7
il campo degli osservatori; schematizzando, si può dire che la Anselmi considera il fenomeno P2
come patologico rispetto ad un sistema politico-economico sostanzialmente sano, Teodori, al
contrario, lo considera come fisiologico di un sistema portato inevitabilmente alla corruzione dalle
pratiche partitocratiche.
0.2 LIMITI DELLA RICERCA
Da quanto si è esposto nel paragrafo precedente si può già arguire quali siano i limiti che
caratterizzano il presente studio.
Un primo limite riguarda la natura delle fonti. In taluni casi, infatti, la documentazione
pubblicata dalla Commissione risulta manchevole: ciò può essere dovuto a uno scarso interesse dei
commissari verso un dato tema che si è poi riflesso nella scarsità di carte acquisite (è il caso, ad
esempio, della biografia di Licio Gelli); oppure può essere dato dal fatto che ormai molti
documenti risultano superati dagli avvenimenti e necessitano perciò di ulteriori riscontri (si pensi
agli atti istruttori di processi che, iniziati nel corso dei lavori della Commissione e da questa
pubblicati, sono giunti al termine dopo il 1984). In questi e consimili casi si è ricorsi alla non vasta
pubblicistica in merito e a fonti giornalistiche, quotidiani e settimanali: lo spoglio di tali fonti non è
stato comunque sistematico.
Un secondo limite viene imposto dalla vastità del tema trattato. L’obiettivo era quello di
operare una sintesi delle sfaccettature politiche in senso stretto del fenomeno P2, enucleando a tal
fine, all’interno della documentazione disponibile, le fonti a riguardo; al contempo, all’interno di
tali fonti, si poneva il problema di un’analisi non dispersiva. Per assicurare un certo equilibrio ai
due livelli, di sintesi e di analisi, si sono dovuti perciò tralasciare aspetti che, a rigore,
perterrebbero alla definizione di sistema politico. Si troveranno quindi solo accenni ai rapporti
della P2 con la magistratura o i corpi armati, mentre qualche informazione in più sarà presentata
per la burocrazia statale: una parziale eccezione sarà fatta per i servizi segreti, per evidenti e
impreteribili motivi
2
.
2
A tal proposito credo sia opportuno, per assicurare una successiva miglior comprensione, premettere qui alcuni dati
riguardo i servizi segreti italiani, data anche la gran varietà di sigle succedutesi dal dopoguerra a oggi. Tra il 1925 e
il 1945 operò il SIM (Servizio Informazioni Militari); tra il 1948 e il 1966 il Sifar (Servizio Informazioni Forze
Armate); tra il 1966 e il 1978 il SID (Servizio Informazioni Difesa); dal 1978 operano due servizi, uno militare, il
Sismi (Servizio Informazioni Sicurezza Militare), e uno civile, il Sisde (Servizio Informazioni Sicurezza
Democratica), coordinati dal CESIS (Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e Sicurezza). I direttori dei
servizi militari nel periodo trattato in questa sede sono: 1966-1970 Eugenio Henke; 1970-1974 Vito Miceli; 1974-1978
Mario Casardi; 1978-1981 Giuseppe Santovito; 1981-1984 Ninetto Lugaresi. I direttori del Sisde sono: 1978-1981
Giulio Grassini; 1981-1984 Emanuele De Francesco. I segretari del CESIS: 1978 Gaetano Napoletano; 1978-1981
Walter Pelosi; 1981-1984 Orazio Sparano. Accanto ai servizi segreti si incontreranno altri reparti informativi e cioè i
SIOS (Servizio Informazioni Operative e Situazione, o Servizio Informazioni e Operazioni Speciali) delle tre Armi e
gli Uffici “I” della Guardia di Finanza.
8
Si è poi solo accennato alle modalità violente di intervento nel sistema politico (caratteristiche
della prima P2), soffermandosi in particolare sui coinvolgimenti gelliani nel golpe Borghese, ma
tralasciando gli appoggi piduisti al terrorismo di destra.
Per lo stesso motivo ricordato più sopra sono stati tralasciati due importantissimi aspetti
dell’attività della P2, il versante finanziario e il versante dei mass-media, dando per acquisite le
conclusioni a riguardo cui giunsero le relazioni della Commissione
Ricordo infine che ci si occuperà prevalentemente delle attività italiane della P2, dando anche
in questo per scontate le connessioni internazionali di Licio Gelli e della sua loggia.
9
1. IL SISTEMA POLITICO ITALIANO NEGLI ANNI
SETTANTA
Se esiste un buon numero di studi che descrivono caratteristiche, funzionalità e rendimento
del sistema politico italiano, altrettanto non può dirsi per studi che analizzino il versante oscuro,
non visibile del sistema: tale lacuna, come già notava Norberto Bobbio
1
, è tanto più «inspiegabile»
quanto più il tema dei poteri occulti va emergendo via via maggiormente in tutta la sua centralità
nella storia repubblicana.
In questo primo capitolo si affiancherà dunque, a una prima parte volta alla succinta
descrizione del sistema politico dell’Italia negli anni Settanta, una seconda in cui si cercherà di
isolare gli aspetti qualificanti dei cosiddetti “poteri occulti”, dandone nel contempo una prima,
sommaria definizione.
1.1 IL SISTEMA POLITICO
1.1.1 Bipartitismo imperfetto o pluralismo polarizzato?
Negli anni Sessanta era ormai evidente, così allo studioso come al semplice osservatore, che
la democrazia italiana aveva assunto peculiarità negative che la differenziavano non poco dalle
altre democrazie occidentali: la prima, e la decisiva, di queste peculiarità veniva individuata nella
mancanza non solo di un’alternativa a una coalizione governativa centrata sulla DC, ma anche
della possibilità teorica di una tale alternativa. Era evidente perciò che la causa andava ricercata
nelle caratteristiche con cui era venuto strutturandosi il sistema di partiti italiano.
Tra gli studi in merito ebbe notevole successo quello di Giorgio Galli
2
. Fin dal titolo del suo
libro, Galli poneva l’accento sui due maggiori partiti, la Democrazia Cristiana e il Partito
Comunista Italiano, ma il suo scopo non era quello di una semplice ricerca su DC e PCI, bensì
quello di porre in evidenza come le caratteristiche del sistema dei partiti si riflettessero
negativamente sulle performance del nostro sistema politico complessivo: si chiedeva infatti il
politologo milanese: «Perché il parlamento italiano legifera poco e legifera male? Perché non si
occupa della “grande” legislazione […], mentre dedica quasi tutto il suo tempo a sfornare
“leggine” che soddisfano (talvolta solo temporaneamente) ristretti interessi settoriali? Quali
rapporti ci sono tra un parlamento che funziona in questo modo e il sistema politico nel suo
1
Norberto Bobbio, “Prefazione” a La strage. L’atto d’accusa dei giudici di Bologna, a cura di Giuseppe De Lutiis, Editori
Riuniti, 1986, p. IX.
2
Giorgio Galli, Il bipartitismo imperfetto. Comunisti e democristiani in Italia, il Mulino, 1966.
10
complesso […]?»
3
. In questo modo, veniva, da subito, posto in rilievo il nesso strettissimo tra
sistema partitico e sistema politico italiani (nesso che sarà al centro anche delle ricerche
successive), lasciando intravedere anche l’importanza sproporzionata dei partiti rispetto alle
istituzioni.
Galli, dopo un breve excursus sulle vicende delle tre legislature che si erano fino ad allora
susseguite, constatava che in Italia il pluripartitismo, con l’eccessiva polverizzazione delle
formazioni, impediva la coagulazione dei partiti in «poche ed essenziali “famiglie spirituali”»
4
; ciò
soprattutto perché uno dei due schieramenti definiti in base alle discriminanti destra-sinistra,
progresso-conservazione, radicalismo-moderatismo si trovava spezzato in due dalla presenza del
PCI. La DC si trovava così ad essere sicura della vittoria ad ogni elezione: «essa viene giudicata
[…] per quello che, qualunque cosa faccia, non può non essere: e cioè il grosso partito d’ordine
contrapposto al grosso partito “sovversivo”, cioè il PCI»
5
. Vivendo di rendita, il partito e i suoi
parlamentari, non possono che divenire «ostili ad ogni programma dinamico e riformatore [e]
favorevoli al mantenimento dello status quo»: tutto questo nonostante la DC non disponga della
maggioranza assoluta, ma solo di quella relativa
6
.
Sembra quindi evidente che il ristagno di un’attività politica riformatrice non debba essere
imputato solo alla DC, ma anche al «dilettantismo degli altri gruppi politici» incapaci di durevoli
coalizioni. I cosiddetti “partiti minori” hanno costituito l’interlocutore obbligato con il quale la
Democrazia Cristiana ha dovuto trattare per la formazione dei governi: se si considera che sia gli
interlocutori di destra, sia quelli di sinistra erano divisi in due-tre partiti
e che ognuno di loro
doveva partecipare in qualche modo alla gestione del potere, si può agevolmente comprendere
come anche questo fatto porti ad una sostanziale paralisi del sistema: «è degno di meraviglia non
già il fatto che il sistema politico e parlamentare abbia funzionato a scartamento ridotto, ma che
abbia, comunque, funzionato e non sia entrato in dissoluzione»
7
.
Per quanto riguardava più specificamente i due maggiori partiti, Galli metteva in luce che il
PCI, oltre a non “potere” accedere al governo (per la sua collocazione ideologica e i suoi legami
internazionali
8
), nemmeno lo “voleva”, in quanto il suo gruppo dirigente già disponeva di una sua
nicchia di potere; inoltre era chiaro che una tale eventualità avrebbe spostato gli equilibri
3
Ibidem, p. 43.
4
Ibidem, p. 53. “Famiglie spirituali” è espressione del sociologo francese Maurice Duverger.
5
Ibidem, pp. 54-55: il corsivo è nell’originale (l’avvertenza vale anche per il seguito).
6
Un’interpretazione meno rigida del ruolo della DC, a cui si rimprovera comunque di non aver saputo assicurare
maggiore stabilità, la si trova in Leopoldo Elia, “La forma di governo dell’Italia repubblicana”, in Il sistema politico
italiano, a cura di Paolo Farneti, il Mulino, 1975, pp. 333 sgg.
7
Ibidem, pp. 55 sgg.; la cit. è a p. 61.
8
Hine sottolinea anche che, diversamente dalla maggioranza degli altri paesi europei, è lo stesso elettorato a concepire la
politica in termini di alta polarizzazione (David Hine, Governing Italy. The Politics of Bargained Pluralism, Oxford
University Press, 1993, p. 97).
11
internazionali, con i rischi di una “prospettiva greca”. Dal canto suo, la DC, pur essendo divisa in
molte correnti, «nei momenti decisivi risulta e opera pur sempre come un partito»; un ulteriore
elemento a favore di tale partito era costituito poi dal sostegno della Chiesa cattolica
9
.
Elemento comune ai due partiti era poi il fatto che il processo di formazione delle rispettive
élite era «avvenuto assimilando un concetto della società e della storia, esprimendo scale di valori, nei quali
la democrazia rappresentativa ha solo una portata strumentale»: nel 1945 DC e PCI si “adattarono”,
comunque sinceramente, alla democrazia, pur essendo questo un valore estraneo al loro
patrimonio ideologico
10
.
L’amara conclusione cui giungeva Galli era perciò la seguente: «Il pluri-partitismo, così
condizionato e limitato, può dunque rendere perennemente valetudinario il sistema, ma non lo
può uccidere. […J questa sorta di bipartitismo è, appunto, largamente imperfetto […]. Quanto di
esso esiste, stabilizza il sistema. Quanto vi manca, ne abbassa considerevolmente il livello di
rendimento»
11
.
L’interpretazione proposta da Galli del sistema partitico italiano come bipartitismo
imperfetto, trovò da subito un avversario in Giovanni Sartori, che proponeva un modello chiamato
del “pluralismo polarizzato”
12
. Il politologo fiorentino cominciava col precisare che la sua analisi
13
avrebbe preso in considerazione i “poli”, i «punti di coagulazione» di un sistema partitico, e non i
partiti. Dei poli si prendevano in considerazione tre caratteristiche: 1) il “numero”: possono
esistere sistemi bipolari (senza centro) e multipolari; 2) la loro rispettiva “distanza”, che dà origine
a sistemi polarizzati o meno (la polarizzazione indica una distanza ideologica, non uno stato di
tensione); 3) la “direzione”: i sistemi bipolari tendono a convergere verso il centro, sono cioè
centripeti, quelli multipolari sono centrifughi. Sartori concordava con Galli sull’importanza dei
due maggiori partiti e sulle loro principali caratteristiche (in particolare, per la DC, la rigida
confessionalità che impediva la formazione di programmi coerenti, e, per il PCI l’esistenza di una
forte subcultura
14
), ma la sua analisi divergeva laddove si trattava di considerare il sistema di
partiti italiano nel suo complesso.
Sartori individuava tre linee di divisione o cleavage tra i partiti: 1) in primo luogo quella
della accettazione o meno del sistema, per cui si andava da partiti come il PCI o il MSI, considerati
9
Ibidem, pp. 64 sgg.
10
Ibidem, p. 73.
11
Ibidem, pp. 66-67.
12
La prima esposizione di tale teoria si trova in Giovanni Sartori, “European Political Parties: The Case of Polarized
Pluralism”, in Political Parties and Political Development, a cura di Joseph LaPalombara e Myron Weiner, Princeton
University Press, 1966, pp. 137 sgg.; Sartori è poi ritornato più volte sul tema, ma mai in modo organico: una
raccolta di articoli e saggi in merito si trova in Giovanni Sartori, Teoria dei partiti e caso italiano, SugarCo, 1982.
13
Giovanni Sartori, “Bipartitismo imperfetto o pluralismo polarizzato?”, in Tempi Moderni, n. 31, 1967, pp. 1 sgg.: il testo
è l’aggiornamento, con alcune modifiche, del cit. European Political Parties. Qui si cita da Il sistema politico italiano, a
cura di Paolo Farneti, cit., pp. 287 sgg.
14
Ibidem, pp. 292 sgg.
12
“anti-sistema”, al PSI (partito di “semi-accettazione”) alla DC e ai partiti minori, tutti “pro-
sistema”; 2) il cleavage laicismo-confessionalismo; 3) infine la tradizionale bipartizione destra-
sinistra
15
. Dalla compenetrazione dei tre cleavage risultava, a livello teorico, ma anche a livello
pratico (l’autore analizza le vicende del centro-sinistra), l’inevitabilità dell’eterogeneità e della
fragilità di qualsiasi maggioranza
16
.
Sartori, in conclusione, identificava le seguenti peculiarità dei sistemi a pluralismo
polarizzato: 1) la I mancanza di “centralità” con conseguente prevalere di spinte centrifughe; 2) la
mancanza di governi alternativi; 3) la presenza di una “opposizione irresponsabile” (nel significato
etimologico del termine); 4) il conseguente sviluppo di una “politica di scavalcamento”, di una
corsa al rialzo; 5) la presenza di una forte “rigidità ideologica”
17
. Inevitabile conseguenza di tutto
ciò è l’immobilismo.
Quest’ultima caratteristica è facilmente rintracciabile nel caso italiano, in cui sono
compresenti un’estrema polverizzazione del sistema partitico, una forte polarizzazione
18
e un
sistema di reclutamento del personale politico distorto. In più l’Italia deve affrontare
contemporaneamente tre crisi: 1) di redistribuzione delle risorse; 2) di legittimità e di integrazione;
3) di secolarizzazione. Ebbene, per affrontare i tre problemi non esiste un’unica maggioranza, ma,
di volta in volta, una maggioranza diversa per ogni tema: «il fatto che un paese sia difficile da
governare non toglie che possa essere malgovernato»
19
.
Confrontando il suo modello con quello di Galli, Sartori sottolinea che anche il modello
bipartitico inglese cui Galli fa riferimento non è “perfetto” e presenta caratteristiche tali da non
poter essere estrapolato. La complessità dei sistemi polarizzati non può essere inoltre ridotta a
dialettica bipolare: «l’opposizione permanente di chi “non risponde” non ha niente da spartire con
l’opposizione dei sistemi bipartitici, così come la logica di un partito di centro rovescia la logica
(bipolare) del “cercare voti” al centro»
20
.
Quando Galli e Sartori elaboravano i loro modelli (1966) l’eventualità di una collaborazione
del PCI a livello governativo sembrava ancora remota. Vediamo cosa scrissero i due studiosi dopo
il Sessantotto e la teorizzazione, da parte di Enrico Berlinguer, del “compromesso storico”.
15
Ibidem, pp. 296 sgg.
16
Cfr. ibidem, p. 299, fig. 4.
17
Ibidem, p. 301.
18
In “Frammentazione, polarizzazione e competizione: democrazie facili e difficili” (in Giovanni Sartori, Teoria dei partiti,
cit.), Sartori misurava il grado di polarizzazione di vari paesi: l’Italia risultava, con la Finlandia, il più polarizzato,
superando, del resto, ampiamente sia la Finlandia sia gli altri paesi nella polarizzazione sulla dimensione religiosa
(ibidem, tavv. 10.1, 10.2 e 10.3, pp. 257-258, pp. 270-271 e p. 274).
19
Ibidem, pp. 302-303.
20
Ibidem, pp. 306-307.
13
Giorgio Galli
21
credette di ravvisare nella politica berlingueriana un’eco di quella togliattiana
del 1945-1948, fondandosi entrambe su un ruolo attribuito al partito di mediatore e decantatore
delle tensioni sociali: era questa una conferma, per il politologo milanese, dei tentativi, per quanto
contraddittori, del PCI di «fare funzionare la democrazia rappresentativa in Italia» e, di
conseguenza, dell’integrazione del partito nel sistema
22
. Una seconda somiglianza con l’immediato
dopoguerra è data dall’idea, propria dei dirigenti comunisti, che un PCI al governo in opposizione
alla DC costituirebbe una tale perturbazione dell’ordine internazionale da portare ad una guerra
civile: alla «prospettiva greca» evocata da Togliatti si sostituisce la «prospettiva cilena» evocata da
Berlinguer
23
. Quello della collocazione internazionale è comunque un tema ambivalente per i
dirigenti comunisti: se, da una parte, viene usato a fini di prestigio, dall’altra una politica
sostanzialmente filosovietica preclude l’ingresso del PCI nell’area di governo.
Come giudizio conclusivo Galli sottolinea, rivelandosi buon profeta, che il passaggio del PCI
da una “opposizione permanente” ad una “opposizione comprensiva” (e, in prospettiva, a
impegni di governo) «ha convinto la DC non solo della sua insostituibilità, ma anche della sua
impunità»
24
.
Anche Sartori esprimeva grosso modo le stesse opinioni: checché fosse la reale natura del
PCI, era tuttavia certo che ne era cambiata la percezione: «sono aumentati i settori di opinione
disposti a ripetere, nei confronti del PCI, l’operazione di apertura, o di integrazione, già attuata nei
confronti del PSI»
25
; del resto, notava Sartori, «da almeno dieci anni a questa parte nel parlamento
italiano quasi non passa provvedimento che non sia concordato, o comunque tacitamente
consentito, dai parlamentari comunisti. Se ne ricava che il PCI non solo collabora, ma che è già, di
fatto, integrato nel sistema»
26
. Rimaneva vero, comunque, che «un partito può accettare il sistema,
senza che, per questo, ne venga accettato»
27
.
Quanto, più specificamente, al compromesso storico, Sartori, dopo aver negato che si
trattasse di qualcosa di simile a una “grande coalizione”, a un “fronte popolare” o a una forma di
“democrazia consociativa”, giungeva a definirlo come una “diarchia polarizzata”
28
, anche se poi
assegnava il ruolo decisivo al PCI (alle cui pressioni la DC non avrebbe potuto che «resiste[re]» o
21
Giorgio Galli, Dal bipartitismo imperfetto alla possibile alternativa, il Mulino, 1975.
22
Ibidem, pp. 148-149. Un’analisi condotta da Galli sulla composizione sociale e gli orientamenti culturali degli iscritti dei
due maggiori partiti aveva rivelato come indici tipici di una società in sviluppo fossero correlati positivamente in
misura maggiore al voto comunista rispetto a quello democristiano (ibidem, pp. 95-96).
23
Ibidem, p. 164.
24
Ibidem, p. 174. Hine fa arrivare tale “irresponsabilità” della DC fino alle elezioni del 18 aprile 1992 (David Hine, op. cit.,
p. 69).
25
Giovanni Sartori, “Rivisitando il pluralismo polarizzato”, originariamente pubblicato in Il caso italiano, a cura di Fabio
Luca Cavazza e Stephen R. Graubard, Garzanti, 1974; qui lo si cita da Giovanni Sartori, Teoria dei partiti, cit., p. 208.
26
Ibidem, p. 209.
27
Ibidem, p. 208.
28
Giovanni Sartori, “Lo scenario del compromesso storico”, in Il PCI dall’opposizione al governo, in Quaderni di Biblioteca
della Libertà, marzo 1978; qui lo si cita da id., Teoria dei partiti, cit., pp. 229 sgg.
14
«cede[re]»
29
); prospettava possibili scenari, tutti e tre poi non verificatisi, probabilmente per
l’eccessiva sottovalutazione delle capacità “consociativizzanti” della Democrazia Cristiana
30
.
In questa sede, più che discutere delle differenze dei modelli di Galli e Sartori, importa
metterne in luce le consonanze, i temi su cui entrambi gli studiosi concordano. Già il punto di
partenza della loro analisi è comune, trattandosi della constatazione che il sistema politico italiano
era un sistema politico bloccato: la motivazione veniva individuata nella impossibilità di
un’alternativa alla DC, stante la perdurante carica anti-sistemica del PCI. Che poi Galli
individuasse la soluzione al blocco in un bipartitismo di tipo inglese e Sartori replicasse che il
bipartitismo non portava automaticamente l’alternanza se non si fosse creato in precedenza un
sistema a polarità moderata, questo importa poco ai nostri fini.
La mancanza, addirittura a livello potenziale, di un’alternativa praticabile
31
e la necessità per
la Democrazia Cristiana di procedere a coalizioni aveva come portato inevitabile l’intrinseca
debolezza del governo e la sua incapacità di procedere a grandi riforme, incapacità aggravata dalle
tendenze centrifughe (sottolineate da Sartori) del nostro sistema politico.
Infine, il fatto stesso che i partiti fossero in grado di condizionare l’intero sistema, lasciava già
intuire quanto la loro influenza sulle restanti parti dello stesso fosse cospicua e, in prospettiva, con
ulteriori margini d’allargamento
32
.
1.1.2 La marginalizzazione del parlamento
L’attività legislativa del parlamento italiano negli anni Sessanta e Settanta si caratterizzava
per la produzione di «poche leggi di interesse nazionale, di pochissime leggi che incidono su
strutture, di rare o nessuna legge di programma e [di] molte leggi sezionali e micro-sezionali»: il
motivo fondamentale di tale stato di cose sembrava essere «una strategia basata su un ruolo
subalterno dello stato rispetto a scelte di fondo di un’economia non pianificata, quindi produttore
di una legislazione di sostegno»
33
. Alberto Predieri, cui si devono le precedenti notazioni, le
derivava da uno studio specifico sulla produzione legislativa del nostro parlamento dalla I alla V
legislatura (1948-1972) e, in parte, della VI (1972-1975). Dallo studio risultava che circa il 40% delle
29
Ibidem, p. 233. Più avanti Sartori spiega che la DC., al contrario del PCI, non ha nulla di «leonino» e che è un partito
«tipicamente predabile»; il PCI, inoltre, «è la perfetta antitesi del partito consociativo», per cui sarebbe esclusa
qualsiasi forma di collaborazione: il PCI, una volta raggiunto il governo, potrà da quella posizione, portare a
termine la «colonizzazione» della società cui ha posto mano «da trent’anni in qua» (p. 240).
30
Ibidem, pp. 240 sgg.
31
Anche un osservatore non interessato come lo studioso inglese David Hine rileva come peculiare del nostro sistema
politico la mancanza già “in potenza” (egli parla di «symbolic change») di alternativa, estendendo, in parte, lo
stigma che già fu del PCI anche al PDS (David Hine, op. cit., p. 3).
32
Alcuni di questi temi saranno meglio sviluppati nel prosieguo.
33
Alberto Predieri, “Mediazione e indirizzo politico nel parlamento italiano”, in Rivista italiana di scienza politica, V, 1975:
l’art. è parzialmente riprodotto in Il sistema politico dell’Italia contemporanea, a cura di Franco Cazzola, Loescher, 1978,
da cui si cita (nel caso, da p. 271).
15
leggi avevano carattere micro-sezionale ed il 25% circa carattere sezionale: queste cosiddette
“leggine” venivano per solito approvate dalle Commissioni parlamentari in sede legislativa. Con
tale procedura, anzi, venivano approvate addirittura due leggi su tre. Predieri notò inoltre che la
maggioranza che approvava le leggi molto spesso non coincideva con la maggioranza governativa,
a cui competeva sempre, per contro, la funzione di controllo. In effetti, una certa responsabilità
nella negligenza di leggi di riforma era da addebitarsi alle opposizioni (in primis il PCI) le quali,
nella discrezione delle Commissioni, più facilmente giungevano ad accordi con la maggioranza
34
.
L’andazzo delle leggine, inoltre, andava non solo a scapito del parlamento, che, per occuparsi di
semplici provvedimenti amministrativi trascurava le grandi leggi, ma interferiva anche con
l’attività di governo, cui sottraeva appunto provvedimenti amministrativi che avrebbero potuto
essere lasciati tranquillamente alla sua competenza
35
.
Il numero delle leggi di iniziativa parlamentare rimase abbastanza basso, aggirandosi tra il
quarto e il terzo del totale, mentre, sull’altro versante, i decreti legge erano in continuo aumento,
anche se la forza del governo in sede di conversione andava vieppiù decrescendo
36
.
L’evidente cattivo funzionamento del parlamento rilevabile da questi semplici dati numerici
era aggravato dalle, e insieme trovava spiegazione nelle, procedure informali che precedevano
l’approvazione dei singoli provvedimenti: «il processo legislativo, caratterizzato da incontri,
negoziazioni, compromessi, in un sistema politico connotato dalla inefficienza della maggioranza e
quindi del governo e dall’assenza di alternanza e di ricambio, fa sì che la legge diventi significativa
più come accordo che come norma. […]. Spesso, come tutti gli accordi politici, esso è momentaneo
e impreciso, destinato alla discussione e alla “verifica”. La legge ne subisce le conseguenze. Nasce
volutamente plurivalente, destinata a essere precisata in un successivo momento, ovviamente non
più dal parlamento […], bensì dall’amministrazione o dai giudici o dalle regioni»
37
.
A conclusioni simili era giunto anche Giorgio Galli, il quale aveva isolato cinque elementi che
consentivano il prosperare della «lentocrazia»: 1) il fallimento del decentramento con la mancata
attuazione delle Regioni
38
; 2) l’uso, da parte di DC e PCI, del parlamento come arena della «loro
monotona querelle ideologica, anziché in un organo di produzione legislativa»; 3) ciò è dovuto alle
«origini metafisiche» (ideologiche) dei due maggiori partiti, che rifuggono da una «presa di
posizione normativa sui problemi della società industriale»; 4) la paralisi vicendevolmente indotta
tra DC e PCI trasforma il parlamento in un meccanismo di produzione di output non mediati, in
vista della soddisfazione di interessi particolari; 5) una tale «politica logomachica e lentocratica» ha
34
Su ciò cfr. Alberto Predieri, Processo allo Stato, Sansoni, 1971, pp. 46 sgg. Qui si cita dal brano pubblicato (col titolo “Il
processo legislativo”) in Il sistema politico italiano, a cura di Paolo Farneti, cit., pp. 346-347.
35
Ibidem, pp. 348-349.
36
Alberto Predieri, “Mediazione e indirizzo”, cit., pp. 272 sgg.
37
Ibidem, p. 282.
38
Galli scriveva nel 1966.
16
finito per allontanare le intelligenze più aperte dalla vita politica. Come conseguenza di tutti i
cennati elementi si aveva il «rinvio permanente» delle grandi riforme
39
.
Un parziale risveglio del parlamento (e del sistema politico in generale) si ebbe dopo il
Sessantotto, tanto che negli anni Settanta videro la luce alcune leggi e riforme di non scarso
momento (Regioni, Statuto dei Lavoratori, riforma tributaria, riforma sanitaria, legge 180, equo
canone, divorzio, aborto). Tuttavia «il dinamismo improvvisato fuori dal ritmo del ricambio
limitato e dell’innovazione controllata, nonostante la validità dei provvedimenti adottati, ha
peggiorato la situazione contingente […], perché nel frattempo continuava del quadro politico
complessivo»
40
.
A mo’ di sunto e conclusione di quanto sin ora esposto vale la pena considerare i giudizi che
il costituzionalista Antonio Baldassarre diede nel 1985, in sede di analisi del funzionamento del
parlamento italiano negli anni Settanta
41
: tali giudizi, del resto, confermano quelli dati dagli
osservatori nel decennio precedente.
Baldassarre constatava che raramente il parlamento si era posto come organo di stimolo della
discussione pubblica, limitandosi, nella grande maggioranza dei casi, a rispondere «a domande
prepotentemente emerse nell’opinione pubblica, dando, per di più, repliche che si sono spesso
rivelate molto parziali o evasive [mostrando quindi] una reattività di tipo nevrotico»
42
.
L’emarginazione delle Camere nel processo di tematizzazione ha avuto i suoi episodi più eclatanti
nelle crisi di governo dette appunto “extra-parlamentari”. Il parlamento si è limitato perciò a
rincorrere i temi proposti da altri soggetti, tra cui la parte del leone era sostenuta dai partiti:
considerando i rapporti conflittuali, non solo inter-, ma intra-partitici, e la strumentalità
dell’inserimento in agenda di certi temi (cari alle proprie clientele) ne è risultata un’attività
parlamentare (compresa la funzione legislativa) frammentata e priva di indirizzo.
Analoghe considerazioni possono venire svolte riguardo alla funzione di controllo, vuoi per
la mancanza di strumenti efficaci, vuoi, di nuovo, per le ingerenze dei partiti. I due fenomeni si
manifestano in modo eclatante nelle commissioni d’inchiesta, in cui «la maggioranza è sottoposta a
una forma di controllo i cui confini (ambito dell’inchiesta, durata, ecc.) e i cui punti salienti […]
sono determinati dalla stessa maggioranza»: anche laddove le inchieste hanno funzionato, esse
«hanno prodotto effetti significativi soprattutto per il controllo diffuso che sono riuscite ad
attivare» (Baldassarre cita ad esempio proprio la Commissione P2)
43
.
39
Giorgio Galli, Il bipartitismo imperfetto, cit., pp. 285 sgg.
40
Giorgio Galli, Dal bipartitismo imperfetto alla possibile alternativa, cit., p. 60.
41
Antonio Baldassarre, “Le ‘performances’ del parlamento italiano nell’ultimo quindicennio”, in Il sistema politico italiano,
a cura di Gianfranco Pasquino, Laterza, 1985, pp. 304 sgg.
42
Ibidem, pp. 310-311.
43
Ibidem, p. 328.
17
Se, in ultima analisi, le principali funzioni del parlamento (di rappresentanza, di decisione, di
controllo) sono soggette a tali distorsioni, il giudizio sulle performance del nostro parlamento non
può essere che negativo: i regolamenti parlamentari approvati nel 1971 «hanno dotato il
Parlamento italiano di poteri tali da metterlo in grado di entrare effettivamente nel processo
decisionale con un peso tutt’altro che irrilevante. La prassi, tuttavia, ha rettificato notevolmente
tale progetto, al punto da indurre a parlare di non lieve scarto fra previsioni normative e realtà»
44
.
1.1.3 La “partitocrazia”
È nozione ed esperienza comune che i partiti esercitano una pervasiva influenza sulla vita
non solo politica, ma anche sociale del nostro paese: è ciò che normalmente si intende per
“partitocrazia”. A tale termine la scienza politica preferisce quello di “party government”,
dandone una definizione che implica l’esistenza delle seguenti condizioni: «1) tutte le più
importanti decisioni di governo debbono essere prese da persone scelte in elezioni condotte
secondo distinzioni e da persone nominate da e responsabili verso persone così elette; 2) le
politiche debbono essere decise all’interno del partito di governo o dopo contrattazioni fra i partiti
componenti la coalizione di governo; 3) le personalità di grado più elevato (ministri e presidenti
del Consiglio) debbono essere scelte all’interno dei loro partiti e debbono essere responsabili di
fronte all’elettorato attraverso i loro partiti»
45
.
Cazzola, dal canto suo, parla di “statualizzazione partitica”, riferendosi però principalmente
al progressivo coincidere tra DC e istituzioni
46
.
Seguendo un semplice modello input-output è oltremodo facile constatare come le
precedenti condizioni vengano del tutto soddisfatte nel nostro sistema politico. Già a livello di
input, di articolazione degli interessi ci si imbatte nella presenza dei partiti, i quali accolgono le
istanze dei gruppi di interesse solo se questi sono, nella classica bipartizione di Joseph
LaPalombara, “clienti” o “parenti” dei partiti stessi
47
. È comunque vero che le domande così
accolte hanno prevalente carattere particolaristico tanto che i partiti italiani sono stati descritti
come «weak aggregators of policies and programmes»
48
. Sul versante della produzione di decisioni
la presenza dei partiti è garantita dal fatto, rilevabile ictu oculi, che «in Italia sia l’esecutivo che il
legislativo sono di nomina partitica», tanto che le stesse decisioni vengono prese dopo
contrattazioni tra i partiti, il governo e il parlamento (nella sua duplice articolazione di aula e
44
Ibidem, p. 304.
45
Gianfranco Pasquino, Istituzioni, partiti, lobbies, Laterza, 1988, pp. 92-93.
46
Franco Cazzola, “Introduzione” a Il sistema politico dell’Italia contemporanea, cit., pp. 19-20.
47
Gianfranco Pasquino, op. cit., pp. 93-94: il riferimento è al volume di LaPa1ombara Interest Groups in Italian Politics,
Princeton University Press, 1964 (trad. it. Clientela e parentela. Studio sui gruppi d’interesse in Italia, Comunità, 1967).
48
David Hine, op. cit., pp. 69-70: l’autore pone a confronto questa debolezza con la forte presa dei partiti a livello di
controllo delle istituzioni.
18
Commissioni)
49
. Aveva già osservato Predieri che, nell’ambito dell’iniziativa legislativa,
«l’oligopolio dei partiti porta ad […] una concorrenza limitata e fittizia»: i provvedimenti
presentati si differenziano cioè pochissimo tra di loro e rispondono solo ad esigenze clientelari del
parlamentare
50
.
Molti osservatori pongono del resto l’accento sul ruolo centrale della burocrazia nel processo
decisionale
51
: ma, si chiede Pasquino, ammesso che i burocrati plasmino l’agenda che sarà
utilizzata dai politici, «riescono a farlo contro gli interessi degli uomini di partito oppure perché
ministri e sottosegretari o addirittura interi partiti hanno delegato loro questo compito?»
52
.E inoltre
non possono essere sottovalutate due peculiarità della burocrazia italiana, e cioè i suoi
reclutamento, nomina e carriera “partitici “ e la permanenza negli uffici non solo dei burocrati, ma
anche dei ministri (se non le stesse persone, perlomeno esponenti dello stesso partito
53
).
Se passiamo ora ai processi di feedback (la capacità, riferita alla classe politica, di modulare le
condotte future in base agli effetti di quelle passate) si nota ugualmente la soffocante presenza dei
partiti. La capillare diffusione di un ceto politico inteso in senso lato, consente un efficace tramite
tra le policy, i loro effetti e la loro eventuale modifica o riproposizione. Ma, del resto, il controllo
partitico del circuito di feedback è foriero di distorsioni, in quanto consente ai partiti di «eliminare
le informazioni sgradite e di evitare influenze di altri attori».
Questo fenomeno, riferito agli anni Settanta, portò a modalità aberranti nel rapporto tra
cittadini e partiti intesi come aggregatori di domande collettive. «La società percepisce che, con
questo inserimento nel sistema, ai partiti viene a mancare quel carattere tipico del partito di
associazione spontanea al di fuori del sistema e insieme in esso agente. La mancanza lascia
scoperta la funzione tipica dell’epoca moderna dei partiti […] di aggregatori di domanda non di
selettori del personale dell’apparato. Con la conseguenza che altre organizzazioni non partitiche
ma soprattutto di massa stanno avviandosi ad assumere il ruolo di aggregazione di domande
politiche sui temi fondamentali che erano dei partiti. Basta soffermarsi a considerare il ruolo di
portatori di riforme o di normazioni di interesse generale che stanno assumendo in Italia i
sindacati operai. […]. Lo sciopero, arma dei sindacati, viene usato per cercare di ottenere le riforme
di un sistema sviluppato in larghissima misura fuori dei centri di potere politico, e quindi
tagliando fuori questi centri per ottenere le riforme, che altrimenti dal sottosistema parlamento-
49
Gianfranco Pasquino, op. cit., pp. 98-99.
50
Alberto Predieri, Il processo legislativo, cit., p. 354.
51
Cfr. ad esempio lo stesso Predieri, ibidem, pp. 358-359.
52
Gianfranco Pasquino, op. cit., p. 107.
53
All’instabilità dei governi corrisponde infatti una estrema stabilità dei ministri [cfr. Percy A. Allum, Italy - Republic
Without Government?, Weidenfeld and Nicholson, 1973 (trad. it. Anatomia di una repubblica. Potere e istituzioni in Italia,
Feltrinelli, 1976, pp. 164 sgg.)].
19
partiti non escono»
54
. Desidererei evidenziare, di questa citazione, il passo in cui viene affermata la
ridislocazione del potere al di fuori dei centri istituzionali: tale fenomeno, se da un lato poteva
trovare sbocchi nella “supplenza del sindacato”, dall’altro poteva trovare esiti assai meno
controllabili socialmente, nell’assunzione di fette di potere sempre più rilevanti da parte di centri
occulti.
Tutto ciò appare ancora più grave se ci ricolleghiamo a quanto si diceva dianzi sul sistema
bloccato.
Da quanto è stato sin qui esposto si può trarre la conclusione che il party government italiano
sia del tipo “by default”, che si consolidi cioè “in mancanza di meglio”
55
. Il sistema politico è infatti
bloccato attorno ad una coalizione di interessi dominanti, interessi attorno ai quali, a loro volta, si
sono venute consolidando ben determinate coalizioni partitiche. Questo fatto è aggravato dalla
debolezza del parlamento, ipertrofico, privo di efficaci ed autonomi strumenti di informazione e
controllo, con un bicameralismo farraginoso e un sistema elettorale proporzionale che disperde la
rappresentanza. Ciò che, nell’economia della presente ricerca, preme rilevare è che la debolezza
del sistema lo porta inevitabilmente ad una alta permeabilità da parte dei gruppi d’interesse
(palesi ed occulti, come s’è detto poc’anzi). La penetrazione delle lobby avviene a vari livelli,
cominciando già al momento dell’acquisizione delle informazioni in vista della produzione
legislativa; l’intervento lungo l’iter è poi facilitato dal bicameralismo paritario che si interseca a sua
volta con il doppio esame in aula e in Commissione
56
.
A livello d’esecutivo il lobbying viene diretto ai singoli ministri «veri e propri feudatari del
loro territorio», quasi mai controllati e coordinati dal presidente del Consiglio: tale tipo di lobbying
trova terreno fertile nella «sostanziale incongruenza programmatica fra i vari partners e
addirittura [nella] concorrenza esplicita» nell’ambito dei rapporti coi gruppi d’interesse
57
. Inutile
puntualizzare che, sottesa a tutti questi tipi di rapporti, sta l’influenza diffusa dei partiti. Pasquino,
a cui dobbiamo l’analisi suesposta, conclude significativamente: «All’ombra dei governi deboli
allignano e prosperano le molte varietà di poteri occulti e si manifestano fenomeni di economia
sommersa»
58
.
1.1.4 Considerazioni riassuntive
Volendo procedere a schematizzare -le caratteristiche del sistema politico italiano, mi pare
valga la pena affidarsi ad un osservatore esterno, l’inglese David Hine, il quale, facendo il punto
54
Alberto Predieri, Il processo legislativo, cit., p. 361.
55
Gianfranco Pasquino, op. cit., , pp. 113 sgg.
56
Alcune modalità concrete d’intervento sono esemplificate ibidem, p. 132.
57
Ibidem, p. 133.
58
Ibidem, p. 148.
20
sulla situazione politica italiana, ne proponeva al contempo un’interpretazione in termini di
«bargained pluralism». Il “pluralism” ( talvolta inteso con connotazioni anche negative) si riferiva,
oltre che al sistema dei partiti, anche ad altri ambiti, in primo luogo la pluralità (spesso
conflittuale) dei centri di decisione e dei gruppi d’interesse; un ambito così strutturato, per poter
funzionare, deve necessariamente affidarsi alla mediazione, al compromesso (“bargain”).
Secondo lo studioso inglese, «the Italian version of liberal-democratic parliamentary
government […] has generated a highly bargained pluralist democracy, with power dispersed
across a wide range of arenas. Although in appearance the system is based on a strong version of
party government, the ability of the parties to aggregate demands and respond to them by offering
voters clear policy choices is limited. Moreover, the legal and constitutional system, and the
structure and qualities of the public administration, combine with the complexities of inter- and
intra-party relationships to complicate the implementation of policy once chosen by voters»
59
.
Anche Hine conviene sul ruolo abnorme assunto dai partiti in Italia: tale ruolo viene fatto
risalire da Hine al fatto che, nell’immediato dopoguerra, le sole istanze disponibili a raccogliere le
domande provenienti dalla società (nella quale associazioni e gruppi d’interesse erano per forza di
cose in gran parte assenti) erano i partiti; la situazione di partenza influenzò poi anche gli sviluppi
successivi delle relazioni tra partiti e gruppi d’interesse, che si risolvettero spesso in clientelismo
60
.
Ciò era particolarmente vero per la Democrazia Cristiana che, rimanendo al potere qualsiasi cosa
facesse, vide i suoi parlamentari, non costretti né all’unità, né all’efficienza, né alla disciplina di
maggioranza, spingersi sulla china delle domande sezionali provenienti dalle loro clientele,
soprattutto al Sud
61
.
Il Partito Comunista, d’altro canto, era sicuro di rimanere all’opposizione qualsiasi cosa
facesse. Ciò non gli fece considerare il parlamento come l’arena nella quale “allenarsi” a governare,
ma come l’arena nella quale immettere le domande (raccolte «on indiscriminate basis» e spesso
ideologizzate) provenienti dal suo elettorato (anche se, a differenza della DC, tali domande meno
frequentemente erano a carattere sezionale). Nell’ambito del parlamento (e, come s’è visto,
soprattutto delle Commissioni) spesso, poi, comunisti e democristiani raggiungevano accordi che
ne stemperavano la distinzione tra governo e opposizione
62
.
La conclusione che Hine trae dalla sua ricerca è che il problema fondamentale del sistema
politico italiano sia la sua scarsa “capacità aggregativa”, che si manifesta a vari livelli: a livello
della rappresentanza degli interessi con la polverizzazione dei gruppi, per di più divisi tra
59
David Hine, op. cit., p. 1.
60
Ibidem, pp. 8-9.
61
Meno asetticamente Pasquino parla di «clientelismo di massa» fondato «sull’abuso delle risorse statali e locali»
(Gianfranco Pasquino, op. cit., p. 161).
62
David Hine, op. cit., p. 171.
21
“pubblico” e “privato”; a livello del sistema partitico, frammentato in un alto numero di
compagini, molte delle quali divise al loro interno; a livello parlamentare, con la mancanza di una
sicura maggioranza governativa; a livello di governo, in cui la scarsa cooperazione, quando non
conflittualità, tra i ministri si riflette in politiche governative basate sull’inclusione indiscriminata
di provvedimenti, piuttosto che su chiari criteri selettivi; a livello della pubblica amministrazione,
divisa in “policy network” tra loro isolati
63
.
Se, in conclusione, volessimo brevissimamente enumerare le caratteristiche del sistema
politico italiano negli anni Settanta dovremmo prendere in considerazione: 1) l’impossibilità
costitutiva di alternanza; 2) una forte presenza dei partiti ad ogni stadio del processo decisionale
(input, output, feedback); 3) il controllo partitico dell’input strutturato secondo domande sezionali;
4) la dispersione del potere; 5) la marginalizzazione del parlamento; 6) l’impossibilità
dell’implementazione di politiche di ampio respiro a causa dei punti precedenti; 7) la surrettizia e
incompiuta cooptazione/penetrazione del PCI tra i partiti “pro-sistema” grazie dapprima agli
accordi con la maggioranza nelle Commissioni parlamentari, poi coi governi di solidarietà
nazionale; 8) il “pluralismo mediatorio” che si è instaurato, grazie alla dispersione del potere, per
superare la strozzatura costituita dalla mancanza di alternanza. Infine, per ciò che riguarda più da
vicino il tema della presente ricerca: 9) l’alta permeabilità alle lobby di partiti e istituzioni; 10) lo
sviluppo, all’ombra di strutture politiche complessivamente deboli, di centri di potere occulto.
63
Ibidem,p. 301. L’analisi di Hine si riferisce a tempi più recenti, ma è a mio parere estensibile anche al periodo da noi
considerato. Un “policy network” è una rete di interazioni attiva tra addetti ai lavori, possessori di know-how e
risorse strategiche.