8
potere è palese tanto più le politiche europee vengono appro-
fondite nel tempo. Gli organi di governo nazionali non solo de-
vono recepire l’acquis communautaire visto come insieme di
leggi e regolamenti, ma devono altresì uniformarsi a determina-
te procedure, standards e comprensioni collettive che proven-
gono da Bruxelles. Lo stesso devono fare gli organi sub-statali
ed in modo particolare le Regioni.
La ridefinizione dei poteri e dei ruoli istituzionali per via
dell’europeizzazione non si basa, infatti, sulla distribuzione e-
qua del potere tra tutti i livelli di governance, ma, per così dire,
ne avvantaggia alcuni e ne svantaggia altri. Mentre è vero che
gli Stati cedono gradi di sovranità e di libertà di muoversi poli-
ticamente a proprio piacimento in favore dell’UE, è anche vero
che questi possono contare sul potere decisionale tutt’altro che
debole del Consiglio per incidere sul decision-making europeo.
Le Regioni, invece, non solo perdono anch’esse sovranità in fa-
vore dell’UE, ma altresì in favore dello Stato centrale tramite
una sorta di applicazione della «proprietà transitiva»: può capi-
tare che il governo nazionale, grazie alla presenza dei suoi rap-
presentanti nel Consiglio dell’Unione, ottenga delle competenze
su materie che paradossalmente la Costituzione nazionale gli
aveva tolto, assegnandole alle Regioni. Inoltre gli organi regio-
nali si fanno spesso carico dell’onere di implementare politiche
(quelle europee) a cui non partecipano formalmente durante la
loro fase formulativa. Sussiste quindi quello che Tanja Börzel
(2002) definisce una uneven distribution of say and pay dovuta
alle sfide che l’europeizzazione pone alle istituzioni territoriali.
Ed è proprio per riequilibrare questa distribuzione che le Regio-
ni sentono una pressione adattiva che le spinge
all’istituzionalizzazione delle pratiche del policy-making euro-
peo all’interno delle proprie (Börzel 2001, 140).
9
La politica di coesione, avendo fatto un notevole salto di
qualità negli ultimi quindici anni – si pensi solo che oggi il 34%
delle spese comunitarie sono stanziate per la coesione, percen-
tuale seconda solo a quella della politica agricola – è una tra le
policies europee che maggiormente mette in atto questa spinta
all’adattamento istituzionale. Questo principalmente perché, il
fatto di adattarsi o meno alle procedure imposte da Bruxelles,
può voler dire entrare in possesso di ingenti finanziamenti o ve-
nirne definitivamente esclusi. E se teniamo conto che questi
fondi sono rivolti alle regioni più povere
1
e che in media essi in-
cidono tra il 2 e il 4% del PIL regionale, la pressione adattiva
diviene ancora più esplicita.
Ciò che si è detto finora è servito a far capire che l’Unione
Europea attraverso il processo detto di europeizzazione provoca
una pressione sulle strutture politiche nazionali e soprattutto re-
gionali che le spinge al cambiamento. Tra le diverse politiche
europee, la politica di coesione, sia perché muove ingenti quan-
titativi di fondi comunitari, e sia perché immersa in procedure
rigide che spesso non appartenevano minimamente alle pratiche
precedenti delle amministrazioni pubbliche degli Stati membri
2
,
crea una spinta energica al cambiamento strutturale interno.
Il punto è quindi capire come le regioni europee cambiano
in risposta alle sfide loro poste dalla politica di coesione; e se i
tempi di risposta sono differenti, è opportuno approfondire i
perché del diverso timing del cambiamento. Tutto ciò si può sin-
tetizzare chiedendosi: qual è l’impatto dell’europeizzazione, e
più specificamente della politica di coesione, sul policy-making
regionale europeo e sulla struttura delle istituzioni regionali?
1
Si fa qui riferimento alle regioni beneficiarie dei Fondi Strutturali sotto
l’Obiettivo 1: all’interno di questo sono incluse quelle regioni di livello statisti-
co NUTS II aventi il livello del PIL per abitante, inferiore al 75% di quello me-
dio dell’Unione Europea (cfr. par. 3.2.2).
2
Si ricordano i quattro principi su cui si basa la politica di coesione: partenaria-
to, concentrazione, addizionalità, programmazione, ma anche altre procedure
gestionali innovative quali monitoraggio e valutazione (cfr. infra par. 3.2).
10
Questo è il quesito di ricerca della tesi. Vi è da precisare che, tra
le regioni del territorio comunitario, ci è sembrato opportuno
centrare l’analisi su quelle che appartengono all’Obiettivo
1della politica di coesione, ovvero le regioni più povere
dell’UE, poiché è qui che le lacune amministrative degli Enti
regionali enfatizzano l’incongruenza tra le strutture di policy tra
i livelli di governo regionale e comunitario, esprimendo una
pressione all’adattamento più profonda e palese (cfr. infra par.
2.8).
Per attuare tale analisi si utilizzerà la comparazione tra due
regioni europee (la Calabria e l’Andalusia) aventi una serie di
caratteristiche in comune quali: l’essere beneficiarie dei Fondi
Strutturali sotto l’Obiettivo 1; il risultare tra le regioni con i li-
velli più bassi di PIL pro capite, fra quelle Obiettivo 1, rispetti-
vamente di Italia e Spagna; l’appartenere a due «Stati regiona-
li», quindi con forti autonomie attribuite agli Enti territoriali
3
;
entrambi (i Paesi) del sud Europa, mediterranei ed, all’interno di
questi, l’esservi collocate geograficamente all’estremo meridio-
ne; detenere una posizione di «periferia estrema» rispetto al
core del mercato europeo; l’avere una tradizione amministrativa
«legalistica» improntata alla validazione formale degli atti, piut-
tosto che di tipo output-oriented. Scegliendo casi di studio mol-
to simili si è cercato di eliminare il maggior numero di variabili
sistemiche intervenenti non pertinenti, anche se vi è il rischio di
incorrere nel problema del selection bias.
Lavorare con un N piccolo, com’è noto, presenta contempo-
raneamente svantaggi e vantaggi. Tra questi ultimi vi è
senz’altro il minor impiego di risorse da parte del ricercatore ri-
spetto alla cosiddetta indagine statistica, nonché la possibilità di
3
Questo è sicuramente vero per la Spagna, che come vedremo ha dei tratti isti-
tuzionali che la fanno assomigliare ad un regime federale (cfr. infra par. 5.1), e
un po’ meno per l’Italia, anche se la direzione presa (vedi il cosiddetto processo
di devolution) sembra puntare verso un tipo di assetto vicino a quello spagnolo.
11
un’analisi più approfondita delle peculiarità dei casi. All’interno
degli svantaggi bisogna invece annoverare la minor rilevanza
scientifica dei risultati dovuta proprio alla specificità dello stu-
dio: è difficile estendere a certezza «generalistica» un enunciato
derivante dall’analisi di due soli casi. In altre parole, ciò che
verrà riscontrato per Calabria e Andalusia, non sarà di certo
l’equivalente dell’averlo rilevato in tutte le regioni europee O-
biettivo 1. Il lavoro vuole pertanto essere l’inizio di una più am-
pia ricerca futura – chissà se magari sempre da parte del sotto-
scritto – o dare il suo contributo alla conoscenza dei casi regio-
nali.
L’analisi comparata di queste due regioni, vista la rilevanza
che la letteratura dà loro, si è focalizzata principalmente su due
dimensioni-sfide:
1) Una dimensione amministrativo-organizzativa per cui si
è cercato di eviscerare se e in che modo la politica di co-
esione abbia apportato trasformazioni a livello organiz-
zativo e procedurale all’interno delle amministrazioni
regionali che siano da ritenersi permanenti. In particolare
si è puntata l’attenzione sull’inserimento di forme di
programmazione e coordinamento all’interno della prassi
istituzionale di policy-making delle due Regioni.
2) Una dimensione di governance territoriale per cui si
presuppone da parte della Regione «da un lato la capaci-
tà di integrare e modellare gli interessi locali, le organiz-
zazioni e i gruppi sociali, e dall’altro la capacità di rap-
presentarli al di fuori, e di sviluppare strategie più o me-
no unitarie con gli attori privati, lo Stato […] e altri livel-
li di governo» (Le Galès 1998, 253 citato in Profeti
2004b).
Vi sarebbe anche una terza dimensione fatta affiorare dal
dibattito letterario riguardante l’attivazione regionale verso
12
Bruxelles, ma, benché interessante, per motivi di gravosità dello
studio non è stata trattata in questo lavoro.
Le fonti utilizzate sono principalmente due: interviste svolte
dal sottoscritto
4
e da professori e ricercatori interessati alla ma-
teria quali il Professor Paolo Graziano dell’Università Bocconi
di Milano ed il gruppo di ricerca coordinato dal Professor Leo-
nardo Morlino del CIRES (Centro Interuniversitario di Ricerca
sul Sud Europa) in seno all’Università di Firenze; la letteratura
scientifica incentrata sia in generale sulla multi-level governan-
ce e sull’influenza dell’europeizzazione sulle politiche pubbli-
che nazionali, sia su argomenti più specifici, attinenti soprattutto
ai casi regionali scelti.
Oltre alla presente sezione introduttiva, il lavoro si sviluppa
attraverso sette ulteriori capitoli. Nel capitolo 2 vengono definiti
i concetti teorici chiave della ricerca quali europeizzazione e
multi-level governance, spiegandone inoltre i «meccanismi» e le
correlazioni con i processi di governance regionale. Il terzo ca-
pitolo illustra l’evoluzione della politica regionale dell’Unione
Europea, dal punto di vista cronologico, strutturale ed istituzio-
nale. I capitoli 4 e 5 sono dedicati all’analisi dell’impatto
dell’europeizzazione sulle politiche di sviluppo regionale di Ita-
lia e Spagna, come parte propedeutica e preliminare allo studio
dei casi regionali vero focus del presente lavoro, vale a dire
quelli di Calabria e Andalusia, trattati invece all’interno dei ca-
pitoli 6 e 7. In questi si è puntato principalmente a capire
l’impatto dell’europeizzazione sulla politica di coesione regio-
nale ed in particolare si è cercato di rispondere al nostro quesito
di ricerca nelle due dimensioni-sfide illustrate in precedenza. Il
4
Per la redazione di questo lavoro è stato necessario un periodo di soggiorno di
due mesi in Andalusia, principalmente per ricercare fonti bibliografiche in ma-
dre lingua sul caso regionale andaluso ed effettuare interviste a testimoni privi-
legiati rispetto all’ambito della politica di coesione in Andalusia, come per e-
sempio funzionari della Junta de Andalucía (l’Ente corrispettivo alla nostra Re-
gione) e gli agenti economico-sociali incidenti sul territorio.
13
capitolo 8, infine, è riservato a tirare le dovute conclusioni dai
risultati del lavoro svolto, nonché alla risistemazione di questi,
in modo da trarne un modello sinottico del cambiamento appor-
tato dall’europeizzazione.
14
CAPITOLO 2
EUROPEIZZAZIONE,
MULTI-LEVEL GOVERNANCE E GOVER-
NANCE REGIONALE
In questo capitolo verranno trattati alcuni dei concetti chiave del
presente lavoro quali: europeizzazione, multi-level governance
e governance regionale. Una volta presi singolarmente, definiti
e contestualizzati all’interno sia del dibattito letterario, sia di
questo progetto, verranno poi mostrate le loro interconnessioni.
2.1. Teorie e approcci alla governance europea
Le peculiarità dell’Unione Europea rispetto ai concetti larga-
mente consolidati di Stato-nazione e di organizzazione interna-
zionale sono state la base di un florido dibattito scientifico che
puntava a delineare che cosa è l’UE e verso dove si sta muoven-
do. In effetti lo studio del sistema politico europeo e del proces-
so d’integrazione europea è argomento alquanto suggestivo vi-
sta l’assoluta novità e complessità dell’assetto istituzionale ve-
nutosi a creare dal 1951, con la firma del Trattato CECA, fino ai
giorni nostri. Come tutte le novità, lo studio della sua essenza
suscita una certa dose di curiosità, ma al tempo stesso presenta
alcuni importanti limiti. Cerchiamo di passarli in rassegna uno
alla volta
5
.
Il primo ostacolo per lo studioso, soprattutto del vecchio
continente, dell’integrazione europea è la tendenza a ragionare
per Stati-nazione, entità che prevedono la sovranità statale in-
centrata su tre livelli:
5
Il paragrafo trae grande spunto dal capitolo «teorie e approcci al processo
d’integrazione» in Unione Europea: istituzioni, attori e politiche di Francesc
Morata (1999).
15
• giuridico-politico: pieni poteri legislativi, esecutivi e giudi-
ziari per lo Stato sovrano, che non riconosce nessun’altra au-
torità;
• storico-economico: lo Stato sovrano agisce autonomamente
nella sfera internazionale attraverso gli strumenti classici
quali moneta, diplomazia e difesa;
• simbolico-identitario: la comunità nazionale si riconosce nei
simboli ed istituzioni dello Stato.
Attualmente, però, è difficile identificare pienamente uno
Stato dalla detenzione della sovranità concepita in questo modo.
Ciò perché fenomeni interdipendenti come la globalizzazione
economica, lo sviluppo di nuove tecnologie della comunicazione
e del trasporto, la crisi delle funzioni sociali dello Stato in favore
delle funzioni autoregolative del mercato, la frammentazione
della sovranità verso il basso (decentralizzazione) e verso l’alto
(processo d’integrazione europea), minano alla base le caratteri-
stiche della sovranità statale precedentemente elencate
6
.
La seconda difficoltà che viene allo scoperto studiando il
processo d’integrazione è data dal carattere evolutivo dell’UE e
dall’incertezza rispetto all’obiettivo finale a cui tende. L’Unione
Europea ha continuato infatti ad espandersi, aumentando il nu-
mero di membri di più di quattro volte quelli fondatori, e con il
susseguirsi dei Trattati il suo assetto istituzionale si è andato
modificando con una velocità ed una radicalità tali da non aver
paragoni al mondo tra gli Stati e le organizzazioni internazionali
stabili. Nonostante tutto, però, queste trasformazioni ripetute si
sono susseguite senza un piano ben prestabilito, bensì «in rispo-
sta alle pressioni interne ed esterne o come risultato di un pro-
cesso di adattamento o di apprendimento» (Morata 1999, 113).
L’Unione Europea non è quindi una costruzione ends-oriented,
bensì means-oriented.
6
Cfr. Morata 1999, 112-13.
16
Uno dei motivi è da ricercarsi sicuramente nella molteplicità
di attori istituzionali e personalità che muovono il motore
dell’integrazione. Essa infatti non è un processo univoco routi-
nizzato, ma bensì il risultato delle preferenze espresse da gover-
ni nazionali, istituzioni comunitarie, apparati burocratici, enti
regionali, partiti politici (nazionali ed europei), gruppi
d’interesse (tra cui le parti sociali) e comitati di esperti. Il siste-
ma istituzionale dell’UE risulta perciò molto diverso da quelli
degli Stati-nazione, basati sulla divisione dei poteri e sulle for-
me di legittimazione proprie della democrazia rappresentativa.
L’Unione Europea non dispone di un governo espressione
del parlamento che detenga il potere esecutivo, né di partiti ca-
paci di organizzare il consenso a livello europeo. Le sue istitu-
zioni rispondo a principi di rappresentanza differenti: rappresen-
tanza diretta per il Parlamento Europeo (PE), rappresentanza
funzionale degli interessi per il Comitato Economico e Sociale e
rappresentanza dei governi regionali per il Comitato delle Re-
gioni. Inoltre, è significativo sottolineare che oltre al Consiglio
dei Ministri (CONS), rappresentante i governi dei membri, le
due istituzioni più influenti, Commissione Europea (COM) e
Corte di Giustizia Europea (CGE), non rispondono a criteri di
rappresentanza (Hooghe e Marks 2001, 40-41).
A livello comunitario, inoltre, non esiste sostanzialmente
un’unica costituzione. La cosiddetta Costituzione europea uscita
dalla Convenzione, nonostante il nome, è ben lungi dal rivolu-
zionare i principi fondanti l’Unione e mette insieme norme e
principi emersi dai numerosi Trattati precedenti. Questi ultimi,
poi, sono semplicemente accordi tra gli Stati membri per rag-
giungere obiettivi specifici attraverso la creazione di istituzioni
a livello europeo. Invece di avere un singolo momento fondante,
perciò, l’UE è stata creata passo dopo passo nello stesso modo
in cui «un progetto di costruzione è rivisto attraverso la sovrap-
17
posizione di diversi lucidi su di un disegno iniziale» (ibidem,
36).
Sebbene vi siano queste lacune, l’UE ha l’«autorità necessa-
ria per decidere, risolvere conflitti, produrre beni pubblici, co-
ordinare il benessere dei cittadini, regolare il mercato, convoca-
re elezioni, rispondere alle pressioni dei gruppi d’interesse, ge-
stire un bilancio, distribuire risorse, sviluppare una politica eco-
nomica estera e, infine, partecipare alle missioni di pace e coo-
perare con i Paesi meno sviluppati» (Morata 1999, 115). In-
somma, ci troviamo di fronte ad un’entità nuova che assomiglia
molto ad uno Stato incompleto e che si presenta con caratteri
ambigui, frammentati e mutevoli se ad esso paragonata.
Le teorie e gli approcci concettuali che sono emersi nel
campo dell’analisi della governance europea si incentrano lungo
quattro filoni principali: il neofunzionalismo, l’intergoverna-
tivismo, il neoistituzionalismo e la multi-level governance
7
. La
multi-level governance, poiché si presta molto bene alla spiega-
zione delle dinamiche intercorrenti in una politica – quale quella
di coesione – che prevede la partecipazione congiunta di nume-
rosi attori politici, verrà trattata a parte più approfonditamente.
Si propone brevemente di seguito l’evoluzione storica e concet-
tuale delle prime tre correnti.
2.1.1. Funzionalismo e neofunzionalismo
Il neofunzionalismo si rifà al funzionalismo classico formulato
da Mitrany (1943, citato in Morata 1999, 116) negli anni Qua-
ranta. L’autore per mantenere la pace nel mondo auspicava che
gli Stati devolvessero gradualmente funzioni di basso contenuto
7
Morata (1999, 116) pone l’accento su tre filoni quali: neofunzionalismo, inter-
governativismo e federalismo. Alla luce degli sviluppi delle teorie neoistituzio-
nalista e della multi-level governance, ed in riscontro alle citazioni all’interno
dei più influenti studi, si è deciso di inserire queste ultime, eliminando il pur si-
curamente importante approccio federalista, per cui si rimanda a Morata 1999,
129-34.
18
politico proprie della loro sovranità ad organizzazioni interna-
zionali, cosicché l’interdipendenza tra le Nazioni sarebbe cre-
sciuta, abbassando notevolmente (se non eliminando) la proba-
bilità di guerre fra di esse. Mitrany fece chiara la necessità di
limitare il potere delle organizzazioni sovranazionali ad aspetti
funzional-settoriale per evitare che diventassero dei super-Stati,
divenendo ancor di più minaccia per la convivenza pacifica tra i
popoli. Alla fine degli anni ’40, dopo il fallimento delle idee fe-
deraliste classiche (quelle di Spinelli per intenderci) proposte
come assetto del continente europeo, posto concretamente in es-
sere dal rifiuto della Comunità politica europea (CPE) e della
Comunità europea di difesa (CED), alcune delle idee funziona-
liste vennero riprese da Jean Monnet come base per il federali-
smo funzionale
8
.
Il neofunzionalismo nasce alla fine degli anni ’50 in contra-
sto con le teorie realiste, che assumevano gli Stati nazionali co-
me attori unitari e razionali. I primi, invece, rifacendosi alla teo-
ria pluralista, proponevano l’azione statale come l’interazione
tra istituzioni politiche e gruppi d’interesse, e cioè «la concor-
renza tra élite economiche e sociali, trasposte su scala sovrana-
zionale» (ibidem, 117). Perché tali élite si accordano per auto-
limitare la propria sovranità in favore di entità sovrastatali?
Questo è il quesito principale dell’approccio neofunzionalisti.
La risposta risiede nel meccanismo denominato spillover o ef-
fetto indotto, secondo cui un’azione iniziale anche piccola di ca-
rattere integrativo, pone in atto una reazione a catena spinta
dall’interdipendenza fra gli Stati e dalla non più convenienza a
quel punto di lasciare libere le esternalità, che porta a livelli
sempre maggiori d’integrazione. Perciò il neofunzionalismo po-
ne l’accento sul processo (integrazione progressiva) e non
sull’obiettivo finale (gli Stati Uniti d’Europa o la costruzione di
8
Cfr. ibidem.
19
una struttura sovranazionale ben determinata) (ibidem, 118). E’
il caso, per esempio, della nascita dell’unione economica e mo-
netaria (UEM): come spiega infatti Altomonte (2004), ripren-
dendo il famoso «quartetto inconciliabile» di Tommaso Padoa-
Schioppa (1987), «un accordo di cambi fissi – quale lo SME che
esisteva in Europa dagli anni Ottanta – che opera su un mercato
integrato (in cui vige cioè la libera circolazione dei capitali) è
incompatibile con l’autonomia delle politiche monetarie [degli
Stati membri], in quanto esposto a shock di tipo asimmetrico».
Si fu perciò costretti nel 1992 ad arrivare alla politica economi-
ca comune. Ciò che ne deriva è il cambiamento progressivo del-
le aspettative e delle preferenze degli agenti prodotto
dall’avanzamento dell’integrazione.
La teoria neofunzionalista, dopo un periodo difficile dovuto
principalmente all’empasse nel processo d’integrazione per la
crisi della CPE e della CED, per il Compromesso di Lussem-
burgo del 1966 e per le congiunture economiche negative degli
anni ’70, fatti che sembravano dare ragione agli intergovernati-
visti, torna quindi alla ribalta con la forte spinta in avanti data
all’integrazione dall’Atto Unico (AUE) e poi, come visto, dal
Trattato di Maastricht e dall’UEM. Ciò non solo perché il mec-
canismo dello spillover si prestava bene alla spiegazione delle
dinamiche intercorse nelle decisioni prese in quegli anni, ma
anche per l’innegabilità dell’importanza sia dell’attivismo della
Commissione Delors e sia del ruolo di prim’ordine dei gruppi
industriali multinazionali nello spingere verso la liberalizzazio-
ne e l’aumento di competitività del mercato interno.
2.1.2. L’intergovernativismo
Come accennato, in seguito al fallimento dei progetti della CPE
e della CED e con il Compromesso di Lussemburgo, in cui si
accettava il fatto che uno Stato membro imponesse l’unanimità
20
sulle decisioni ritenute d’importanza nazionale, le tesi neofun-
zionaliste che ponevano l’accento sui gruppi d’interesse e sulla
burocrazia comunitaria entrarono in crisi. L’approccio teorico
che meglio sembrava descrivere le dinamiche della governance
europea della metà degli anni ’60, situazione che si sarebbe pra-
ticamente congelata fino all’adozione dell’AUE, era senz’altro
il neorealismo o intergovernativismo. I dettami teorici di questo
modello ponevano al centro di tutto gli Stati visti, rispetto ai lo-
ro interessi vitali, come attori razionali ed egoisti, il cui scopo
ultimo era quello di mantenere un rapporto di forza (visto anche
come dotazione di risorse politiche) nei confronti degli altri Sta-
ti ad essi favorevole. Qui rientrava in gioco l’importanza dei
condizionamenti imposti dal contesto internazionale, per ri-
spondere ai quali i governi possono anche decidere per conve-
nienza di cooperare, ma sicuramente non di devolvere a qualsia-
si altro (fosse anche stata un’organizzazione sovranazionale vo-
tata alla pace come l’allora CEE) le competenze di politiche
centrali quali quella militare o quella estera.
Oggi che i progressi anche in questi campi sono stati fatti,
tale teoria potrebbe sembrare anacronistica. Ma allora, visto che
chi parla di intergovernativismo c’è ancora
9
, come hanno spie-
gato quell’accelerazione del processo d’integrazione che
all’inizio degli anni Novanta ha portato all’UEM? Gli eventi
degli ultimi vent’anni hanno reso necessario un raffinamento dei
loro argomenti. Così ora si parla per esempio di liberalismo in-
tergovernativo per cui gli avanzamenti nel processo
d’integrazione europea sono autorizzati dai governi nazionali,
che rimangono comunque gli attori chiave per capire il deci-
sion-making comunitario, per fini egoistici. Secondo gli autori
del liberalismo intergovernativo
10
, infatti, le negoziazioni inter-
9
Cfr. Moravcsik 1994.
10
Primo fra tutti Moravcsik, spesso citato come l’esponente principale delle tesi
neointergovernativiste.
21
governative in seno al Consiglio, e la cooperazione internazio-
nale in generale, rafforzano i governi nazionali rispetto agli altri
policy agents domestici in quattro modi differenti:
• Iniziativa (agenda-setting): le negoziazioni internazionali
possono incrementare il potere degli esecutivi di decidere
l’agenda politica interna, perché i frutti di queste negozia-
zioni – come ad esempio atti normativi europei o accordi in-
ternazionali – possono venire presentate ai parlamenti na-
zionali come decisioni non dipendenti dalla volontà del go-
verno del tipo «prendere o lasciare» (Moravcsik 1994, 9).
• Istituzioni: in riguardo alle procedure comunemente risie-
denti nella politica interna, la politica estera prevede spesso
procedure che restringono le possibilità di voice di altre isti-
tuzioni che non siano i governi nazionali (ibidem, 11). Per-
sino dove è prevista la ratifica dei parlamenti nazionali, la
loro possibilità di alterare, emendare o respingere i Trattati
Europei o la legislazione comunitaria ordinaria è molto limi-
tata (ibidem, 21).
• Informazioni: la cooperazione internazionale può creare
un’asimmetria informativa in favore degli esecutivi naziona-
li. Attraverso la loro partecipazione diretta alle negoziazioni
internazionali, gli esecutivi possono disporre di informazioni
privilegiate e conoscenze tecniche che gli altri attori hanno
difficoltà ad ottenere (ibidem, 23).
• Idee: le negoziazioni internazionali possono conferire ai go-
verni sorgenti aggiuntive di legittimazione interna. «L’idea
d’Europa è, da una parte, formidabilmente connessa alle i-
dee di pace, prosperità e cosmopolitismo e, dall’altra, è no-
tabilmente vaga e open-ended; essa perciò fornisce uno
strumento particolarmente flessibile attraverso il quale gli
esecutivi possono legittimare le loro politiche ideologica-
mente» (Phelan 2002, 9).