosiddetta intenzionalità a
comunicare è una tappa di sviluppo che il bambino normale raggiunge intorno ai dieci
mesi, poco prima di produrre le prime parole, e si evidenzia con la produzione di gesti
comunicativi, che, a differenza di altri comportamenti gestuali che il bambino produce
nello stesso periodo, hanno 3 importanti caratteristiche:
- sono usati con un’intenzione comunicativa;
- sono convenzionali;
- si riferiscono ad un oggetto o evento esterno.
Negli ultimi mesi del primo anno di vita il bambino comincia ad usare gesti come indicare,
offrire, mostrare, dare, e richieste ritualizzate (estendere il braccio con la mano aperta e il
palmo in su o in giù; aprire e chiudere il palmo della mano come in un gesto di prensione a
vuoto), che chiamiamo gesti performativi o deittici
7
. Questi esprimono un’intenzione
comunicativa e si riferiscono ad un oggetto/evento esterno, che tuttavia si ricava
esclusivamente osservando il contesto. A differenza delle azioni di tipo strumentale come
l’afferrare, si tratta di gesti chiaramente inadeguati a raggiungere l’obiettivo in modo
diretto e meccanico, ma adeguati a comunicare tale obiettivo ad un’altra persona.
6
Cfr. BATES E., BENIGNI L., BRETHERTON I., CAMAIONI L., VOLTERRA V., Dal gesto alla prima parola: lo
sviluppo cognitivo e comunicativo tra i nove e i tredici mesi di vita, in Età Evolutiva, n° 2, 1979, pp 55-74.
7
Cfr. ANTINUCCI F., Sulla deissi in Lingua e Stile, anno IX, n° 2, 1974, pp. 223-247.
12
Di solito questi gesti non implicano alcun contatto con il destinatario; alcuni (mostrare,
offrire, dare) richiedono la presenza nella mano del bambino dell’oggetto cui il gesto si
riferisce. I gesti deittici sono accompagnati dallo sguardo diretto al destinatario, mentre in
alcuni casi il bambino guarda alternativamente il destinatario e il referente. L’intenzione
comunicativa è segnalata proprio dall’uso dello sguardo rivolto all’interlocutore prima,
durante o dopo l’emissione del gesto.
Reciprocità e intenzionalità rappresentano quindi due importanti prerequisiti del
linguaggio e più specificatamente della comunicazione. Si tratta cioè di capacità che, pur
essendo possedute dal bambino prima dell’uso della parola, diventano poi componenti
essenziali della comunicazione linguistica: quest’ultima, infatti è comunicazione
intenzionale e si realizza sotto forma di dialogo.
Compare in questo periodo anche il comportamento di indicazione: nel gesto di indicare
qualcosa o qualcuno alternato alla ricerca di un contatto di sguardo con l’interlocutore si
manifesta in modo netto la capacità del bambino di operare una prima forma di distinzione
fra sé, l’altro e un terzo oggetto esterno ad entrambi sul quale viene fatta convogliare
l’attenzione (attenzione triadica). Quando il gesto di indicare è usato per chiedere
all’adulto un giocattolo desiderato, sono presenti sia l’intenzione comunicativa, sia il
riferimento ad un oggetto/evento esterno attraverso un segnale convenzionale: si puo’
parlare in questo caso di gesto comunicativo. Quando invece il bambino usa l’indicare per
esplorare i contorni di una figura, l’intenzione comunicativa manca, mentre sono presenti
le altre due caratteristiche. Naturalmente, anche la direzione dello sguardo associata
all’esecuzione di un gesto convenzionale o ritualizzato (indicare, mostrare, dare) è
considerata come chiara evidenza dell’intenzionalità nella comunicazione
8.
La
considerazione di questo elemento risulterà importante, come vedremo in seguito, al
momento di pianificare una strategia di intervento di CAA e nella scelta degli ausili.
I gesti comunicativi a differenza dalle interazioni comunicative che avvengono nelle
epoche precedenti rappresentano nel bambino il sorgere di una prima, rudimentale forma
di consapevolezza che l’altro ha una propria mente e delle proprie intenzioni. Inoltre:
- hanno natura triadica: vengono usati per indirizzare l’interlocutore verso un’entità
esterna e non verso il bambino stesso;
8
Cfr. BRUNER J. S., Dalla comunicazione al linguaggio: una prospettiva psicologica, in Camaioni L. (a cura
di) Sviluppo del linguaggio e interazione sociale, Il Mulino, Bologna 1978, pp 75-112.
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