7
organica tra i reati fallimentari e quelli societari in modo da creare
una sorta di continuità tra le varie figure dei reati in esame. Questa
esigenza di organicità viene in rilievo soprattutto dall’analisi dell’art.
223 l.f. In questo articolo infatti vengono presi in considerazione
diverse forme di reati societari per porli poi in assoluto contatto con
la bancarotta, forse il più tipico dei reati fallimentari. Nella sua
passata formulazione, questa norma, aveva suscitato non pochi
problemi di interpretazione proprio in merito al rapporto tra il
fallimento e i reati societari.
In questo articolo infatti, si definisce la bancarotta cosiddetta
“impropria” o “societaria”, in contrapposizione a quella “propria”
dell’art. 216 l.f. Questa distinzione è effettuata sulla base dei soggetti
attivi; pertanto mentre nella bancarotta propria il soggetto attivo del
reato è l’imprenditore, in questa fattispecie i soggetti attivi sono
amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di società
dichiarate fallite. La norma nella sua precedente formulazione, era
stata ampiamente criticata in dottrina e giurisprudenza in quanto
contestava il reato di bancarotta sul semplice presupposto della
contemporaneità del fallimento con uno dei reati societari elencati
dallo stesso art. 223 l.f. Una tale previsione finiva così per punire, con
le pene severe proprie della bancarotta, fatti non collegati con il
8
dissesto societario oppure accaduti notevolmente prima della crisi
della società.
Il legislatore, in merito a questi problemi, ha posto l’accento sul
principio di offensività (tassatività dei beni giuridici oggetto di
lesione delle condotte penalmente rilevanti) e sul principio della
sussidiarietà (la preferenza di altri sistemi di tutela, come ad
esempio, il risarcimento del danno ai creditori), riservando la tutela
penalistica alle fattispecie più gravi e deplorevoli.
In ossequio a questi principi, il legislatore ha provveduto ad
innovare la disciplina della bancarotta fraudolenta impropria
coordinandola con il nuovo assetto dato ai reati societari. Questo è
stato fatto, da un lato, comprendendo nella fattispecie di cui all’art.
223 l.f. 2° comma n. 1, fatti integranti reati societari aventi
omogeneità di offesa rispetto al bene giuridico tutelato dalla
bancarotta e dall’altro, imponendo che tali fatti abbiano causato o
concorso a causare il dissesto della società. In mancanza di questo
nesso causale o in difetto di prova di sussistenza di esso, i
responsabili saranno puniti con le più lievi sanzioni previsti dalle
sopra citate norme del codice civile.
Sul punto occorre precisare che, come si vedrà meglio nei prossimi
capitoli, la prova di questa causalità sarà tutt’altro che semplice e
dovrà analizzare con rigore e minuzia la ricostruzione dei fatti che
9
hanno caratterizzato l’andamento dell’impresa. Traccia di questo
comportamento rigoroso lo si può trovare già in alcune, recenti,
sentenze della Suprema Corte1 dove la ricostruzione dell’eziogenesi
del dissesto appare particolarmente attento.
Significato della parola “dissesto”, inoltre, sarebbe dall’opinione
prevalente2, sostanzialmente identificato con il termine “fallimento”
usato nell’art. 223 n. 2, inteso come incapacità non occasionale o
straordinaria di fare fronte regolarmente alle proprie obbligazioni di
cui all’art. 5 l.f. Il dissesto che rileva pertanto è solo quello che sfocia
nel fallimento, ricostruito come evento del reato, previsto e voluto
dall’agente anche solo indirettamente. Il fallimento, visto da un
punto di vista strettamente processuale, rimarrebbe inteso come
“condizione obbiettiva di punibilità”, inteso come una condizione
necessaria sancita dalla declaratoria stessa.
Alla luce della riforma operata dal D.lgs. 61/2002 quindi,
allorquando una delle ipotesi criminose previste dagli artt. 2621
(false comunicazioni sociali), 2622 (false comunicazioni sociali in
1
Cfr. Cass. pen. sez V, 28,03, 2003, Negro, in Diritto e Giustizia, n. 20,
2003.
2
Cfr. Antolisei, Manuale di diritto penale e leggi complementari, Milano,
1954, pag. 139; Nuvolone, Il diritto penale del fallimento,Milano, 1955,
pag. 220; Pedrazzi, Reati commessi da persone diverse dal fallito, in
commentario Scialoja-Branca, Bologna, 1995; di opinione contraria:
Antonioni, La bancarotta semplice, Napoli, 1952, pag. 254; Punzo, La
bancarotta impropria e gli altri reati previsti dalla legge fallimentare,
Padova, 1957, pag. 196.
10
danno dei soci o dei creditori), 2626 (indebita restituzione dei
conferimenti), 2627 (illegale ripartizione degli utili e delle riserve),
2628 (illecite operazioni sulle azioni o quote sociali), 2629 (operazioni
in pregiudizio ai creditori), 2632 (formazione fittizia del capitale),
2633 (indebita ripartizione dei beni sociali da parte dei liquidatori) e
2634 (infedeltà patrimoniale) del codice civile, abbiano anche solo in
parte contribuito a causare il fallimento, il soggetto attivo del reato è
punito con le più gravi sanzioni previste dall’art. 216 l.f.
La relazione al decreto legislativo spiega la selezione delle condotte
rilevanti: “La richiesta del delegante di stabilire un collegamento causale
tra i reati societari richiamati nella fattispecie di bancarotta fraudolenta
impropria e il disseto della società, ha obbligato a riconsiderare la congruità
della precedente soluzione operata dal legislatore del ’42.
Sono stati previsti come ipotesi base i reati societari dolosi che, seppur con
diversa oggettività giuridica, siano armonicamente riconducibili nella
tipicità della bancarotta fraudolenta, in ragione di una parziale omogeneità
di offesa.
E’ sembrato, cioè, indispensabile considerare, nella più grave prospettiva
fallimentare, gli illeciti penali nei quali la strumentalizzazione dei
meccanismi societari sia rivolta contro le ragioni creditorie, per converso
escludendo quei reati - già previsti nel codice civile del ’42 - che, non
11
presentando alcuna affinità offensiva con l’art. 223, non meritano
considerazione al fine di una tanto più severa previsione punitiva”.
La modifica della fattispecie in esame si inserisce inoltre nel più vasto
contesto della riforma dei reati societari, delle procedure concorsuali
e dei connessi reati e porta a compimento il dibattito dottrinale e
giurisprudenziale sul ruolo della dichiarazione di fallimento
nell’ipotesi oggetto di esame.
Prima della riforma infatti la posizione del fallimento all’interno del
reato sollevava notevoli dubbi. Una parte di dottrina3 considerava
l’avvio di una procedura concorsuale come un elemento che si univa
ai fatti previsti nella legislazione societaria costituendo una nuova
fattispecie definita come una sorta di reato societario concorsuale, di
cui tale procedura costituiva un elemento essenziale o
particolarmente significativo, tanto da comportare un rilevante
aumento di pena rispetto ai reati societari richiamati. Si negava
comunque la necessità di un nesso di causalità tra false
comunicazioni sociali e fallimento. Un'altra posizione, sebbene
largamente minoritaria, sosteneva invece che il fallimento della
società era una circostanza aggravante (con la conseguente
3
Cfr. Pagliaro, Problemi attuali di diritto penale fallimentare, in Riv. trim.
di dir. Pen. Ec., 1988, pag. 519; Schiavano, Relazione tra fallimento e fatti
di bancarotta realizzati a mezzo di reati societari,, in Riv. trim. di dir. Pen.
Ec., 1989 pag. 1164.
12
applicazione dell’art. 69 c.p.) oppure una condizione di maggior
punibilità.
Dalla considerazione del fallimento come elemento costituivo non si
facevano peraltro discendere le conseguenze sul piano soggettivo
(sotto il profilo della previsione o volizione o anche solo
accettazione) e su quello oggettivo. Secondo una parte più attenta
della dottrina4 occorreva per l’integrazione dell’art. 223 l.f. secondo
comma n°1 in esame, che sul piano oggettivo i reati societari
lasciassero una rilevanza notevole nella vita della società al momento
dell’avvio delle procedure concorsuali e che, parallelamente, sul
piano soggettivo l’agente si rappresentasse il permanere dell’effetto
della propria condotta sino all’avvio delle procedure concorsuali, la
cui verificazione doveva anche essere rappresentata e accettata.
Come si vedrà meglio in seguito, il dibattito portò anche a pronunce
della Suprema Corte in relazione alla violazione dell’art. 3 della
Costituzione in relazione al principio di proporzionalità e
ragionevolezza.
Con la riformulazione dell’articolo in esame è scomparso ogni
dubbio sull’elemento psicologico del rapporto tra fallimento e reato
societario. E’ stato osservato5, infatti, come il legislatore nell’inserire
4
Cfr. Palazzo Paliero, Commentario breve alle leggi penali
complementari, Padova, 2003, pag. 1009.
5
Cfr. Lanzi, la nuova bancarotta societaria, in Il fisco, 46, 2002, pag. 7393.
13
il nesso di causalità tra i reati societari ed il fallimento abbia
utilizzato, fra le varie formule e locuzioni cui si poteva fare ricorso,
quella che, tradizionalmente, individua i reati con evento di danno
(….cagionare...il dissesto della società); formula normativa identica a
quella dell’omicidio volontario ex art. 575 c.p., proprio il più
tradizionale dei reati con evento di danno.
Il suddetto rapporto causale poteva anche essere espresso
semplicemente tramite lo schema legale del cosiddetto delitto
aggravato dall’evento o a quello di reato soggetto a condizione di
maggiore punibilità. Nell’ambito di queste figure, infatti, il
coefficiente psicologico tra gli elementi di riferimento è minimo,
essendo sufficiente la sola prevedibilità del dissesto societario come
conseguenza, anche non voluta, del reato indicato. Appare chiaro
come il legislatore abbia voluto un forte legame tra fallimento e reato
societario, specificando quindi che il dissesto debba essere
raffigurato dall’agente come causa della condotta anche solo in
termini di probabilità. Interessante sarà quindi l’analisi dell’elemento
psicologico del reato e del rapporto tra questo e il fallimento della
società.
Occorrerà inoltre considerare e riflettere sulla scelta operata dal
legislatore nel formulare il successivo numero 2 dello stesso articolo.
Dopo la peculiare ed esplicita elencazione di fattispecie del numero 1
14
segue infatti, al numero 2, una formula alquanto impervia e
controversa: “…hanno cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose
il fallimento della società…”. In particolare ci si è chiesto quali e quante
possano essere le “operazioni dolose” che potrebbero portare al
fallimento della società. Alcuni6 infatti attribuiscono a questa
espressione il comune significato di: “qualsiasi comportamento
implicante una disposizione patrimoniale, realizzato con abuso di poteri o
con violazione di doveri da soggetti preposti all’amministrazione della
società, allo scopo di conseguire un ingiusto profitto con danno della società,
dei soci e dei creditori”. Altri autori7 invece considerano questa
espressione come: “il tentativo di individuare dei comportamenti,
costitutivi o meno di autonome fattispecie delittuose, accompagnati da una
partecipazione soggettiva qualificata da dolo specifico di profitto e di
danno”. Non è mancata neppure la considerazione che l’espressione
contenesse un’ipotesi di responsabilità oggettiva in riferimento ai
cosiddetti “rischi calcolati” frequenti nella vita societaria8. Sembra
piuttosto certo affermare che l’espressione possa fungere da norma
di chiusura concludendo e completando tutte le varie forme
6
Cfr. Nuvolone, Il diritto penale del fallimento, cit., pag. 378.
7
Cfr. Lanzi, La tutela penale, Padova, 1979, pag. 242.
8
Cfr. Nuvolone in Il diritto penale del fallimento, cit., a pag. 380 e 400
parla di responsabilità oggettiva “o meglio di una forma che potrebbe dirsi
di responsabilità colposa equiparata alla responsabilità dolosa”.
15
repressive della bancarotta fraudolenta societaria descritta nell’art.
223 l.f., rappresentando e privilegiando la fenomenologia causale.
Accanto a queste riflessioni che prendono spunto dalle stessi
espressioni usate dal legislatore, non può non trovare spazio
un’analisi più ampia, che analizzi il problema dell’inserimento della
nuova disciplina in quella precedente. Appare di rilevante
importanza a tale proposito l’analisi della disciplina della
successione delle leggi penali nel tempo. In particolare occorrerà
verificare se in questo caso si sia verificato una modificazione tale per
cui una determinata fattispecie non costituisce più reato oppure si
abbia una modifica della fattispecie che continua ad essere reato ma
in qualche modo diverso. Nel caso si verifichi l’ipotesi in cui la
fattispecie cessi di essere presente, si avrebbe una liceizzazione di un
determinato comportamento precedentemente considerato lesivo,
che porterà alla caducazione totale degli effetti, anche pregressi, della
norma incriminatrice. Nel caso invece di modifica si avrebbe come
risultato quello di applicare la norma più favorevole al reo.
Analizzando la questione in relazione all’articolo in esame ed alla
riforma operata dal d.lgs. occorrerà verificare quale delle due ipotesi
si sia verificata. A tale proposito risulteranno essenziali le analisi
delle numerose pronunce della Suprema Corte sul caso, che
finiranno per chiarire la delicata questione in merito.
16
L’analisi dell’articolo in esame pone quindi ampi spunti di riflessione
sulle modalità e le esigenze di un’ampia riforma delle procedure
concorsuali, del fallimento e del più vasto diritto penale
commerciale.
17
CAPITOLO SECONDO
I Soggetti
1.) INTRODUZIONE
L’estensione della sanzione per le fattispecie dell’articolo 216 l.f. ai
titolari delle cariche sociali delle società dichiarate fallite, presenta la
peculiarità che in tale caso la titolarità dei beni oggetto materiale di
illecita manipolazione è in capo alla società dichiarata fallita e non
all’autore dell’illecito. In base quindi all’art. 27 della Costituzione,
che sottolinea come la responsabilità penale sia personale, il
legislatore ha dovuto necessariamente compiere un elenco di
soggetti, che, nelle società, possono in concreto commettere fatti di
bancarotta9. L’elenco così formato è posto quindi sulla base delle
cariche sociali presenti e del potere concretamente esercitato da
9
Con sentenza del 21/4/1975, in Mass. Dec. Pen., 1975, pag. 407, la Corte
di Cassazione ha dichiarato manifestamente infondata la questione di
legittimità dell’art. 223 in riferimento all’art. 27 Cost.
18
questi ultimi nell’ambito dell’amministrazione societaria, unitamente
ad un potere-dovere di controllo che li porrebbe nella condizione
giuridica di impedire determinati fatti lesivi alla società10. Al primo
comma dell’art. 223 l.f. vengono infatti elencati una serie di soggetti
in grado di commettere fatti di bancarotta. Sindaci, direttori generali,
liquidatori e amministratori sono le persone che possono porre in
essere le condotte tipiche del reato.
Ad un’analisi più profonda ed in relazione anche all’interesse
tutelato da questa norma, questi soggetti possono, indubbiamente,
porre in pericolo, attraverso i loro poteri, gli interessi dei creditori in
caso di fallimento della società che le forme di bancarotta mirano a
proteggere.
Molto frequentemente viene operato infatti, soprattutto con
riguardo alle imprese di rilevanti dimensioni, uno sdoppiamento tra
titolarità dell’impresa ed esercizio dell’attività commerciale11. Questo
sdoppiamento porta a mettere a capo della società e relativa gestione,
persone diverse dall’imprenditore. In riferimento al reato di
bancarotta quindi, si è dovuto necessariamente estendere la tutela
10
Cfr. Pedrazzi, Reati commessi dal fallito, reati commessi da persone
diverse dal fallito, Bologna, 1995, pag. 256.
11
Cfr. Pedrazzi, Diritto penale, scritti di diritto penale dell’economia,
Milano,2003, pag. 655.
19
penale anche a questi soggetti che hanno, di fatto, un potere
gestionale e di responsabilità, estremamente elevato12.
Il legislatore ha quindi inserito, accanto alla forma, per così dire
“tipica” di bancarotta, una forma diversa, che pur mantenendo
invariato l’oggetto giuridico e l’interesse tutelato, sposta la punibilità
su soggetti diversi dall’imprenditore. Questa forma di bancarotta
viene definita per tali motivi “impropria” o forse più congruamente,
“societaria”. Alcuni autori13 hanno infatti osservato che l’aggettivo
“improprio” mal si concilierebbe con un forma di bancarotta che è
divenuta, negli ultimi anni, assai più diffusa di quella cosiddetta
“propria”. La denominazione di “societaria” descriverebbe meglio
questa figura, collocandola direttamente nell’area di impresa, dove,
di fatto, opera.
In merito proprio all’interesse tutelato dalle norme fallimentari
occorre sottolineare che esso è sostanzialmente composto dalla
garanzia verso i creditori che la società offre. In relazione a questo
profilo garantistico, fulcro delle norme fallimentari, si pone in
concreto l’operato dei soggetti elencati nella figura della bancarotta
impropria. Amministratori, direttori generali, sindaci, liquidatori,
12
Cfr. Palazzo Paliero, Commentario breve alle leggi penali
complementari, Padova, 2003, pag. 236.
13
Cfr. Giuliani Balestrino, la bancarotta e gli altri reati concorsuali,
Milano, 1983, pag. 250.
20
sono concretamente in grado,come accennato precedentemente,
attraverso le cariche che rivestono all’interno della società e il
relativo potere, di minare questa garanzia e di porre in essere atti che
potrebbero mettere in pericolo le garanzie dei creditori verso la
società stessa. Da questi presupposti e per queste ragioni, si ha la
relativa inclusione di queste figure nelle fattispecie di bancarotta.
2.) L’AMMINISTRATORE
2.1.) LE MODIFICHE DEL D.LGS. N. 61/2003, IL SISTEMA MONISTICO, DUALISTICO E
TRADIZIONALE DI GOVERNANCE
Il d.lgs. n.6 del 2003 ha portato una profonda modifica ai modelli
tradizionali di amministrazione e controllo delle società di capitali. In
particolare, oltre al modello tradizionale di amministrazione e
controllo che si applica in mancanza di diversa scelta statutaria, è ora
possibile scegliere due ulteriori modelli di governance, si tratta del
sistema monistico e di quello dualistico14.
14
Cfr. relazione al D.lgs. 17/01/2003 n. 3.