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di sviluppare un sistema informatico in grado di migliorare i processi di
comunicazione interni ad un’area funzionale di un’azienda, secondo un
approccio orientato alla gestione della conoscenza.
La parte teorica si apre con una contestualizzazione socio-economica all’interno
del passaggio dal fordismo al post-fordismo e la conseguente nascita del concetto
organizzativo di “learning organization”, per poi addentrarsi nel dettaglio di due
contributi particolarmente importanti per lo “sdoganamento” nel mondo
manageriale degli studi accademici sulla gestione della conoscenza: “La quinta
disciplina. L’arte e la pratica dell’apprendimento organizzativo” di Senge (1990)
e “The knowledge creating company” di Nonaka-Takeuchi (1995).
Il contributo di Senge risulta fondamentale per chiarire da un punto di vista più
sistemico il reale obiettivo che dovrebbe porsi la gestione della conoscenza
aziendale, ossia garantire il consolidamento di una struttura aziendale flessibile e
“intelligente”, in grado di rispondere con prontezza al mutare dei contesti in cui
via via verrà a trovarsi.
Nonaka e Takeuchi, invece, esplicitano le dinamiche specifiche con cui la
conoscenza si muove, si riproduce, nasce, muore e si concretizza in prodotti
all’interno della realtà aziendale; il loro contributo risulta prezioso nel far
percepire l’importanza della dimensione soggettiva della conoscenza e
dell’immenso valore che tale dimensione può avere.
Il tema delle comunità di pratica, vero e proprio elemento trainante dei processi
di gestione della conoscenza, completa il quadro teorico delle fondamenta del
Knowledge Management. Il grande contributo di questo filone di studio consiste
nel sottolineare l’importanza delle reti di relazioni nei processi di diffusione e
creazione della conoscenza.
Il secondo capitolo si concentra sulla disciplina manageriale del Knowledge
Management e sulle sue componenti portanti: cultura, organizzazione e
tecnologia.
Si viene a configurare in maniera più chiara come l’azione aziendale di gestire la
conoscenza si traduca in interventi multidisciplinari, in cui le spinte
6
all’innovazione in ciascuno dei singoli campi siano necessariamente correlate
con spinte, altrettanto forti, negli altri campi: lo sviluppo di sistemi di Knowledge
Management “informaticamente perfetti”, ad esempio, non garantisce affatto, da
solo, una efficace gestione della conoscenza aziendale. Infatti a questo vanno
affiancati interventi culturali in grado di cambiare l’approccio al modo di
lavorare delle persone e interventi organizzativi che sappiano strutturare le varie
parti in causa in maniera funzionale agli obiettivi aziendali.
L’applicazione pratica delle teorie manageriali di Knowledge Management ha
portato, però, a risultati non sempre soddisfacenti, soprattutto in relazione agli
investimenti intrapresi dalle aziende coinvolte.
L’analisi critica di tali realizzazioni pratiche ha identificato due diversi modelli di
azione: il Knowledge Management di prima generazione (“First Generation
Knowledge Management”, FGKM) e quello di seconda generazione (“Second
Generation Knowledge Management”, SGKM).
E’ importante sottolineare due punti fondamentali per l’evolversi del discorso
teorico: il significato di un approccio alla conoscenza realmente soggettivista e il
cambiamento di ruolo delle tecnologie.
Se si assume come base di partenza il contributo innovativo di Nonaka-Takeuchi,
ossia il carattere soggettivo della conoscenza, allora bisogna ammettere che la
diffusione della conoscenza soggettivamente intesa all’interno dell’azienda è
vincolata al contestuale diffondersi dei modelli mentali che sottostanno e
giustificano quella conoscenza stessa. In sostanza una conoscenza è strettamente
connessa con il sistema di valori da cui nasce. Affermare ciò, in aziende di grandi
dimensioni e costituite da ambiti particolarmente variegati e dinamici, significa
non poter parlare di gestione di una conoscenza aziendale, ma di gestione delle
conoscenze delle comunità che la compongono.
Come diretta conseguenza di queste considerazioni emerge il cambiamento di
ruolo delle tecnologie nel passaggio da un modello all’altro. L’approccio tipico
del FGKM prevede la tecnologia come agente esplicitante del sapere: il sapere
soggettivo della singola persona viene reso oggettivo attraverso la codifica
7
all’interno dello strumento informatico; il fallimento di questo approccio porta il
SGKM a vedere la tecnologia come agente di supporto alle reti di relazioni, non
più trasformatrice ma trasportatrice di conoscenza.
In tale cambiamento di ruolo la tecnologia non va a perdere importanza
all’interno dei processi di gestione della conoscenza, ma viene ad assumere un
compito strategicamente diverso: non si pone più tra le persone, ma accanto alle
persone, come strumento fondamentale di supporto all’interazione e
all’archiviazione delle esperienze relazionali dense di significato e di valore
conoscitivo.
I sistemi di Knowledge Management descritti nel terzo capitolo si configurano,
quindi, come strumenti tecnologici atti a supportare le attività funzionali ai
progetti di Knowledge Management, interpretandone le esigenze e offrendo le
soluzioni più adatte alle stesse.
Nella maggior parte dei casi tali esigenze possono essere soddisfatte da pacchetti
software chiamati Content Management System (Sistemi di Gestione dei
Contenuti, CMS) che negli ultimi anni hanno letteralmente invaso il mercato del
software offrendo soluzioni per ogni target di investimento.
In particolare, la straordinaria efficienza di alcune offerte distribuite in modalità
open source permette, ad aziende con le competenze interne adeguate, di poter
sviluppare, a un costo relativamente basso, sistemi di gestione della conoscenza
personalizzati e in grado di mantenere quella flessibilità necessaria ai progetti di
Knowledge Management nelle fasi di avvio.
Gli elementi di riflessione emersi dall’analisi teorica forniscono una base
concettuale che può essere valorizzata e concretizzata affrontando il caso di
studio aziendale proposto dalla società per cui lavoro da diversi anni.
Il caso di studio presentato nella seconda parte della tesi è contestualizzato
all’interno dell’ente di “Ingegneria Automazione Genova” (IAG) di Ansaldo
Segnalamento Ferroviario, una società del gruppo Finmeccanica recentemente
quotata in borsa col nome di Ansaldo STS.
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Mi è stato chiesto di identificare e analizzare alcune tra le criticità di
comunicazione presenti nell’ente IAG e proporre la progettazione di azioni
organizzative e tecnologiche orientate al superamento delle stesse, secondo una
prospettiva orientata alla gestione della conoscenza.
Il fine ultimo del caso di studio è lo sviluppo, la messa in servizio e il
monitoraggio di un sistema di Knowledge Management che possa inserirsi
all’interno di un più ampio progetto di revisione dei flussi di comunicazione
interna.
Da questo punto di vista, mentre le azioni relative al sistema informatico sono
state seguite e portate a termine da me direttamente, gli elementi organizzativi e
culturali individuati nella fase progettale non hanno ancora avuto applicazione
pratica in azienda.
Risulta, comunque, importante mantenere lo strumento informatico ben inserito
nel contesto progettuale più ampio da cui è nato, in quanto è solo all’interno di
quel quadro complessivo che può essere ragionevolmente valutato.
Tale considerazione è rafforzata dai risultati rilevati dalla fase di monitoraggio
del sistema, in cui emerge chiaramente l’esigenza di supportare lo strumento
informatico con azioni altrettanto adeguate in ambito culturale e organizzativo.
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PARTE I
BASI TEORICHE
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CAPITOLO 1
LA CONOSCENZA COME RISORSA AZIENDALE
In questo capitolo tenterò di tracciare un percorso che possa condurre alla base
della teoria manageriale del Knowledge Management attraverso una
contestualizzazione socio-economica (il passaggio dal fordismo al post-
fordismo), una contestualizzazione organizzativa (la Learning Organization) e il
richiamo di alcuni contributi teorici significativi per la comprensione e lo
sviluppo del Knowledge Management stesso. L’obiettivo è quello di costruire
fondamenta sufficientemente solide da supportare a dovere l’addentrarsi nel
cuore del Knowledge Management che avverrà nel prossimo capitolo.
1. Il contesto socio economico: dal fordismo al post-fordismo
Negli ultimi 15 anni si è assistito a cambiamenti di grande portata nella totalità
delle relazioni sociali (economia, politica, diritto, cultura, strategie militari,
comunicazioni di massa, ecc.) e ovviamente anche l’organizzazione economica,
intesa come soggetto sociale, ha dovuto far fronte a tali novità.
Il paradigma interpretativo delle vicende contemporanee non può non essere
individuato nella globalizzazione, fenomeno che consiste in un vero e proprio
passaggio d’epoca in cui l’intero globo risulta coinvolto in una fitta rete di
interdipendenze (De Biasi, 2002).
I presupposti di tale processo sono da individuarsi sia nella rivoluzione
informatica e tecnologica che verso la fine del XX secolo ha avuto luogo nei
paesi occidentali (presupposto tecnologico), sia nel crollo del sistema del
socialismo reale (presupposto politico-economico): entrambi questi fenomeni
hanno fornito le basi contingenti allo sviluppo globale dell’economia di mercato
11
da un lato e dall’altro alle trasformazioni in senso transnazionale di tutte le altre
specifiche relazioni sociali.
Senza scendere nel merito delle conseguenze che la globalizzazione in atto porta
con sé, appare importante, però, sottolinearne alcuni aspetti utili alla completa
comprensione di quanto verrà analizzato in seguito nel presente lavoro: il ruolo
fondamentale dell’Information & Communication Technology, la perdita di
potere dello “stato-nazione”, il passaggio dal fordismo al post-fordismo (Zolo,
2004).
Il consolidamento nell’uso quotidiano delle tecnologie digitali e telematiche ha
permesso la compressione del tempo e dello spazio rendendo a basso costo e
agevoli le comunicazioni in tempo reale tra ogni angolo del pianeta: idee,
prodotti, informazioni, persone circolano velocemente da un capo all’altro del
globo. Comunicare e scambiarsi documenti tra Genova e Savona comporta
esattamente gli stessi costi e tempi di fare la stessa azione tra Genova e Tokyo
(problemi di linguaggio a parte). I tempi di diffusione delle notizie sono
istantanei, la popolazione mondiale vive la propria esistenza “locale” con un
occhio sempre attento alla finestra sulla vita “globale”: la tragedia dell’11
settembre a New York è stata seguita in diretta da milioni di italiani; io all’epoca
ero in vacanza proprio negli USA e sono stato informato da una chiamata
dall’Italia di ciò che stava accadendo a qualche centinaio di km da me, a
dimostrazione di quanto il mondo sia diventato un vero e proprio villaggio
globale1.
Lo sviluppo delle tecnologie informatiche ha comportato, inoltre, l’aumento sia
della quantità delle informazioni disponibili, sia dell’accessibilità a tali
informazioni, delineando un mondo “information-intensive”, la cosiddetta società
dell’informazione. Questo incide in maniera importante sulle istituzioni sociali
1
La locuzione villaggio globale è stata usata per la prima volta da Marshall McLuhan, uno
studioso delle comunicazioni di massa, nel 1964, in un suo libro ("Gli strumenti del
comunicare" - originale: "Understanding Media: The Extensions of Man") in cui, nel passaggio
dall’era della meccanica a quella elettrica, ed alle soglie di quella elettronica, analizzava gli
effetti di ciascun "medium" o tecnologia sui cambiamenti del modo di vivere dell'uomo. (cfr.
http://it.wikipedia.org)
12
che si trovano a dover affrontare un nuovo scenario costituito da frammenti
sociali, culturali, politici, economici e finanziari di stampo globale e in rapida e
perpetua re-definizione; l’orientamento e la selezione tra questa marea
informativa diventa, dunque, critico.
Il nuovo scenario sembra voler mettere da parte l’istituzione che per più di
trecento anni ha svolto il ruolo fondamentale nell’equilibrio sociale e politico
mondiale: lo stato-nazione di stampo vestfaliano2. Questo appare ormai al
tramonto nell’odierno scacchiere politico, considerata la sempre maggiore
invadenza e autorità di soggetti transnazionali dotati di poteri politici, economici
e militari sulla politica interna dei singoli stati (si pensi, ad esempio, alle
pressioni esercitate sia dalle politiche militari della NATO, sia dalle politiche
economiche dell’UE, sia dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario
Internazionale).
Inevitabilmente il mutare del contesto generale ha avuto un impatto sensibile
anche sui principali soggetti dell’economia globale: il progressivo indebolimento
dello stato-nazione, infatti, è stato il terreno fertile ideale per l’accelerazione
decisiva del passaggio dal fordismo al post-fordismo.
Il fordismo era caratterizzato dal modello di produzione incentrato sulla grande e
grandissima fabbrica meccanizzata per la produzione di massa standardizzata; il
livello di sindacalizzazione era alto e il posto di lavoro relativamente garantito.
Questo modello nei suoi anni d’oro (il trentennio 1945-1975) ha avuto il pregio
di associare alla crescita industriale una crescita della coesione sociale,
garantendo stabilità economica e prospettive a medio e lungo termine ai soggetti
sociali implicati.
Il grande “direttore d’orchestra” di queste dinamiche era proprio lo stato-nazione
che si faceva carico di garantire alle strutture fordiste ciò di cui avevano bisogno,
2
Il sistema dello stato nazionale trova le sue origini nella fine della guerra dei trent’anni con la
pace di Vestfalia del 1648. Da quel momento in poi la sovranità dello stato si esprimeva come
del tutto autonoma e indipendente da interferenze esterne (del papato in particolare).
“Lo Stato si qualificava come superiorem non reconoscens, non attribuendo più alcuna autorità
politica o giuridica a soggetti esterni al proprio ambito territoriale e normativo” (Zolo, 2004).
13
vale a dire un mercato di beni di consumo di massa stabile e costante. Il concetto
era piuttosto semplice: creare dei bisogni, renderli standardizzati, garantire il
giusto benessere ai consumatori in modo tale che potessero soddisfare i nuovi
bisogni. In questo modo le aziende fordiste potevano dotarsi di gerarchie stabili,
di catene di montaggio e di una struttura interna che poteva considerare
l’ambiente esterno come una costante.
In concomitanza con i processi di globalizzazione e, quindi, con l’impossibilità
dello stato-nazione di poter tenere sotto controllo l’ambiente in cui si inseriscono
le attività economiche, si è assistito ad una graduale destrutturazione del modello
fordista: il lavoro ora diventa diffusamente diversificato in senso spaziale e
disperso in senso temporale; le aziende riducono le dimensioni e producono “just
in time” senza proporre prospettive di sviluppo a lungo termine, la produzione
diventa snella; questo porta ad un aumento delle tipologie contrattuali e della
flessibilità del lavoro con conseguente indebolimento delle garanzie sindacali
tipiche del modello precedente.
In sostanza tra il mercato globale e l’azienda non vi è la mediazione dello stato al
fine di rendere normalizzati e prevedibili gli scenari a lungo termine. I nuovi
“equilibri-non-equilibri” economici hanno un grado di imprevedibilità tale da
sgretolare il granitico modello fordista e premiare invece le organizzazioni in
grado di sapersi adattare in maniera più veloce ed efficiente ai repentini
mutamenti di scenario.
Le organizzazioni del nuovo millennio si trovano, quindi, a dover fare i conti con
una “darwiniana”3 lotta per la sopravvivenza in un habitat che, per il momento,
garantisce una sola certezza: la necessità di saper gestire l’incertezza.
Ovviamente le gerarchiche e rigide strutture fordiste non erano pensate per dover
gestire una tale situazione (anzi erano progettate per far fronte all’esatto opposto)
3
Il concetto di selezione darwiniana nel contesto della relazione organizzazione-ambiente è
tipico della “teoria ecologica della popolazione”. Questa teoria sostanzialmente affronta le
tematiche ambientali dal punto di vista dell’ambiente e non dell’organizzazione e ha l’obiettivo
di spiegare i processi evolutivi delle organizzazioni non in quanto singole entità ma in quanto
gruppi correlati tra loro. (Hatch, 1999)
14
e, quindi, il modello dell’azienda come “macchina” ha lasciato gradualmente il
passo a metafore che sapessero valorizzare il concetto di sistema aperto e di
adattamento all’ambiente, quali l’azienda come “organismo vivente” e l’azienda
come “cultura”.
Le organizzazioni post-fordiste, quindi, tendono a darsi una struttura capace di
rispondere in maniera efficace all’ambiente esterno, così come gli organismi
viventi nei millenni hanno saputo far fronte ai cambiamenti climatici e ambientali
o come una cultura ha saputo evolversi e crescere nel tempo passando da svariati
“incidenti di percorso” senza perdere la propria identità.
Quello che organismi viventi e culture sono stati in grado di fare per
sopravvivere nel tempo è stato il saper apprendere, il sapersi evolvere facendo
tesoro dell’esperienze passate, capitalizzandole per il futuro in un ottica di
miglioramento continuo.
Dunque, se la caratteristica più appariscente delle nuove realtà aziendali post-
fordiste sembra essere la struttura flessibile e la produzione snella, l’aspetto
vincente dovrebbe, però, essere la capacità di apprendere per sapersi adattare più
velocemente dei concorrenti all’instabilità degli scenari.
Sarebbe però semplicistico ridurre gli scenari competitivi globali ad una pura e
semplice “lotta per la sopravvivenza” in cui vince chi passivamente riesce a
sopportare l’urto delle fluttuazioni di mercato; questo, nei migliori dei casi,
permette all’azienda di non morire, ma l’obiettivo di qualsiasi organizzazione
economica è creare profitto e questo, nel frenetico mercato globale, può essere
raggiunto solo innovando in modo continuo, efficiente ed efficace.
Quindi l’apprendimento organizzativo non va inteso in senso semplicemente
“adattivo”, ma anche, e soprattutto, “creativo”, ovvero finalizzato all’innovazione
costante e continua. (Senge, 1990)
La letteratura manageriale dell’ultimo decennio ha prodotto una quantità ingente
di materiale nel tentativo di delineare, per l’organizzazione del XXI secolo, una
strada che tenesse conto del mutato contesto globalizzato. I contributi che hanno
suscitato maggiore interesse portano in auge un tema che, così come è stato da
15
sempre implicitamente presente nelle tematiche aziendali, così è rimasto da
sempre nell’ombra di un approccio implicito e non strutturato: la conoscenza.
L’importanza della conoscenza aziendale non si scopre certo ora, ma nel modello
fordista, fortemente gerarchizzato, questa veniva vista come prerogativa del top
management, l’unico in grado di poter determinare delle scelte; agli strati
inferiori venivano passate solo delle direttive operative, ed era proprio questo
l’obiettivo: il modello fordista aveva bisogno che gli strati subalterni non
perdessero tempo a pensare, dovevano solo essere in grado di svolgere nel
migliore dei modi i compiti ripetitivi che gli venivano assegnati; la forza della
catena di montaggio era questa, ognuno doveva solo possedere la conoscenza
strettamente necessaria al compiere con profitto la propria mansione, erano altri a
doversi preoccupare di assemblare, orientare e valorizzare il lavoro.
Ora che, invece, l’azienda si fa flessibile e i tempi di risposta devono essere
minimi, la conoscenza deve diventare prerogativa di tutti, dall’amministratore
delegato all’ultimo dei dipendenti. Questo perché l’organizzazione deve reagire
agli stimoli esterni come un tutt’uno, in maniera coordinata e sincronizzata.
Non è solo una questione di tempi di risposta, la pressione esercitata dalla
concorrenza globale non lascia spazio a produzioni inefficienti; ciò ha spinto le
imprese globali a trasferire la produzione verso paesi con costi di mano d’opera
più bassi e al tempo stesso a provare a diminuire sensibilmente il “time-to-
market”; questo richiede una gestione diversa dei cosiddetti “beni intangibili”
aziendali (ossia il capitale intellettuale e la conoscenza aziendale) che diventano
fonte di elevato vantaggio competitivo. (Davenport e Prusak, 1998)
La conoscenza aziendale va, ora, gestita esplicitamente, in maniera consapevole e
proficua per poter cogliere le sfide del nuovo millennio: è considerando la
conoscenza aziendale come un bene da capitalizzare e accrescere che le
organizzazioni potranno essere in grado di apprendere e meglio adattarsi al
turbolento fluttuare dei mercati globali; è promuovendo la libera circolazione
della conoscenza al proprio interno che esse potranno favorire l’innovazione
16
continua; è strutturandosi in maniera “knowledge-centered” che esse proveranno
a tirare fuori il meglio dal proprio capitale intellettuale.
Sintetizzando, possiamo affermare che i processi di globalizzazione hanno
portato le realtà aziendali a dover gestire l’incertezza del mercato globale
dotandosi non solo di nuove strutture interne ma anche di una nuova mentalità
più consona ai mutati scenari. L’attenzione esplicita e dichiarata per la gestione
della conoscenza aziendale rientra tra i principali nodi di questo cambio di
mentalità.
2. La Learning Organization
Proprio cambio di mentalità e gestione della conoscenza sono alla base di un
recente filone di studi organizzativi che prende il nome di Learning Organization
(organizzazione che apprende).
Parte della ricerca degli ultimi tempi, infatti, si è concentrata nel tentativo di
delineare una nuova forma d’organizzazione che sapesse andare oltre le forme
base classiche (elementare, meccanica accentrata, manageriale decentrata,
professionale) ed essere in grado di passare agevolmente da un modello all’altro
senza sconvolgimenti. “Come una squadra di calcio che, nel corso di una stessa
partita, muta gli schemi di gioco a seconda del risultato, delle caratteristiche
dell’avversario, degli eventi anche imprevisti come l’espulsione di un giocatore,
queste aziende possiedono la chiave per cambiare registro, passando senza
difficoltà da un tipo di assetto all’altro” (Rebora, 1998).
Nella ormai vasta letteratura dedicata a questa tipologia di azienda “intelligente”
si mescolano, però, contribuiti alquanto slegati e disomogenei che portano
all’emergere di proposte non ancora definitive né mature: struttura duale,
organizzazione ipertestuale, organizzazione post-moderna, organizzazione ibrida,
organizzazione ciclica, organizzazione trasversale, organizzazione turbolenta,
team-based organization, organizzazione ambi-destra, impresa poli-cellulare.
17
Nessuna di queste nuove idee di organizzazione sembra poter prendere campo
come forma organizzativa stabile. La Learning Organization, pertanto, va intesa
al momento come una serie di prospettive che implicano un profondo e radicale
cambio di approccio, in cui il tema principale resta la capacità di apprendimento
come condizione per innovare con continuità.
Se è vero che il campo teorico della Learning Organization è un laboratorio
sperimentale che non ha ancora prodotto quella “one best way” che in molti
attendono, è altrettanto vero che negli ultimi anni l’inasprirsi della competizione
globale ha spinto molte aziende a dover mettere in pratica le indicazioni
principali di questo filone di studio, fornendo così materiale manageriale utile ad
una migliore definizione di questa nuova struttura.
Gli studi sulle organizzazioni che apprendono tuttavia hanno origini abbastanza
lontane: i primi interventi significativi tesi alla definizione del concetto di
apprendimento organizzativo sono infatti datati fine anni settanta. Questi studi
chiariscono che “l’apprendimento organizzativo non è sinonimo di
apprendimento degli individui, anche se le organizzazioni apprendono soltanto
attraverso l’esperienza e le azioni di coloro che le appartengono.
L’apprendimento organizzativo avviene quando i membri dell’organizzazione
agiscono come attori di apprendimento per l’organizzazione, quando cioè
informazioni, esperienze, scoperte, valutazioni di ciascun individuo diventano
patrimonio comune dell’intera organizzazione, fissandole nella sua memoria,
codificandole in norme, valori, metafore, mappe mentali in base alle quali
ciascun individuo agisce. Se questa condizione non avviene, gli individui
avranno imparato, ma non le organizzazioni”. (Argyris e Schon, 1978)
Per poter parlare di apprendimento organizzativo, quindi, non si può non fare
riferimento a quello individuale che ne è la condizione necessaria anche se non
sufficiente.
Il modello più semplice di apprendimento è definito adattivo e si basa sulla
ripetizione di modelli consolidati; questo viene anche chiamato single-loop
learning (apprendimento ad una via) in quanto agisce senza mettere in
18
discussione i modelli mentali e il contesto, che quindi rimangono costanti per
tutto il processo. Il single-loop learning è alla base, ad esempio, del ciclo PDCA
(Plan-Do-Check-Act) presente negli strumenti di pratica manageriale utilizzati
nel Total Quality Management.
Un livello di apprendimento di qualità superiore può essere raggiunto quando
l’individuo, oltre a riconoscere l’azione subconscia dei modelli mentali, è anche
disposto a porli in discussione per sondarne la validità ed eventualmente
modificarli. In questa prospettiva il single-loop learning si arricchisce di un
secondo livello di azione che coinvolge i modelli mentali sottostanti che
condizionano le decisioni. Questo secondo modello di apprendimento è definibile
double-loop learning (Argyris e Schon, 1978) e in pratica è quello che Senge
chiama apprendimento generativo o creativo.
Secondo uno studio di McGill, Slocum e Lei, la maggioranza delle imprese
preferisce ancora l’approccio adattivo (McGill, Slocum e Lei, 1992). Le
organizzazioni di tipo adattivo tendono a migliorare in modo incrementale i
prodotti, i mercati, i servizi e le tecnologie esistenti, spesso senza abbandonare
del tutto le vie strategiche che in passato hanno condotto a risultati di successo.
Secondo tale stile, le reazioni ai cambiamenti mentali si esplicano solo con azioni
discrete, di tipo meccanico, che spesso non affrontano direttamente il problema.
Di conseguenza accade che esse sono fortemente penalizzate da un punto di vista
strategico in quanto le strategie basate sul comportamento incrementale sono
facilmente prevedibili da una concorrenza attenta che non incontra difficoltà nel
decifrarle.
Inoltre, l’apprendimento adattivo limita la capacità dell’impresa di individuare e
immaginare mercati e prodotti che ancora non esistono ma la cui attivazione può
definire le basi e gli standard della competizione nel settore (McGill, Slocum e
Lei, 1992).