proprio genere paraletterario, con determinate caratteristiche e regole da
seguire. Negli ultimi anni, la presenza del cibo nella narrativa è diventata
sempre più insistente, ed è aumentato il numero di romanzi e racconti in cui
la cucina ricopre un ruolo fondamentale, quando non ne è addirittura
protagonista assoluta. Questo fenomeno letterario sembra essere, da un
lato, particolarmente diffuso nella letteratura femminile postcoloniale, e
dall’altro molto gradito al pubblico occidentale.
L’idea della tesi nasce proprio dall’osservazione di questo fenomeno
letterario, e si propone di indagare sulla recente considerazione che il cibo
ha avuto- e continua ad avere- nella narrativa contemporanea. Si è pensato
di circoscrivere l’indagine ad un numero ristretto di opere, che sono state
scelte all’interno delle letterature ispanoamericana e indoinglese, poiché è
proprio in questo ambito che tale fenomeno ha avuto una maggiore
diffusione. Un’altra scelta è stata quella di analizzare solamente testi che
appartengono alla letteratura femminile: più degli uomini, infatti, sono le
donne ad avere creato e a portare avanti questa tendenza nascente. In
particolare, l’analisi si è concentrata principalmente sulle autrici più
rappresentative, Laura Esquivel e Bulbul Sharma, senza tuttavia trascurare
la restante produzione.
Si è cercato inoltre di indagare sulla natura del ruolo svolto dal cibo
all’interno delle opere prescelte, analizzandole dettagliatamente e
mettendone poi in luce le similitudini. E’ stato riscontrato che il cibo è
comunemente sentito come elemento caratterizzante della propria cultura di
provenienza, e che è inoltre portatore di importanti valori sociali e
comunicativi. Infine, sono state fatte delle considerazioni riguardanti il
successo commerciale di cui tali opere godono presso il pubblico
occidentale: si è cercato cioè di capire quali siano le ragioni che
influenzano i lettori- e soprattutto le lettrici- nella scelta di romanzi che
coniugano l’universo femminile a quello culinario. Nelle opere che sono
state analizzate, il cibo e la sua percezione sono legati a culture sconosciute
al pubblico occidentale, sentite come lontane, diverse, esotiche, e per
questo motivo più affascinanti.
8
La tesi è stata divisa in quattro capitoli principali. Il primo, “Tra
cultura e storia”, è un capitolo introduttivo a sua volta diviso in due parti.
Nella prima viene tracciata una storia culturale del cibo, mettendone in luce
l’importanza antropologica. In tutti i luoghi e in tutti i tempi, infatti, il cibo
ha sempre rivestito un’essenziale importanza non solo per il singolo, ma
anche e soprattutto a livello comunitario: attraverso l’assunzione di un
certo modello alimentare si sono delineate grandi civiltà e si sono fatte
differenziazioni di classe e di genere. La seconda parte del capitolo delinea
il contesto storico di Messico ed India, e si focalizza sugli avvenimenti
contemporanei di maggiore importanza che hanno influenzato la letteratura
più recente: la rivoluzione messicana del 1910, e la lotta indiana per
l’indipendenza dall’impero britannico.
Il secondo capitolo è dedicato interamente alla cultura e alla letteratura
messicana. Dopo alcune pagine introduttive sui prodotti tipici
sudamericani, sul rapporto della popolazione con l’arte culinaria e sul ruolo
svolto dal cibo nello sviluppo e nella formazione della società, si è passati
all’analisi del diffusissimo Como Agua para Chocolate, primo romanzo di
Laura Esquivel. La scelta di anteporre la parte messicana a quella indiana è
motivata da una ragione cronologica: l’opera della Esquivel è stata infatti la
prima del suo genere, quella che ha dato il via alla diffusione del tema
culinario in letteratura; era doveroso, pertanto, inaugurare con tale testo la
discussione letteraria. Nell’analisi viene posta attenzione alla singolare
struttura del libro, responsabile dell’unicità di quest’ultimo; si indaga poi
sui personaggi, in particolare la protagonista, e sul rapporto che ognuno di
loro ha con la cucina. Infine, ci si interroga sugli svariati significati
veicolati dal cibo: è stato riscontrato per esempio un forte legame con
l’amore in tutte le sue forme (eros, affetto e amicizia) e più in generale con
tutti i sentimenti, che il lavoro in cucina aiuta ad esprimere agli altri.
Inoltre, l’arte culinaria rimanda a valori propri della cultura orale, come
memoria e popolarità, anche questi analizzati in dettaglio.
Il terzo capitolo, dedicato alla letteratura indoinglese, segue una
struttura parallela alla precedente: ad una parte descrittiva sullo stretto
legame tra alcuni aspetti della civiltà indiana e il suo cibo, segue quella più
9
puramente letteraria. In questo caso sono stati presi in considerazione sei
testi, tutti con una forte componente culinaria, ma nessuno talmente di
successo da poter essere messo singolarmente a confronto con quello della
Esquivel. Ad una breve panoramica sulla letteratura femminile indoinglese
segue l’analisi dei romanzi, che sono stati divisi in tre differenti gruppi: il
primo contiene una raccolta di racconti costruiti tutti attorno al cibo, che è
quindi il filo conduttore e la chiave per comprendere l’opera. Nei libri che
appartengono al secondo gruppo il cibo è l’elemento di sfondo: la sua
presenza è cioè avvertibile nell’atmosfera che avvolge la storia. Negli
ultimi due testi, infine, il cibo è definito come elemento di contorno,
secondario ma comunque presente sia nel titolo che nell’intreccio.
L’ultimo capitolo si propone di avviare una discussione sul boom
culinario nella letteratura internazionale: in primo luogo, i testi più
rappresentativi delle due letterature- Como Agua para Chocolate e The
Anger of Aubergines- sono messi a confronto, e ne vengono delineate
similitudini e differenze. In seguito, si sono dedicate alcune pagine alla
diffusione che tale fenomeno ha avuto nella letteratura sudamericana a
partire dal romanzo della Esquivel: sono stati analizzati due testi di
particolare rilievo, Señora de la Miel e Afodita, rispettivamente di Fanny
Buitrago e Isabel Allende, di cui si è cercato di mettere in luce
l’atteggiamento nei confronti del romanzo messicano. Infine, ci si interroga
sul ruolo svolto dal cibo nelle due letterature, chiedendosi in che misura
questo sia culturale, sociale o commerciale. In quest’ultima parte vengono
presi in considerazione tutti i testi analizzati: si cercano di trovare quegli
aspetti comuni che hanno decretato il loro successo di pubblico, e quindi ci
si domanda se questo successo sia una conseguenza o una causa
dell’impiego del cibo come tematica letteraria.
Essendo i testi primari molto recenti e le autrici (soprattutto quelle
indiane) scarsamente contemplate in ambito letterario, la bibliografia critica
consiste principalmente in materiale reperito via web o ricavato da riviste e
supplementi letterari. E’ stata raccolta una consistente quantità di articoli,
recensioni, interviste che riguardano le pubblicazioni analizzate; le fonti
sono supplementi settimanali a quotidiani italiani, inglesi e americani,
10
riviste letterarie ispanoamericane e anglofone. Il suddetto materiale è stato
reperito sia in forma cartacea che attraverso la rete, fonte particolarmente
preziosa anche per alcuni siti in cui sono state trovate altre recensioni. Su
alcuni testi indoinglesi è stato particolarmente difficile reperire
informazioni bibliografiche: ci si è pertanto basati principalmente sul testo
primario e su volumi generali sul rapporto tra cibo e cultura, tenendo
comunque in grande considerazione lo scarso materiale critico reperito. Per
quanto riguarda la parte introduttiva, sono stati consultati volumi di
antropologia, sociologia e psicologia riguardanti il ruolo svolto dal cibo
nelle società, in particolare quelle occidentali. Sono inoltre stati consultati
manuali di storia e di letteratura postcoloniale, oltre ad alcuni testi
sull’alimentazione indiana e messicana. A questo proposito, ancora una
volta sono risultati utili diversi siti internet.
11
12
1- TRA CULTURA E STORIA
Questo primo capitolo si propone di introdurre il contesto all’interno del
quale è stato svolta la tesi. Si è pertanto cercato di tracciare una storia sociale
del cibo, mettendo in luce il ruolo che questo ha occupato nei raggruppamenti
umani lungo il corso dei secoli, partendo dalle società più antiche e primitive
fino ad arrivare ai nostri giorni. Nonostante sia stata presa come esempio la
civiltà occidentale, ciò che viene detto riguardo al rapporto dell’essere umano
con il cibo può essere esteso a tutte le culture, così come i mutamenti che tale
relazione ha subito nel tempo, e le varie sfaccettature dovute alla classe sociale
o al genere cui le singole persone appartengono.
Nel capitolo si introduce anche il contesto storico delle due società
oggetto di interesse, il subcontinente indiano e il Messico: in particolare, ci si
focalizza su quegli avvenimenti che hanno maggiormente influenzato il
panorama letterario attuale, e quindi le opere che verranno analizzate in
seguito.
1.1- CIBO COME SPECCHIO CULTURALE
In tutte le società umane, a partire dalle più antiche e primitive fino a
quelle più moderne, evolute e contemporanee, la ricerca e
l’approvvigionamento del cibo hanno sempre svolto un ruolo necessario e
fondamentale. Necessario, perché il cibo è il carburante del corpo umano, ciò
che dà energia, forza, vigore, e che quindi garantisce la sopravvivenza
dell’uomo: il doversi nutrire è prima di tutto un fatto fisiologico e biologico.
Ma il cibo, proprio perché così importante per il sostentamento, è venuto ad
essere qualcosa di più che semplice materia utile al buon funzionamento
corporeo, si è caricato di significati e simboli fondamentali nella vita dei
singoli e dei gruppi: si potrebbe dire che oltre a nutrire il corpo il cibo nutre
anche l’anima.
Possiamo anche definire il nutrimento come un fatto collettivo: fin dai
tempi più remoti i raggruppamenti umani – come clan, tribù, famiglie – si sono
rivelati necessari alla sopravvivenza dei singoli. Un uomo, se da solo, non può
13
far fronte ai mille pericoli e difficoltà che la natura gli impone, ma unendosi
con altri, scambiandosi aiuti e conoscenze, lavorando insieme per soddisfare i
bisogni primari e per affrontare i pericoli riesce più facilmente ad aumentare la
quantità e la qualità della sua vita. Anche la ricerca del cibo si rivelò fin da
subito più proficua se svolta in gruppo, perché in questo modo era più facile
catturare prede grandi e più nutrienti. Inoltre, con la scoperta dell’agricoltura e
con le prime esperienze di allevamento di animali si poteva non solo
sopravvivere nell’arco di qualche giornata, ma si garantivano alla comunità
riserve di cibo certamente più durature. Le popolazioni che disponevano di una
maggiore quantità e varietà di cibo erano anche le più numerose ed evolute, e
pertanto si espandevano con più facilità, conquistando territori e inglobando
altri gruppi ai quali imponevano, pacificamente o meno, i propri modelli di
vita. E’ in questo modo che si sono diffuse l’agricoltura, nata in zona
mesopotamica 9000 anni fa, e la pastorizia, diffusa dalla popolazione
indoeuropea all’incirca tre millenni dopo.
L’onnipresente preoccupazione alimentare e le difficoltà che ogni giorno
e ogni anno si presentavano all’agricoltore, e ancora prima al cacciatore e al
raccoglitore, conferirono alla ricerca del cibo importanti valenze simboliche.
Tutte le religioni e le mitologie, a partire dalle più antiche e semplici,
attribuiscono un ruolo importante a quegli elementi - animali, vegetali,
materiali o immaginati - ritenuti fonti di cibo, o mezzi per poterselo procurare.
Gli uomini primitivi dipingevano sulle pareti delle grotte scene di caccia, e
indossavano intere pellicce di animali durante danze rituali e propiziatorie. Le
specie animali che fornivano maggiore nutrimento o da cui si potevano
ricavare più prodotti, allo stesso modo delle armi e degli utensili che
permettevano la produzione di beni alimentari, venivano tenute in grande
considerazione. I cacciatori più coraggiosi e più abili erano trattati con
maggior rispetto, spesso diventavano persone molto importanti all’interno del
gruppo e a volte venivano addirittura considerati eroi. Molte delle figure
mitologiche si trasformavano in animali o prendevano da essi particolari
caratteristiche positive. In tutte le popolazioni poi, ci si rivolgeva agli dei
perché rendessero fertili i terreni, proteggessero raccolti e animali dalle
difficoltà climatiche e territoriali e fornissero gli uomini della forza e del
14
coraggio – ma anche della fortuna – necessari al successo nelle battute di
caccia.
Quando i raccolti erano particolarmente abbondanti, o quando un
episodio di caccia risultava proficuo, si usava festeggiare rendendo grazie agli
dei, o a qualunque cosa avesse reso possibile quella vittoria. Il ringraziamento
era costituito da particolari riti in cui alcuni animali venivano sacrificati al
cospetto delle divinità; a questi seguivano banchetti a cui tutta la comunità
prendeva parte. Specifiche procedure regolavano l’atto sacrificale: spesso
l’animale doveva essere ucciso in un determinato modo e macellato secondo
alcune norme prestabilite, dicendo particolari preghiere o compiendo gesti
sempre uguali a sé stessi. L’animale sacrificato, quindi, veniva mangiato in un
rituale che nascondeva importanti significati: in quelle occasioni l’atto del
mangiare non era puramente fisico, non rispondeva ad un’esigenza di
sostentamento, ma era un modo per ringraziare e allo stesso tempo per
assumere, attraverso il cibo, le caratteristiche positive che erano appartenute
all’animale e la benevolenza delle divinità che il sacrificio aveva loro
assicurato.
Il pasto può avere anche valenze sociali: importante era l’aspetto
comunitario del banchetto: le prede, gli animali sacrificati, il raccolto della
stagione venivano consumati insieme in feste comuni, dove tutti gli abitanti
del villaggio prendevano parte attivamente. Nutrirsi di uno stesso animale
dopo aver svolto uno stesso sacrificio era un modo di unire i componenti di
una società, di farli sentire appartenenti allo stesso gruppo. Si ricevevano forza
ed energia da una stessa fonte, e questo aumentava il legame dei membri della
comunità, che si sentivano depositari di una verità e di un destino comuni, e
che, di conseguenza, diventavano più solidali gli uni con gli altri e pronti ad
aiutarsi e collaborare di fronte alle difficoltà. Anche le alleanze tra comunità
differenti erano sancite da banchetti e da riti comuni: personaggi considerati
importanti erano invitati a feste e cerimonie rituali, alleanze di guerra venivano
sancite con sacrifici e banchetti e, in parecchie comunità, si festeggiavano le
vittorie sacrificando i prigionieri.
In molte tribù dell’antichità, e in alcuni casi anche del nostro tempo, i
prigionieri di guerra, in special modo quelli ritenuti particolarmente valorosi,
non solo venivano sacrificati alle divinità, ma venivano anche mangiati,
15
subendo così la stessa sorte degli altri animali. Molti antropologi hanno
studiato le ragioni e i significati del cannibalismo, un’usanza che nelle grandi
ed evolute società odierne è considerata tabù, un atto abominevole ed incivile,
ma che è ancora praticato in alcune piccole e remote tribù. Se è vero che
episodi di cannibalismo sono presenti in tutti i luoghi e in tutti i tempi, se è
vero che non solo piccoli gruppi, ma anche società evolute come quella azteca
l’hanno praticato, ciò vorrà dire che tale usanza nasconde significati e
simbologie molto importanti. Quello del cannibale che cucina in pentola gli
stranieri che capitano ingenuamente nel suo territorio solo perché ha fame,
andando a caccia di uomini invece che di animali non è uno stereotipo
verosimile. Marvin Harris, che ha trattato l’argomento in più opere, sostiene
che per un essere umano individuare una possibile preda di caccia in un altro
essere umano non è assolutamente proficuo, in quanto vorrebbe dire battersi ad
armi pari, senza avere la sicurezza di alcun vantaggio sull’altro
1
. Non esistono
specie animali che si cacciano a vicenda, e neanche l’uomo è cannibale per
fame. I casi più diffusi di cannibalismo individuano le vittime tra i prigionieri
di guerra o tra quelle persone considerate eroiche, mentre i beneficiari si
spartiscono le parti del corpo del sacrificato in maniera gerarchica.
Solitamente, i capi tribù, i guerrieri, gli eroi di guerra ricevono gli organi più
importanti, come il cuore, il cervello o il fegato, perché in questo modo
assumono in loro il coraggio, la forza, la temerarietà o l’intelligenza che sono
appartenute alle loro vittime. E’ come se queste continuassero a vivere nel
corpo di altri, e le loro virtù non si estinguessero mai. La vittima del
cannibale, pertanto, non è mai scelta a caso, è una persona ammirata e
rispettata per alcune particolari doti, ma considerata pericolosa per
l’incolumità della tribù. La natura simbolica del cannibalismo è confermata
anche dalla spesso complicata ed elaborata cerimonia che prepara il sacrificio:
danze, canti, gesti ed azioni propiziatorie anticipano, accompagnano e seguono
il rito sacrificale, che può durare parecchio tempo.
Quando parliamo di banchetti, di riti, di sacrifici non parliamo solo di
cibo, di materia organica o di carcasse animali mangiate così come sono state
1
cfr. Marvin Harris, Buono da mangiare. Enigmi del gusto e consuetudini alimentari, Torino, Einaudi, 1990,
cap.10 (trad. it. di Piero Arlorio). Edizione originale: Cows, Pigs, Wars and Witches: the riddles of culture,
New York, Vintage Books, 1989
16
trovate. Una delle caratteristiche principali che differenzia l’uomo dagli altri
animali è l’utilizzo del fuoco. Scoperto casualmente, si imparò a non averne
paura, ed in seguito ad usarlo per gli scopi più vari. Oltre a scaldare, illuminare
e proteggere dagli animali più feroci, si scoprì che il fuoco poteva avere
un’altra funzione importante, quella di cuocere. La carne cotta era senza
dubbio migliore della cruda, non tanto come gusto, ma perché più facilmente
masticabile e senza dubbio più sana, dal momento che la cottura in un certo
senso “sterilizza” il cibo, uccide batteri responsabili di malattie e allunga,
sebbene di poco, il potere di conservazione della carne. Dal momento che lo
stesso pezzo di carne assume caratteristiche (anche visibili) differenti a
seconda che sia passata o meno sul fuoco, la cottura venne percepita come una
trasformazione, e il fuoco come un elemento magico. Quando cucina, quindi,
l’uomo è una sorta di mago, un alchimista che cambia la natura degli elementi.
Ecco perché nei sacrifici è così importante la funzione del fuoco, ed ecco
perché è altrettanto importante la figura del sacerdote, una persona che ha
qualcosa in più degli altri, che doma il fuoco e lo utilizza, che trasforma,
cuoce, cucina.
La cucina è un elemento molto importante in tutte le religioni: ognuna di
esse dà ai suoi discepoli regole alimentari più o meno strette da rispettare, a
volte durante alcuni periodi, altre volte per tutta la vita. Molti esempi possono
essere citati: dal cristianesimo, che impone l’astinenza dalla carne e il digiuno
in alcuni giorni prestabiliti, alla religione musulmana, che, oltre al digiuno
diurno nel mese del Ramadan proibisce il consumo della carne di maiale
(nonché degli alcolici). Più numerose e articolate sono le prescrizioni
dell’ebraismo, che proibisce molti altri tipi di carne oltre alla suina, e che
fornisce norme riguardo alla cottura del cibo e alla macellazione degli animali.
L’induismo considera i bovini animali sacri e ne vieta pertanto la
macellazione; i bramini, poi, devono sottostare a rigidissime regole alimentari
e igieniche: possono mangiare solo alcuni cibi (in prevalenza vegetali), cotti in
una certa maniera e forniti loro in determinate condizioni.
Attraverso la religione l’uomo concretizza il proprio desiderio di elevarsi
dalla semplice condizione di animale: per fare questo deve sviluppare quelle
caratteristiche che lo differenziano dagli altri animali, e allo stesso tempo
mortificare tutti gli istinti che lo “abbassano” nella gerarchia della natura.
17
Saper gestire i morsi della fame, resistere alle tentazioni culinarie attraverso
restrizioni, ma soprattutto digiuni, è molto importante per i discepoli di una
religione, perché in questo modo dimostrano di avere una maggior padronanza
del proprio corpo. Nella religione cristiana per esempio, il nutrimento dello
spirito è ritenuto superiore a quello fisico perché l’anima ha molta più
importanza del corpo. Il digiuno assume quindi il valore di allenamento al
rigore e alla mortificazione dei propri istinti. Nell’induismo e nel buddismo il
digiuno è praticato in particolar modo dagli asceti e dai sacerdoti, perché
permette un più completo distacco dalle cose terrene e un’elevazione al mondo
spirituale.
Tuttavia, nell’ambito alimentare, non sono solo la negazione del cibo o le
limitazioni che lo riguardano a caratterizzare le religioni. Ogni religione ha
l’alimento che la contraddistingue, che considera sacro, nel quale riversa una
profonda carica simbolica: i cristiani, per fare un esempio a noi vicino,
riconoscono nel pane e nel vino rispettivamente il corpo e il sangue di Cristo.
Uno degli episodi evangelici più importanti è senza dubbio quello dell’Ultima
Cena, dove Gesù investe questi due alimenti – che non a caso appartengono ad
una tradizione povera e mediterranea – di significati che vanno ben al di là
della semplice nutrizione. Anche Gesù, come i sacerdoti delle tribù più
antiche, compie una sorta di “magia”, di trasformazione. L’Eucarestia non è
l’unico miracolo che il Cristo compie con il cibo: la moltiplicazione dei pani e
dei pesci, il miracolo del vino a Canan dimostrano come il cibo sia ritenuto
fondamentale, sempre al centro di episodi misteriosi e positivi. Il cibo salva la
folla affamata, salva i peccatori, è veicolo di unione, è comunque e sempre
simbolo che rimanda a significati più profondi. Il miracolo della manna che
cade dal cielo nel libro dell’Esodo, e le disposizioni alimentari che Dio dà agli
ebrei per festeggiare la Pasqua alla vigilia della loro fuga, dimostrano come il
cibo fosse parte fondamentale anche nel Vecchio Testamento, sacro agli adepti
di due religioni. L’agnello, il pane non lievitato e le erbe amare sono ancora
oggi, dopo millenni, i tradizionali cibi della Pasqua ebraica, e, per quanto
riguarda l’agnello, anche di quella cristiana.
Quando parliamo di cucina dobbiamo tenere in conto che la cottura non è
l’unica trasformazione possibile. Fin da tempi antichissimi, con la scoperta
dell’agricoltura e dell’allevamento l’uomo è stato in grado di produrre,
18
lavorando nei modi più diversi gli elementi che la natura gli forniva, cibi molto
complicati, completamente artificiali. Basti pensare alla preparazione del pane,
a come la spiga di grano non abbia, nella sua forma, nessuna somiglianza con
il prodotto finito; allo stesso modo risulta difficile pensare che da un alimento
come l’oliva si possa produrre olio, o che dalla fermentazione dell’uva si possa
ottenere una bevanda pregiatissima. Vino, birra, cioccolato, formaggi,
ciambelle, sono tutti prodotti che richiedono una lunga e complessa
preparazione, che forse sono nati per caso ma che hanno contribuito alla
creazione dell’arte culinaria. Nuovi mestieri, come il mugnaio, l’oste, il
venditore, e nuovi luoghi, il mulino, il mercato, le vigne, sorsero per
permettere la produzione e la distribuzione dei prodotti vecchi e nuovi. Come
conseguenza, cambiò il paesaggio naturale, il panorama sociale e
l’atteggiamento delle persone nei confronti del cibo, che diventò anche una
possibile fonte di guadagno e ricchezza.
Il cibo è anche causa e conseguenza di distinzione sociale. Come è già
stato accennato, quando ancora gli uomini non erano organizzati in società
evolute, ma vivevano raggruppati in piccole tribù, durante i banchetti che
seguivano i sacrifici rituali, le parti dell’animale sacrificato venivano divise tra
i commensali non equamente, bensì rispettando un certo ordine gerarchico. Di
solito le parti più pregiate spettavano ai capi tribù, ai sacerdoti, agli uomini più
valorosi o ai più anziani. Il fatto di riservare il cibo migliore all’uomo migliore
nacque da una necessità, ma divenne un segno di rispetto. Per fare in modo che
la tribù si mantenesse forte contro i pericoli che la minacciavano, era
necessario che i suoi membri più dotati si conservassero in buona salute e
aumentassero la loro forza. Il benessere del capo era ritenuto più importante di
quello di tutti gli altri componenti, i quali rinunciavano ai cibi più energetici e
freschi perché i più degni potessero usufruirne. Fare questo tipo di distinzione
dimostrava anche un riconoscimento implicito, da parte della tribù, verso
l’autorità rappresentata dall’individuo – o dagli individui – in questione. Tale
segno di rispetto venne mantenuto nel tempo, e, man mano che le società si
evolvevano e la produzione alimentare aumentava in varietà e quantità, il cibo
divenne uno status symbol, un simbolo di distinzione sociale.
In tutte le società e in tutti i tempi, anche i contemporanei, gli alimenti
seguono un certo ordine di importanza e di prestigio, e vengono associati a
19
determinate classi sociali, diventando così elementi identitari di culture
diverse. La storia dell’occidente, per esempio, è fatta di un continuo
incontrarsi e scontrarsi di due realtà alimentari contrapposte, ognuna delle
quali designa un particolare stato sociale e culturale. Se i romani seguivano
una dieta basata in prevalenza su cereali e vegetali, con le invasioni
germaniche il panorama alimentare subì un sostanziale cambiamento. I popoli
provenienti dal nord Europa infatti, portarono con sé il proprio modello
nutrizionale, basato su un alto consumo di carne, e lo imposero anche nelle
zone dove prevaleva una cultura agricola. Alla sanguigna tradizione
germanica, che prediligeva le grandi abbuffate quali segno di forza e vigore, si
contrappose anche la cultura cristiana, caratterizzata dall’alternanza di periodi
di digiuno e altri di feste, e basata su una triade di prodotti tipicamente
mediterranei: pane, vino e olio. La diffusione di questa religione partì dai ceti
più poveri, di cui rispecchiava in pieno la tradizione alimentare , e si diffuse in
tutti i territori già occupati dai germani, impedendo così alla cultura cerealicola
romana di scomparire.
Il risultato di questo scontro culturale fu che i due modelli alimentari, il
romano-cristiano e il germanico, convissero e si mischiarono, ma non si
amalgamarono mai completamente: la carne infatti rimase per molto tempo
alimento ricercato, adatto allo stomaco dei ricchi signori. Le frequenti e
periodiche carestie resero necessario l’aumento delle superfici coltivate, in
quanto, a parità di spazio, un maggior numero di persone poteva essere
sfamato con prodotti agricoli piuttosto che con quelli animali. Ma aumento
delle superfici coltivabili voleva anche dire disboscamento, e di conseguenza
una minore possibilità di praticare la caccia e di allevare gruppi cospicui di
animali. La carne diventò perciò un alimento ricercato, prerogativa dei ceti
nobiliari: i pochi terreni incolti rimasti divennero proprietà privata, e solo i
ricchi feudatari potevano permettersi di cacciare e di consumare carne
regolarmente; gli altri, la grande massa, i poveri e i contadini continuavano a
nutrirsi di legumi, ortaggi e cereali, riservando i cibi più energetici, come
uova, carne e frutta, per le occasioni speciali.
20
Vito Teti, nel suo saggio Il Colore del Cibo
2
, distingue i due modelli
nutrizionali, quello ricco e quello povero, attraverso la contrapposizione dei
colori caratterizzanti le due diete. Abbiamo già visto come il rosso della carne
si contrapponga al verde degli ortaggi e delle erbe; tuttavia, c’è almeno
un’altra distinzione da fare, che riguarda soprattutto un alimento, quella tra
pane bianco e pane nero. Il pane, in particolar modo nelle società
mediterranee, è sempre stato considerato il cibo principale, assoluto, senza il
quale era carestia
3
. Era inoltre carico di simboli positivi, poiché segno di
fertilità e di vita: il sole faceva nascere e crescere il grano, le donne lo
impastavano e lo infornavano. Il caldo del forno, la forma tondeggiante della
pagnotta ricordano l’utero o la pancia della donna gravida. Il pane era cibo
rituale, in alcune occasioni speciali la sua preparazione era obbligatoria (per
esempio in seguito ad una morte assicurava la rigenerazione e continuità della
vita), e chi lo preparava doveva seguire particolari regole o avere determinati
atteggiamenti: per aiutarlo a lievitare e a cuocere, ad esempio, era importante
essere allegri, ridere e fare smorfie, in quanto anche la risata era simbolo di
fertilità e di vita. Il pane però, non era uguale per tutti: i ceti più poveri non
consumavano mai quello di frumento, bensì quello di cereali minori. Nelle
zone del nord Europa, troppo fredde perché la coltivazione del grano risultasse
proficua, il pane nero era (lo è tuttora) più diffuso di quello bianco, ma al sud,
dove invece il clima permetteva una maggiore produzione generale di pane,
quello bianco era considerato cibo di lusso, riservato alle tavole dei ricchi
signori. Coltivare i campi a cereali minori permetteva di disporre di una
maggiore quantità di prodotto, e pertanto era più conveniente per i contadini,
che riservavano la farina di frumento alla vendita.
Oltre al pane bianco e alla carne il cibo presentava altre differenze di tipo
sociale. I ceti più abbienti, volendo distinguersi ed elevarsi sempre più rispetto
a quelli più poveri, elaborarono una piramide alimentare, sostenuta anche da
teorie medico-scientifiche, che ordinava gli alimenti in ordine gerarchico. Gli
alimenti che occupavano il posto più alto, e che erano considerati appropriati
alla dieta dei ricchi, erano quelli che meno entravano in contatto con la terra,
2
cfr. Vito Teti, Il Colore del Cibo, Roma, Meltemi, 1999, cap. 5
3
cfr. Piero Camporesi, La Terra e la Luna. Dai riti agrari ai fast food, un viaggio nel ventre dell’Italia,
Milano, Garzanti, 1995, cap.1
21
come frutta e carne, soprattutto quella di volatili. Ai poveri, dicevano i medici,
mangiare allo stesso modo dei ricchi provocava disturbi e malattie anche
mortali; per loro erano più adatti ortaggi e prodotti della terra, che d’altra parte
restavano poco consumati da nobili e mercanti.
Polente, zuppe, minestre, carne essiccata e pane nero erano i cibi
consumati nella civiltà contadina, mentre cacciagione, frutta, pane bianco e
spezie caratterizzavano quella nobiliare. Le spezie, in particolare, erano molto
ricercate: originariamente usate come medicinale, durante il periodo delle
crociate ebbero in Europa un afflusso più massiccio. Contrariamente a quanto
si possa pensare, il principale motivo che spingeva i ceti più ricchi all’uso
delle spezie in cucina non era quello di coprire il cattivo sapore della carne
andata a male, e nemmeno quello di conservarla, semplicemente perché alla
mensa dei ricchi arrivava solo carne fresca. I poveri, al contrario, che ne
mangiavano solo in occasioni speciali, usavano altri metodi per conservarla.
La causa della diffusione delle spezie era di natura sociale
4
. A causa della loro
origine esotica e ricercata, le spezie erano piuttosto rare in Europa, e per
questo destinate unicamente alle tavole di chi se lo poteva permettere. I
borghesi che commerciavano con l’oriente, si arricchirono con questo fiorente
mercato, e le spezie diventarono per loro un elemento caratterizzante, con il
quale prendevano le distanze dai più umili, e con il quale si differenziavano
anche dal ceto nobiliare.
Con la scoperta dell’America il gusto per l’esotico aumentò e in Europa
sbarcarono, assieme a racconti favolosi su terre mai viste, prodotti alimentari
di cui mai si era sentito parlare. Tuttavia, fu solo a partire dal ‘700 che questi
nuovi prodotti iniziarono ad essere coltivati per il beneficio dell’uomo.
L’Europa aveva inizialmente un equilibrio alimentare che non necessitava
l’aggiunta di altre colture, e pertanto gli europei, per diffidenza ed ignoranza,
furono restii ad introdurre nella loro dieta prodotti come patate, mais o
pomodori. In seguito però, quando la stabilità alimentare si ruppe e affiorò una
nuova ondata di carestie, questi nuovi alimenti entrarono col tempo a far parte
della dieta quotidiana delle persone, dei più poveri (mais, patate, pomodori,
fagioli) come dei più ricchi (cacao, peperoncino, zucchero). Il panorama
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cfr. Montanari, La Fame e l’Abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Bari, Ed. Laterza, 1993,
pp.76-87