5
Dopo 250 anni il Pitré e il Capuana ritrovano la parola con analogo
significato nel dialetto palermitano. In particolare il Pitré così la
definisce: “Mafia è voce francese, inglese, araba e che sò io; nacque
o fu importata per significare una pianta palermitana o della Sicilia
occidentale, che può chiamarsi camorra, malandrineria,
brigantaggio, come meglio piace”. Si tratta di un termine, come già
abbiamo anticipato, la cui eziologia si é anche fatta risalire al
toscano “Maffia”, termine questo, avversato dal Pitré per quanto
concerne la doppia “effe”, e che era ritenuto l’equivalente di
indigenza, ma che, ad ogni modo e comunque, era già presente nel
fraseggio siciliano sin dalla prima metà del 1800 e precisamente nel
rione di Palermo denominato il Borgo, quartiere che fino al 1880
era separato dalla città vera e propria; in questo caso però la parola
mafia significava soprattutto “bellezza”, “graziosità”, “perfezione”,
“eccellenza”, si trattava cioè di un aggettivo qualificativo positivo
che si dava ad una donna (ragazza “mafiusa”, cioè sinonimo di
bella) oppure ad una cosa (palazzo “mafiusu”, cioè elegante, bello).
Attribuito ad un uomo l’appellativo mirava soprattutto a metterne in
risalto la superiorità e la virilità, diventando sinonimo di “sicurezza
d’animo, coscienza di essere uomo”.
3
L’origine della parola
palermitana è tuttavia incerta. Diversi autori la fanno derivare
dall’arabo, e precisamente da mahias, che significa sfacciato,
oppure da Ma afir, nome della stirpe saracena che dominò Palermo.
Una terza teoria sull’origine araba la fa risalire al sostantivo maha,
3
Cfr. L. CAPUANA, La Sicilia e il brigantaggio, Roma, 1902, pp. 89-90.
6
cava di pietra, cioè quelle cave di tufo intese come “mafie” nel
Trapanese, che furono prima rifugi di saraceni perseguitati, poi
luoghi d’asilo di altri fuggiaschi.
4
Piuttosto azzardata sembra la variante di Loschiavo a questa teoria:
prima dello sbarco di Garibaldi, alcuni ribelli siciliani si sarebbero
nascosti nelle mafie intorno a Marsala da cui più tardi, durante la
marcia vittoriosa su Palermo, avrebbero tratto la denominazione di
mafiosi, cioè gente delle mafie. Con il passare del tempo, la parola
sarebbe stata usata anche come aggettivo nel senso di “superiore,
maschio, bello”, tramandatosi nel linguaggio popolare.
5
L’origine araba pare comunque verosimile.
Dobbiamo rilevare come fino alla seconda metà del XIX secolo il
termine designò, come abbiamo constatato, eccellenza, perfezione,
baldanza, che ancora oggi riecheggiano nella parola mafia. Dopo il
1860, però la voce “mafia”, nonché il suo derivato “Mafiusu” perde
la sua qualifica originaria e positiva ed a tale mutamento
contribuisce in maniera determinante un drammaturgo
palermitano
6
il quale in una sua commedia rappresentò scene che
descrivevano a forti tinte e con incisività di carattere gli usi, i
costumi, le abitudini ed il modo di parlare e di trattare dei camorristi
palermitani.
4
Cfr. G. LESTINGI, L’associazione della fratellanza nella provincia di Girgenti, in:
“Archivio di Psichiatria”, vol. V, 1884, p. 362.
5
Cfr. G.G. LOSCHIAVO, Cento anni di mafia, Roma, 1964, pp.30-31 e 170-171.
6
Cfr. G. RIZZOTTO, I mafiusi della Vicaria, Palermo, 1863.
7
In particolare rappresenta scene della prigione di Palermo: i
personaggi principali godono di un rispetto particolare da parte dei
compagni di reclusione e possono imporre norme di
comportamento, perché membri di un’associazione con determinate
usanze e gerarchie di rango. Si tratta appunto dei “camorristi”, detti
anche, per la prima volta e indifferentemente, mafiosi.
Soggiogati da questa commedia sia il cittadino comune che la
stampa e gli uomini politici, tra questi compresi coloro che si
trovavano nel governo, il termine “Mafia” diventò sinonimo di
“brigantaggio”, “camorra”, “malandrinaggio”, però senza che la
stessa potesse individuarsi con tali epiteti per il semplice fatto,
secondo l’opinione del Pitré, che “il brigantaggio è una lotta aperta
con le leggi sociali, la camorra un guadagno illecito sulle
transazioni economiche, il malandrinaggio è speciale di gente
volgare e comunissima rotta al vizio e che agisce sopra gente di
poca levatura”.
Quindi come si può notare, appare estremamente difficile poter dare
una definizione chiara, precisa, tassativa del termine “mafia” e
pertanto è opportuno fare ancora una volta riferimento al Pitré il
quale concludendo la trattazione dell’argomento, così scrive:
“....Che cosa sia io non sò dire....è quasi impossibile definirla. Si
metta insieme e si confonda un po’ di sicurezza d’animo, di
baldanza, di prepotenza e si avrà qualche cosa che arieggia la mafia,
senza però costituirla. La mafia non è setta, né associazione, non ha
regolamenti, né statuti. Il mafioso non è un ladro, non è un
malandrino, il mafioso è semplicemente un uomo coraggioso e
8
valente. La mafia è la coscienza del proprio essere, l’esagerato
concetto della forza individuale, unica e sola arbitra di ogni
contrasto, di ogni urto di interesse e di idee, donde l’insofferenza
della superiorità e, peggio ancora, della prepotenza altrui.
Il mafioso vuol essere rispettato e rispetta quasi sempre. Se è offeso
non ricorre alla Giustizia, non si rimette alla legge, se lo facesse,
darebbe prova di debolezza e offenderebbe l’omertà che ritiene
infame chi per aver ragione si rivolge al magistrato. È chiaro dopo
tutto questo, il triste ufficio a cui è stata condannata la voce
“mafia”, la quale era fino a ieri espressione di una cosa buona e
innocente, ed ora è obbligata a rappresentare cose cattive.
Essa ha seguito la sorte delle voci italiane “assassino”,
“malandrino”, “brigante”, le quali dal significare cose
originariamente buone in sé, finirono col significarne altre nocive
alla società”.
Nella letteratura coeva e posteriore al Pitré, altre definizioni
vennero coniate ma tutte, in sintesi, si riportavano alla stessa
matrice creata dal predetto Autore ed infatti taluni
7
videro nei
“mafiosi” i protettori degli interessi terrieri della nobiltà siciliana
sin dall’epoca garibaldina; mentre altri
8
individuarono la “mafia” in
quella rete di complicità, di intesa e minaccia nei riguardi delle
autorità amministrative, politiche e giudiziarie;
7
LOSCHIAVO, op. ult. cit., pp. 170-171.
8
F. BRANCATO, Storia della Sicilia postunificazione, Bologna, 1956, p. 186; E. REID, La
mafia, Torino, 1956, p. 140; G. MOSCA, Che cos’è la mafia, Bologna, 1900, pp. 136-138.
9
altri
9
ancora partendo da un concetto storico-economico e
sociologico, intravidero nella mafia e nel mafioso, un fatto di
costume “tanto radicato e connaturato con certi strati della
popolazione siciliana, che in qualche caso nessun cambiamento, per
quanto radicale, delle condizioni ambientali poteva riuscire a
modificarne i caratteri originari....il mafioso è un ladro perché vive
del lavoro altrui e in un certo senso è anche un “mendicante”: egli
chiede la tangente, il contributo, il sussidio di chi lavora o possiede.
Solo che li chiede con la violenza o la minaccia e conta
sull’acquiescenza o l’incapacità di reazione della sua vittima”.
Altri,
10
infine, nell’esaminare l’eziologia ed evoluzione del
fenomeno mafioso nel periodo pre e postunitario si soffermarono
sulla distinzione tra mafia e brigantaggio, esprimendosi così in
proposito: “Il brigante cerca di procacciare subito e quanto più
possibile dall’uso della violenza; il mafioso cerca di crearsi una
piattaforma che, per mezzo della coercizione, gli frutti quanto più e
meglio. Il brigantaggio era la violenza aperta sorgente dalla
ribellione; la mafia con l’industria della violenza si costituisce al
servizio di interessi molto più rilevanti nel loro valore che quello di
pochi tumoli di frumento, preziose suppellettili, od anche di qualche
capo di bestiame. Così il brigante viveva alla macchia nascosto e
pavido della legge e della forza costituita, il mafioso che della legge
sta al margine non ha alcuna difficoltà a muoversi per le strade del
suo paese. E concludevano quindi con la constatazione che
“lentamente la mafia assorbiva il brigantaggio, che passava al suo
9
V. TITONE, Storia, Mafia e costume in Sicilia, Ediz. Il Milione, Milano, 1964, p. 176.
10
servizio, da quel momento esso spunterà solo quando essa vorrà e
scomparirà ogni qualvolta essa intervenga a farlo cessare”.
È interessante notare poi che intorno al 1875, il concetto di mafia
comparve anche nelle lingue tedesca, francese e inglese, quando
l’opinione pubblica fu interessata dai dibattiti parlamentari sui
provvedimenti straordinari proposti dal governo Minghetti per
ripristinare la sicurezza pubblica in Sicilia. Possiamo ricordare fra i
numerosi eventi avvenuti in quel periodo: nel 1891 il linciaggio di
un gruppo di detenuti siciliani nel carcere di New Orleans; nel 1912
l’assassinio dell’agente di polizia americano Petrosino a Palermo;
intorno al 1950 la comparsa del bandito Salvatore Giuliano, il più
famoso bandito siciliano del dopoguerra, il quale, tralasciando gli
affari da lui conclusi con campieri, gabelloti ed altri elementi
mafiosi e la conseguente provvisoria protezione da questi ottenuta,
che ai fini della nostra analisi non interessano, merita di essere
menzionato, per i motivi che vedremo in seguito, soprattutto il fatto
che egli volesse ottenere il distacco della Sicilia dal “continente” e
la sua unione con gli Stati Uniti.
Unione che in effetti ci fu, ma non geografica come auspicata da
Giuliano, bensì, come è ben noto, politico-criminosa.
Gli Stati Uniti, infatti, nel corso degli ultimi anni della seconda
guerra mondiale contribuirono al rafforzamento della mafia in
Sicilia, in particolare attivando, durante l’invasione della Sicilia
occidentale, una serie di contatti con i mafiosi nord-americani,
membri di “cosa nostra”. Con l’aiuto di questi ultimi gli Usa
10
S. SONNINO e L. FRANCHETTI, La Sicilia nel 1876, vol. I, Firenze, 1925, p. 146; G.
ALONGI, La mafia, Torino, 1887, p. 72.
11
potevano concludere l’invasione senza gravi perdite (al contrario di
quanto accadde agli Inglesi, che nella Sicilia orientale trovarono
molte difficoltà). La riconoscenza degli Americani si risolse
nell’affidare ai mafiosi gran parte delle Amministrazioni comunali,
nel procurare ad essi benefici economici, ma, soprattutto, nel
riconoscere loro un impegno antifascista: ciò significava
l’eliminazione di tutte le annotazioni penali dai fascicoli della
polizia.
Chiusa questa piccola parentesi, comunque importante e che
avremo modo di approfondire successivamente, e ritornando al
tema centrale del paragrafo in esame, la parola mafia passa infine ad
indicare soprattutto il delitto organizzato, fino a quando, grazie a
giornalisti avidi di notizie scandalistiche, confusi giuristi dell’Italia
settentrionale e autori stranieri, diventa addirittura il nome di
un’organizzazione: l’origine della parola viene ricollegata con la
nascita di una società segreta e a poco a poco si accreditano le
congetture più fantastiche, fino alla teoria limite, secondo la quale
mafia sarebbe una deformazione del vocabolo arabo mu afah in cui
mu vuol dire integrità, forza, prosperità, e afah assicurare,
proteggere. Quindi Mu afah sarebbe stata un’associazione che
garantiva la sicurezza ai propri membri.
11
Da quanto si è detto si può trarre la conclusione che la “mafia” è
un’associazione occulta, difficile da individuarsi e definirsi, i cui
adepti, come avremo occasione di osservare nel proseguo della
trattazione in esame, uniti da un vincolo di omertà e di “onore”,
11
Cfr. R. CANDIDA, Questa mafia, Caltanissetta-Roma, 1960, p. 56.
12
sfruttando la loro potenza fatta di intimidazioni, violenze e minacce,
in maniera accorta e circospetta, si insinuano nei vari settori della
vita economica ed industriale, al fine di trarne ricchezze ed utili,
nonché nella vita politica per trarne vantaggi e per poter fruire di
coperture ad alto livello (la cosiddetta “mafia dei colletti bianchi” di
cui è certa l’esistenza, ma problematica l’individuazione e quindi la
precisa caratteristica).
2. Il concetto di agire mafioso nella sua genesi territoriale
e sociologica.
Uno dei più profondi conoscitori del fenomeno mafioso e delle sue
reali componenti sociologiche, il Pitré,
12
come è già stato
sottolineato precedentemente, affermava nel 1889: “io non saprei
indicare cos’è la mafia....è quasi impossibile definirla”.
Da quell’epoca certamente molte cose sono cambiate e non ultima
proprio la mafia, la cui struttura associativa è oggi lontanissima dal
fenomeno che con tanta accuratezza d’analisi l’illustre scrittore
studiava. Comunque la difficoltà di circoscrivere in un contesto
definitorio il concetto di “agire mafioso”, sembra assumere le
caratteristiche di una costante che attraversa tutti i tentativi di
soluzione proposti ai più disparati livelli. È sufficiente rilevare
infatti come, in genere, i fenomeni sociali proprio per le loro
peculiari caratteristiche difficilmente appaiono suscettibili di
schematizzazioni o di etichettature: l’irripetibilità e l’unicità di essi
13
rendono infatti impossibile enucleare un parametro linguistico che
non rischi un superamento a breve termine; quindi o si storicizza il
fenomeno studiandolo in un contesto cronologico ben determinato
cercandone una sua riduzione in termini di larga approssimazione, e
procedendo poi con lo stesso metodo a seguirne gli sviluppi e le
modificazioni, oppure ci si limita ad un approccio analitico che
eviti del tutto ogni ambizione definitoria. Se quest’ultima, secondo
quanto afferma il De Liguori, è la via più praticabile, sarà già
possibile trarre una prima conclusione. L’agire mafioso, al di là
dalle tentazioni di mera archeologia linguistica,
13
nasce, si radica, si
diffonde e si trasforma in Sicilia e nell’ambito particolare e
caratteristico di quella società e del suo sistema economico; esso ha
trovato quindi la sua genesi e continuo alimento in un contesto che
potremmo definire “tipico”, peculiari ne sono pertanto le sue
caratteristiche, il tessuto organizzativo, gli scopi e, come avremo
modo di analizzare, le metodiche. Prima di soffermarci su questi
aspetti, dobbiamo però evidenziare come la situazione sopra
descritta, così ricca di connotazioni ambientali ed etnico-sociali, pur
denunciando da sempre una sua spiccata vocazione “nazionale” ed
“internazionale”, e prescindendo dai suoi legami con il
gangsterismo nord-americano e “cosa nostra”, resta pur sempre
12
G. PITRÈ, Usi e costumi del popolo siciliano, Palermo, 1889, ripubblicato poi nel 1939 con
il titolo, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, pp. 280 ss.
13
V. G.TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 1995, pp. 31 ss; R. CHINNICI,
La mafia: aspetti storici, sociologici e sua evoluzione come fenomeno criminoso, in suppl. n.
5/6/ al Cons. Sup. Mag., 1979, p. 281, e dello stesso autore, Magistratura e Mafia, in Dem. e
dir. 1982 n° 4, p. 87, nonché tutta la ricchissima bibliografia citata dal TURONE, ma i cui
approdi “semantici” in realtà non contribuiscono “da soli” alla comprensione di un fenomeno
la cui continua evoluzione ne impedisce storicamente ogni precaria cornice definitoria.
14
legata, quanto meno nei primi cinquant’anni di questo secolo, alla
Sicilia.
14
Consequenzialmente possiamo porci il problema del perché la
mafia nasce e si radica in Sicilia e non in altre zone del
mezzogiorno, dove pure si erano sviluppati estesi fenomeni di
banditismo e dove, a prescindere dalle particolarità proprie di
ciascuna regione (Puglia, Basilicata, Calabria e Campania), si erano
svolte analoghe vicende storiche e quindi si era creata una
condizione socio-economica non dissimile. Forse la spiegazione è
da ricercarsi non nella contrapposizione tra la tesi che intende la
mafia come “mentalità” o “costume” e quella che invece la ritiene
una vera e propria forma di “organizzazione” criminale, ben
strutturata e ricca di rituali e di un ferreo codice “d’onore”, ma
bensì in una visione più globale e storicamente valida che parta,
necessariamente, dalla Sicilia, quale peculiare ambito territoriale,
sociale e politico.
Dobbiamo infatti tenere presente che la struttura politica della
Sicilia fu sempre contrassegnata da una straordinaria debolezza
degli organi del potere ufficiale, dalla diffidenza, anzi dall’ostilità
della popolazione verso gli organi statali e dal suo ritirarsi nel
sistema informale delle istituzioni di auto-soccorso, in particolare la
famiglia e la clientela.
Una fuggevole scorsa alla cronistoria ci induce a due importanti
conclusioni: primo, la Sicilia non è mai stata l’artefice della propria
14
Osserva G. DE CESARE, voce Mafia, in Enc. dir., vol. XXV, Milano, 1975, p. 139, che
sebbene il termine “mafia fosse stato usato in un’area linguistica più vasta di quella siciliana,
lambente addirittura i confini del Regno delle Due Sicilie”, il fenomeno nasce e si radica nella
15
storia, ma piuttosto una terra di permanente dominio; secondo,
questo dominio era soggetto a continui mutamenti e la distanza e il
cambio del centro sovrano, non consentivano alla popolazione di
identificarsi con i detentori del potere. La Sicilia, tuttavia, è stata
prevalentemente tenuta dai suoi governanti sotto una specie di
tutela senza avere un proprio governo autonomo (il Parlamento
siciliano, infatti, sebbene composto da deputati dei tre ceti: clero,
nobiltà, e borghesia dei territori demaniali, era in realtà uno
strumento dei baroni e anche dopo il trasferimento della giustizia
punitiva dalle mani dei feudatari a quelle dei funzionari statali, i
baroni continuarono a sottrarre i propri sottoposti, i propri “bravi”,
alla giustizia) e senza d’altra parte essere un territorio coloniale
totalmente soggiogato e sfruttato.
15
Entrambi tali fattori avrebbero
avuto come conseguenza una certa forza degli organi ufficiali del
potere, permettendo ad alcuni dominatori stranieri di introdurre
condizioni sociali che influenzarono profondamente il carattere
popolare. Basta pensare a questo proposito che fin dal tempo della
dominazione romana, i lavoratori nei latifondi erano schiavi che
vivevano ovviamente in continuo contrasto con il potere costituito e
dove ci sono schiavi, ci sono fuggiaschi e gente in cerca di asilo che
spesso si trasformavano in banditi e ai fini del nostro discorso,
“parte occidentale dell’isola” dove resta legato alla borghesia terriera; solo successivamente la
mafia opera un salto di “qualità” che la farà assurgere a dimensioni internazionali.
15
V. a questo proposito, quanto afferma H. HESS, Mafia, Bari, 1984, p. 28, con prefazione di
SCIASCIA e postfazione di W. RAITH.
16
la loro importanza nella formazione del carattere della zona in cui
vissero (un territorio corrispondente all’incirca alle odierne
province di Palermo, Trapani e Agrigento) non dev’essere
sottovalutata. Essi tramandarono infatti certe norme e valori nati da
un’esistenza politica contrassegnata dalla fuga, dalla ricerca d’asilo,
da un’esistenza economica instabile e specialmente da una forte
avversione anarchica contro ogni sistema coercitivo o giudiziario
dello Stato e contro ogni struttura dominante accentrata o
gerarchica.
Comunque la conseguenza forse più importante della lontananza e
debolezza dei governi era il dilagare dell’indipendenza, come si è
accennato in precedenza, nelle potenze locali più forti, i baroni.
Infatti la nobiltà siciliana si interessava poco alla politica del
sovrano del momento, non essendo né una nobiltà d’armi, né una
nobiltà di corte, condizione questa dovuta alla posizione della
Sicilia come protettorato della Corona spagnola, che non obbligava
la nobiltà siciliana al servizio militare e la esentava dalla vita di
Corte.
Fino alla tarda epoca moderna i baroni vivevano nelle loro
proprietà come se fossero cittadelle medievali, con tutti i privilegi e
le immunità dell’epoca feudale. Nel secolo XVII, quando nel resto
d’Europa l’autonomia feudale cominciò a cedere il posto alla
centralizzazione nazionale, Filippo III concesse ai baroni siciliani il
maerum et mixtum imperium, ovvero il diritto di amministrare la
giustizia punitiva.
16
16
Cfr. TITONE, op. ult. cit., p. 219.
17
Altro problema che non dobbiamo tralasciare allo scopo di
comprendere i motivi del radicarsi della mafia in Sicilia, è dato dal
fatto che gli organi statali non riuscivano a garantire una sicurezza
pubblica vera e propria. E come conseguenza il siciliano risolveva
allora i problemi avvalendosi di una serie di rapporti bilaterali
concatenati costituiti di volta in volta da parentela, amicizia o
relazione patrono-cliente. Tali catene rimangono latenti in grande
numero e varietà; ognuna si concretizza in base ad una determinata
necessità. La loro importanza scaturisce dal fatto che per tanti
problemi il ricorso all’impersonale apparato di una burocrazia è da
escludere o per incompetenza giuridica del soggetto che ad esso
dovrebbe ricorrere, o per le lungaggini procedurali o per l’onere
finanziario; le soluzioni desiderate, inoltre, possono esorbitare dalla
legalità e proprio per questa ragione l’apparato formale dev’essere
evitato. Ne deduciamo pertanto che in una subcultura, in cui
burocrazia e istituzioni giuridiche formali sono conformi alle
esigenze della cultura sovrapposta, c’è da aspettarsi un ricorso
sempre maggiore alle relazioni personali e all’aiuto privato.
L’incapacità dell’autorità coercitiva statale di assolvere le funzioni
d’ordine è dovuta a vari motivi: anzitutto all’atteggiamento ostile
della popolazione nei confronti della polizia, dei carabinieri e dei
magistrati, alla difficoltà di questi ultimi di trovare persone disposte
a collaborare. A questo proposito dobbiamo rilevare come una delle
“norme” subculturali vigenti nell’ambito di cui ci stiamo
occupando, sia quella dell’omertà, su cui è opportuno soffermarci
brevemente.
18
La parola omertà deriva dal siciliano omu, uomo. Il significato
globale del concetto racchiude in particolare l’immagine del vero
uomo: secondo l’opinione dei siciliani, la natura del vero uomo
consiste nel sapersi far rispettare con i propri mezzi, nel difendere
da solo la proprietà, nel tutelare e se necessario nel ripristinare da sé
l’onore proprio e della famiglia, nel saper regolare problemi e
controversie con la propria forza senza invocare l’aiuto altrui, né
ricorrere a qualsiasi autorità statale.
17
Ne consegue ovviamente il
rifiuto incondizionato dell’uomo “d’onore”, di cui si diceva
poc’anzi, di collaborare con gli organi giuridici statali, quando è
colpito non solo direttamente, ma anche indirettamente. Non è
soltanto la paura di rappresaglie che induce il testimone di
un’azione punibile a norma di legge a rifiutare ogni informazione
richiestagli, ma anche la convinzione che “prendere in mano la
faccenda” spetti alla vittima o ai suoi parenti. È consequenziale
allora, seguendo questo ragionamento, che con l’efficace, e
sottolineo efficace per i motivi anzidetti, intervento delle autorità
statali, si toglie, in un certo senso, al colpito la possibilità di
dimostrarsi “uomo di sostanza”.
Ritornando ai motivi della carente sicurezza pubblica, altre cause di
difficoltà per polizia e carabinieri sono l’ignoranza della
configurazione geografica (sentieri, boschi, montagne, caverne) e il
linguaggio del popolo. Oltre alla sovrapposizione di competenza fra
Carabinieri da un lato e Pubblica Sicurezza dall’altro che portava a
continui attriti, un’altra causa d’insuccesso era la discordia nel
17
Cfr. R. CIASCA, Mafia, in Enciclopedia italiana, Roma, 1934-1942, vol. 25, p. 345.