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2- PROFILO E CONTESTO DEL
PERSONAGGIO
L’Italia che si affaccia negli anni ’60, è una nazione in tumulto, che sta vivendo profonde mutazioni
sul piano politico, economico e socioculturale. Come un animale sanguinante, si sta leccando
ancora le ferite lasciate dalla seconda guerra mondiale, da cui non solo è uscita sconfitta, ma
profondamente impoverita. Ora se il decennio degli anni ’50 è trascorso, nel disperato sforzo di
“ritirarsi su” economicamente, di dimenticare il regime, l’occupazione e i drammi causati dalla
guerra, gli anni ’60, in questo senso sembrano essere quelli della svolta, quelli che faranno tornare
al sorriso un’intera nazione. Gli imponenti aiuti economici dei “liberatori” Stati Uniti, attraverso il
“Piano Marshall” e la riapertura del mercato con l’ estero stanno producendo i loro effetti. Nel
gennaio 1960 la “nostra” Lira è premiata come una delle valute più forti al mondo, mentre le
Olimpiadi di agosto dello stesso anno a Roma, la cui importanza politica è pari a quella sportiva,
segnano il ritorno ufficiale dell’Italia nel mondo industrializzato. Dal canto loro i cittadini, si
adoperano, come tante volenterose formiche operaie, per rilanciare il proprio paese, mutando una
società prevalentemente agricola, cambiata nelle idee dal crollo del fascismo, ma ancora a terra per
il disastro bellico, dando vita ad un innovativo processo di sviluppo industriale e sociale,
successivamente denominato “boom economico”. La situazione politica rispecchia in pieno il clima
d’incertezza che si respira nella nazione, il paese è in mano alla Democrazia Cristiana di Alcide De
Gasperi, ma il partito centrista è scosso da diversi dissidi interni, c’è una corrente che spinge la DC
verso sinistra, prima verso i socialdemocratici di Saragat, poi addirittura verso un inusuale sodalizio
con Pietro Nenni e i socialisti. In contrapposizione si comincia a sentire il soffio di un “vento
missino” , che viene da destra e che fa leva su esercito, servizi segreti e nuovi gruppi paramilitari
che si rifanno nelle idee all’”ancien regime”. L’incertezza critica del governo De Gasperi induce
l’allora Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, a chiamare Fernando Tambroni, che per
essere eletto Presidente del Consiglio ha bisogno dell’appoggio del Movimento Sociale Italiano, cui
poi non può negare il VI congresso a Genova, capitale dell’antifascismo. Genova risponde
scendendo in piazza, e dando il via ad una serie di dimostrazioni in tutta Italia, contro le nuove
istituzioni, ma soprattutto contro i metodi repressivi e violenti delle forze dell’ordine, un
movimento che sfocerà poi nel famoso “sessantotto”. Anni ’60 quindi, anni sì, della ripresa
economica, ma anche delle grandi proteste di piazza, dei fervori intellettuali e artistici, tutti mossi
dalle contraddizioni popolari, nascoste sotto la bella faccia del benessere. Mentre le grandi città
crescono a vista d’occhio, le piccole realtà provinciali cadono sempre più nel baratro
dell’arretratezza, rispetto all’industria che avanza vertiginosamente, cose importanti come
l’abitazione propria, la possibilità di andare a scuola, i servizi sanitari, i trasporti pubblici, non sono
ancora per tutti gli italiani.
Da sempre quella cinematografica, è stata tra le arti quella più influenzata dalla culla socioculturale
in cui si è trovata di volta in volta a vivere. Ma è ugualmente vero anche il contrario, essendo il
cinema, come la stampa, la Radio e la Tv, che negli anni ’60 comincia a diffondersi in molte case
italiane, un mezzo medianico di forte influenza popolare. Il cinema degli anni ’60 quindi è specchio
di una società in fermento in tutto il mondo, con una ricerca, in tutte le cinematografie di nuove
tendenze e di giovani autori. In Italia, sembrano finiti anche gli ultimi strascichi di neorealismo,
anche perché la ripresa economica, ma anche i nuovi problemi politici, hanno creato
un’insofferenza popolare nei confronti di tematiche care al movimento post- fascista come la
povertà o il dolore. Quindi il filone neorealista si sta esaurendo, anche perché non ci sono più i
presupposti ambientali perché esso continui, la società come detto sta cambiando profondamente,
problemi ed esigenze della collettività non sono più gli stessi. Anche quei registi che del
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movimento erano stati tra i protagonisti , iniziano a fare film diversi dai precedenti: il Visconti di
“Ossessione”, non è lo stesso de “Il Gattopardo”, oppure il De Sica di “Sciuscià”, è diverso ne “La
Ciociara”, il Rossellini di “Roma città aperta”, è difficile da riconoscere ne “Il generale Della
Rovere”. Tuttavia essendo stato il neorealismo l’unico punto di riferimento e il movimento di
maggior successo internazionale, della storia della cinematografia italiana, continuò ad influenzare
non poco i film degli anni sessanta insieme ai loro giovani autori, che magari facevano proprio in
questo periodo il loro esordio. Perché gli anni ’60 della storia del cinema italiano sono famosi anche
per le dozzine di esordi di giovani registi, favoriti dall’industria in espansione, da un mercato
interno che sembrava aver leggermente abbandonato il “mito americano”, ad appannaggio del film
italiano. Film che sapevano catturare l’interesse del pubblico anche grazie alla riscoperta di generi
popolari, come le commedie sugli anni del fascismo o sulla guerra, i nuovi filoni Horror ed epico-
mitologico e quello che dagli Americani fu definito “spaghetti western”. Questa influenza
neorealistica sui giovani registi del tempo era essenzialmente data da due fattori primari, le correnti
politiche in primis, soprattutto per gli esordienti che stavano tra le schiere della sinistra impegnata
ed intellettuale, registi come Francesco Rosi, i fratelli Taviani o Marco Bellocchio, misero la
lezione appresa dal neorealismo al servizio della critica sociale. Dall’altra parte quegli autori
formatisi negli anni ’50, quando avevano fatto le loro prime esperienze come aiuto registi di grandi
maestri del neorealismo.
Giancarlo Zagni, che esordisce nel 1962 con “La bellezza di Ippolita” appartiene senza dubbio a
questo secondo gruppo, essendo un personaggio venuto dal teatro e formatosi come regista
cinematografico grazie ad una personale esperienza su importanti set nel corso degli anni ’50.
D’origine bolognese, a cavallo tra gli anni ’40 e ’50 Zagni a causa della prematura scomparsa del
padre fu costretto ad abbandonare gli studi di medicina e, ad iniziare a guadagnarsi da vivere con i
più disparati mestieri. Questa precarietà e mobilità di lavoro lo portano ad entrare in contatto con il
teatro “La Soffitta” di Bologna, dove presto ne diviene il direttore, sono i primi passi di un’intensa
carriera dietro le quinte; in questo senso entra a contatto con Luchino Visconti, sempre impegnato
sotto le doppie spoglie di cineasta e regista di teatro. All’epoca il regista stava girando “Bellissima”
e Zagni aveva la fortuna e l’opportunità di gironzolare per il set come suo assistente e collaboratore,
entrando in contatto con un ambiente per lui nuovo, ma soprattutto conoscendo importanti autori ed
interpreti, che giravano in quel periodo parimenti a Visconti, intrattenendo stretti rapporti tra loro.
Paolo Stoppa e Vittorio De Sica, Lucia Bosé e Michelangelo Antonioni, sono tra i personaggi più
importanti incontrati in quel periodo, che si può definire“formativo”, per Zagni. Vedremo poi come
fu soprattutto Michelangelo Antonioni e l’esperienza di Zagni sul set de “Il Grido”, ad influenzarne
il suo esordio cinematografico da regista. Ma in questo periodo sarà ancora il teatro ad attirare
l’attenzione del giovane regista bolognese, che insieme ad Alida Valli, una delle conoscenze più
importanti del periodo “viscontiano”, mette su una compagnia teatrale itinerante, con la quale in
cento giorni riesce ad esibirsi in ben sessantadue città italiane. Poi nel 1958 ci fu la prima svolta
nella carriera di Zagni, cinematograficamente ancora in fase formativa, la “scoperta dell’America”.
Succede che nel’58 Alida Valli viene chiamata negli Usa per recitare nell’ “Enrico IV”, tratto da
Pirandello, Zagni segue l’attrice in quel di New York. Lì l’aver riscosso tanto successo con la sua
compagnia teatrale itinerante e, l’aver lavorato con Luchino Visconti, danno a Zagni il lasciapassare
per entrare nel “tempio della recitazione”: l’Actor’s Studio. Dove Zagni comprende cosa voglia dire
fare spettacolo, o meglio cosa voglia dire farlo in modo professionistico – industriale, sempre
sottomesso alle leggi del mercato, un modo di agire e vedere le cose profondamente diverso da
quello italiano. In questo, che potremmo chiamare il suo “primo periodo americano”, il regista ha
modo anche di studiare il sistema televisivo a stelle e strisce, un sistema asservito al cinematografo,
viceversa in Italia la prima TV di massa si schierava assolutamente contro il cinema e la sua cultura
di sinistra. Proprio con la prospettiva di lavorare in televisione Zagni fa il suo ritorno in Italia, dove
mise in onda uno spettacolo di prosa in un unico atto chiamato “Tre giorni a Roma”, poi
successivamente trasse da Testoni “I Pisunent”. Questa sua nuova passione per la televisione e la
sua “grammatica”, fecero si ché al momento di progettare il suo primo film, pur pensandolo per il
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cinema, voleva girarlo con tecniche televisive, con l’azione che si sarebbe svolta in un unico luogo.
Tuttavia in Italia l’affiatamento tra telecamere e macchine da presa non era ancora affinato come
negli Stati Uniti, così fu costretto ad abbandonare il progetto, girando tutto con la mdp. E’ stato
accennato de “Il Grido” , di come lo stile di Antonioni colpì positivamente Zagni, che non aveva
mai visto dei movimenti di macchina così perfetti come quelli del regista di “Zabriskie point”,
proveniente dal mondo della fotografia e quindi attentissimo al punto di vista della cinepresa nel
narrare la storia. Ma il set di Antonioni fu importante anche perché lo sceneggiatore de “Il Grido”,
Elio Bartolini era anche l’autore del libro da cui Zagni trasse il suo esordio nel 1962 “La bellezza
d’Ippolita”, uno dei primi film della nuova commedia all’italiana, accolto in maniera controversa
dalla critica dell’epoca, ma tra i venti film che fecero maggiori incassi in quell’anno. Tra i
denigratori i “Cahiers du Cinéma”, che videro lo stile del film come una mistura tra il cinema di
Antonioni, quello di Germi e di Visconti, imputando a Zagni una mancanza di personalità
registica(1). L’ambientazione in bassa padania era infatti quella di Antonioni, mentre la problematica
centrale era quella tipica dell’Italia cattolica del tempo, che Germi aveva spesso trattato nei suoi
film, lo stile, molto teatrale, derivava invece da Visconti. Su questo punto lo stesso Pierpaolo
Pasolini disse, dopo aver visto “La bellezza d’Ippolita”che al film mancava solo il sipario per
essere una piece teatrale(2), a testimoniare la tendenza e l’amore che ancora legava Giancarlo Zagni
al mondo del palcoscenico, questione fondamentale per capire tutta la sua produzione.
Tuttavia, giudizi critici a parte, visto il successo economico la produzione propose a Zagni un altro
film, un film però dai costi e dalla trama di “serie b”, un’imitazione de “I Soliti ignoti”, lui
naturalmente rifiutò. Ma fece al produttore una controproposta, quella di fare un film tratto da
“Liolà” da Pirandello, subito la casa ne acquisì i diritti e iniziò la lavorazione. Ma qui inizia a
delinearsi uno degli aspetti importanti del carattere artistico di Zagni: quello di non voler mai
scendere a compromessi. In questa occasione infatti gli imposero Sergio Amidei, fresco di Oscar, e
attori come Ugo Tognazzi, quando lui avrebbe voluto Walter Chiari, poi andando avanti con la
progettazione del film, subì altre pressioni produttive su diverse decisioni fino alla rottura definitiva
dopo i sopraluoghi. La Rizzoli, che avrebbe dovuto distribuire il film, senza un regista si trovò
spiazzata, fu allora che venne scritturato Alessandro Blasetti. Il regista, dimostrando grande
sensibilità ed onestà, volle però prima rassicurarsi sulla soddisfazione economica data dal
produttore a Zagni, che allora fu subito pagato secondo contratto.
Quella era un’Italia che si stava interrogando sulla valenza moderna del concetto, molto cattolico,
per alcuni obsoleto, di famiglia; una famiglia che si stava evolvendo di pari passo con
l’industrializzazione del paese, abbandonando sempre più il modello “clan” di verghiana memoria,
questo cambiamento sfocerà poi nel dicembre 1970 nella Legge che legalizzerà il divorzio tra
coniugi. Non a caso è stato ricordato Verga e la civiltà siciliana, infatti Giancarlo Zagni, come
sempre al passo coi tempi, decide di scrivere una sceneggiatura con l’amico Luigi Magni, dal titolo
“La Baronessa”, che riprendeva proprio le antiche leggi sul matrimonio, che si scontravano con la
modernità, ma non in una civiltà chiusa come la Sicilia degli anni ’60. Per realizzare poi il film fu
scritturato Buster Keaton, che trattandosi di un film grottesco non esitò ad accettare. Tuttavia a quei
tempi nel cinema italiano vigeva la legge della censura preventiva, allora fu letto il copione de “La
Baronessa” e furono tagliate alcune battute, più che altro perché non potevano esser messe in bocca
agli attori principali, al massimo, si disse, poteva dirle qualche comparsa. Ma questa della censura
fu solo una delle tante vicissitudini che colpirono la realizzazione del film, che alla fine saltò. Qui
arriviamo al secondo punto che segnò tutta la carriera e la produzione di Giancarlo Zagni, un
personaggio che pur con tutti i suoi limiti e difetti è stato comunque molto invidiato e di
conseguenza spesso boicottato. Un personaggio venuto quasi dal nulla, che da operaio del set si era
“permesso” di ambire ad essere regista, senza però avere i cosiddetti “santi in paradiso”, ma anzi
risultando scomodo a molti personaggi di peso della storia del cinema italiano. Uno tra tutti proprio
il suo vecchio maestro Luchino Visconti, che in quegli anni inizia la sua personale guerra contro
Zagni, agendo come un vecchio padre che maledice il figlio troppo ambizioso ed insolente. Proprio
con il crollo del progetto de “La Baronessa”, quando purtroppo neanche il Magni dell’epoca era il
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Magni di oggi, vengono fuori i contorni di una carriera, quella di Zagni, che non sboccerà mai.
Come un uccello a cui al momento di spiccare il volo vengono tagliate le ali, Giancarlo Zagni da
questo periodo in poi avrà una carriera senza clamori, vissuta sempre ai margini del mondo
cinematografico, fino al suo “inopinato”, per dirla alla Lino Micciché (3), abbandono della regia
cinematografica. Ma sarà comunque una carriera costellata di piccole rivincite, senza rimpianti, per
un uomo forgiatosi sul campo, a cui niente e nessuno hanno mai fatto abbassar la testa, che nella sua
lunga ed avventurosa carriera non è mai sceso a compromessi.
NOTE
1- Battuta riportatami dallo stesso Zagni, presente ne la rivista di critica “Cahiers du Cinema” del novembre 1962
2- Frase pronunciata da Pier Paolo Pasolini mentre nello stesso laboratorio di montaggio Zagni stava
montando “La Bellezza d’Ippolita”, mentre Pasolini era alle prese con “Mamma Roma”.
3- Lino Micciché, Cinema Italiano: gli anni ’60 e oltre, Venezia, Marsilio editore, maggio 2002, pag. 126.
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3- I MESTIERI DEL CINEMA
LA FORMAZIONE
Il cinema è un’arte composita ed il suo prodotto, il film, è un mosaico configurato da multiformi
tessere che sono, a loro volta, il risultato dei diversi mestieri di chi vi prende parte.
Il primo mestiere consiste nello scrivere, su carta, tutto ciò che si vedrà poi sullo schermo. Si
comincia da un fatto o un nodo drammatico che può essere inventato, oppure preso dalla cronaca o
da un racconto letterario, è la base del soggetto. Da questo, si passa ad una serie di rielaborazioni
che tengono conto dello stile del regista, degli attori che si vogliono utilizzare, del tipo di film che si
intende produrre. Tali rielaborazioni hanno un nome specifico:
a) il trattamento consiste nello scrivere in forma narrativa la storia del film(omettendo i dialoghi).
b) La scaletta che può intendersi in due modi, o come una sorta di mappa divisa in sequenze, per
far subito capire la successione degli eventi in un sol colpo d’occhio. Oppure concepire lo
scritto come una sorta di puzzle, dove ogni tassello corrisponde ad una scena, da incastrarsi
all’altra secondo un ordine cronologico o per associazioni di idee.
c) La sceneggiatura è la trasformazione descritta per scene e dialogata del soggetto, le scene che
avvengono nello stesso luogo e tempo formano le sequenze del film.
Il secondo mestiere, è quello del girare il film, cioè la progressione meccanica del trasformare ciò
che era stato scritto in immagini. In ordine cronologico sono necessarie una serie di scelte: la
posizione della mdp(macchina da presa), la grandezza dell’obbiettivo, le dimensioni
dell’inquadratura, l’eventuale movimento della mdp. Queste scelte sono fondamentali perché
permettono di individuare il narratore della storia filmica, sia esso il regista, un personaggio, un
oggetto oppure un’astrazione. E’ sempre consigliabile avere presente chi o che cosa si vuole fare
apparire come narratore agli occhi degli spettatori, anche se questo elemento è già stato stabilito
nella stesura della sceneggiatura. E’ il regista che “montando le varie riprese” deve realizzare
visivamente ed emotivamente le intenzioni dell’autore della storia. Poi si procede nella costruzione
delle scene da riprendere, sempre seguendo la falsariga della sceneggiatura e sarà sempre il regista
a stabilire i movimenti degli attori, secondo le emozioni dei personaggi e in sincronia con i
movimenti della mdp. In questa fase è fondamentale l’illuminazione della scena da parte del
direttore della fotografia, che, in funzione di quanto il regista ha predisposto, illumina l’ambiente e
predispone gli effetti necessari agli specifici movimenti e posizioni degli attori e/o della mdp.
Il terzo mestiere è quello dell’assemblaggio. Con la collaborazione del montatore si mettono
insieme le sequenze narrative (formate dalle immagini delle singole riprese alternate seguendo un
determinato ritmo visivo). Successivamente, in laboratorio di sviluppo e stampa, si opera sul
negativo con la collaborazione del direttore della fotografia: ad esempio, equilibrando l’intensità
luminosa tra le varie inquadrature montate, per ottenere nella stampa una precisa continuità visiva
della narrazione. Nasce così la copia standard o master da cui saranno stampate tutte le altre, per la
distribuzione del film al pubblico. Contemporaneamente nell’apposita sala per la sonorizzazione si
approntano separatamente le colonne sonore: i dialoghi, i rumori, le musiche. Le tre tracce, abbinate
al montato visivo, formeranno, con il mixage, la definitiva colonna sonora del film. Intanto a parte,
nel laboratorio fotografico, sono realizzati(con la speciale macchina detta truka) gli effetti speciali e
la sovrimposizione (fotografica o elettronica) dei titoli di testa e di coda (cast&credits), per
congiungerli al montato negativo(si devono riportare per il taglio le varie sequenze dalla “copia di
lavorazione”). A questo punto è necessario fare una breve digressione e presentare il produttore.
Questi è infatti, con il regista, l’altra figura altrettanto importante nella creazione del film, che ne
costruisce l’architettura economica, coordinandone con vari collaboratori, gli aspetti tecnico-
artistici e organizzativi. L’elemento che dialetticamente si contrappone al regista perché ha una
visione prevalentemente economicistica e deve quindi ragionare sempre confrontandosi con i
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principi economici, così come il regista si confronta con il gusto estetico- artistico e lo stile
cinematografico. Ma, del produttore, parleremo in seguito.
Un film è come la struttura di un aereo che può navigare nell’aria per una serie di fattori umani e
tecnici la cui attività deve coincidere pur avendo tempi e funzioni diverse e i cui momenti critici
sono il massimo sforzo necessario nel decollo e la grande abilità umana nell’atterraggio. Fare un
film è quindi un volo di cui si conosce tutto prima, fuorché le varianti degli imprevisti accadimenti
durante il tragitto. L’alta professionalità di ogni collaboratore, sempre scelto dai registi e dai
produttori, garantisce il risultato tecnico dell’opera filmica, anche se il risultato artistico finale a
volte è mediocre.
Il “volo” a cui Giancarlo Zagni, in vari ruoli, ha partecipato “dal decollo all’atterraggio” è stata
l’opera maestra di Luchino Visconti, il film “Senso”. Grazie a quella pellicola ed al suo regista, egli
riuscì a costruire dentro di se le basi per imparare nel tempo tutto quello che si deve sapere sui molti
mestieri del cinema: dal lavoro sulla macchina per scrivere a quello dietro la macchina da presa,
oltre alle attività di preparazione prima dell’inizio delle riprese: scelta del cast artistico e tecnico,
dei luoghi dove girare, dei costumi, del trucco, delle musiche, ecc. Ma anche quelli specifici del
girare sul set: scelta delle inquadrature e delle luci, degli obiettivi e dei movimenti di macchina,
nonché quelli degli attori, poi la postproduzione, cioè fuori dal set, dopo aver scelto le scene meglio
riuscite, il lavoro in sala di montaggio e nel laboratorio di sviluppo e stampa.
““Senso”- racconta Zagni - prodotto dalla Lux Film, era girato con il sistema
technicolor originale che allora comportava una Mitchell (macchina da presa 35 mm.
con il blimp e il parallasse) sulla quale era montato uno speciale chassis in cui giravano
tre rulli negativi (Negativo Kodak Tripack), ciascuno dei quali impressionava la stessa
scena, ma con una sola dominante di colore - rosso, verde, giallo - poi nei laboratori
Technicolor di Londra, le tre dominanti venivano a comporsi in un unico negativo dal
quale si sarebbero stampate le copie definitive del film.
Anche per questo motivo le riprese di “Senso” sono durate 28 settimane- normalmente
un film si gira in 6 / 10 settimane - di esse, quasi la metà, in esterni ed interni dal vero, in
diverse locazioni (Verona e provincia, in provincia di Vicenza, a Venezia e a Roma), il
resto in vari studi dove erano stati opportunamente ricostruiti o adattati sia gli interni
che gli esterni, raccordati con gli ambienti dove si era già girato, dal vero”.
Daniele Goretti -Ma il tuo primo set non fu “Senso”?
Giancarlo Zagni – “No il primo set che ho visitato, non da assistente vero e proprio ma
da osservatore, fu come detto quello di “Stazione Termini” di De Sica, anzi prima vidi
girare “Don Camillo” di Duvivier. Il primo “Don Camillo” che si stava girando a
Brescello ed io mi trovavo lì insieme al corrispondente per l’Emilia della “Settimana
Incom”, quando poi tornai a Roma mentre facevo teatro con Visconti cominciai a
mettere il naso in set romani”. Andai a vedere De Sica grazie a Paolo Stoppa, che
contemporaneamente era il prim’attore della “Morelli-Stoppa” (compagnia teatrale
diretta da Visconti e dove io lavoravo) e nel cast di “Stazione Termini”, dove si girava
solo nelle ore notturne, poiché all’epoca la Stazione di Roma chiudeva a mezzanotte, da
quell’ora sino alla mattina era tutta a disposizione di De Sica e la sua troupe.
DG- “Passando però dal teatro di Visconti al set di un film come “Senso” che comunque al teatro
deve molto, il salto è abbastanza breve. Anche perché egli era un regista, che come te, è stato
sempre legato al mondo del palcoscenico, primo amore sin dall’infanzia quando i genitori lo
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portavano a vedere l’Opera alla Scala di Milano. Anzi lui stesso una volta dichiarò che il piacere
dato dall’assistere ad uno spettacolo teatrale, il cinema non riusciva a supplirlo, tant’è vero che non
amava rivedere film già visti, mentre “Il Trovatore” ad esempio, lo aveva visto tante volte”.
GZ- “Si ma c’è da dire che io collaboravo con Visconti anche ai tempi di “Bellissima”,
su quel set mi recavo per portargli delle cose di teatro, ero il suo assistente in
palcoscenico, che andava a trovarlo sul set. Lì avevo modo di vedere le riprese e cercare
di capire ciò che succedeva… il rapporto con la Magnani, le discussioni con il direttore
della fotografia… (nel film Visconti ne cambiò tre perché i loro risultati fotografici non
rispondevano alle sue esigenze)”.
DG- “Certamente una delle caratteristiche del regista de “Il Gattopardo” passata alla
storia del cinema era la sua meticolosità sul set, la ricerca della perfezione su ogni
minimo dettaglio fosse in campo. Tutti queste piccole ma importanti peculiarità del suo
carattere fanno di Visconti un cineasta unico”.
GZ- “Esatto, Visconti era un regista, ma anche un imprenditore dei suoi film (“La Terra
trema” fu finanziato con i soldi della vendita delle sue azioni della GVM – azienda
farmaceutica paterna - che aveva dato vita negli anni quaranta al primo concorso di
bellezza fotografico “5000 lire per un sorriso”, poi cinematografico con “10.000 per un
bel viso”), i prodotti che portavano il suo marchio dovevano essere come esattamente li
voleva, si comportava come se i film li finanziasse lui, o si faceva come diceva lui o non
si faceva proprio. Non scendeva a compromessi, nonostante il suo atteggiamento fosse
molto professionale, si comportava come un “padrone”, “un duca”, aveva sempre
vissuto così, sin da ragazzo.
Ricordo un episodio che una volta mi raccontò, di quando era militare di leva. Visconti
era un buon fantino, anche se “ero troppo alto”, mi diceva, e amava i cavalli e il loro
mondo, come era d’uso a chi apparteneva ad una famiglia nobile. Per questo poteva di
diritto entrare a far parte del Savoia Cavalleria. Bene, negli anni ’30, in occasione di
una delle periodiche Grandi Manovre dove è consuetudine simulare battaglie tra due
gruppi, Visconti, abile cavallerizzo divenuto rapidamente Sergente, comandava la prima
delle staffette di perlustrazione di uno dei due schieramenti. Iniziata l’azione, nel giro di
due ore, lui riuscì con i suoi ad accerchiare lo Stato Maggiore dei blu (il gruppo nemico)
mettendolo sottoscacco. Furono verificate le posizioni e “i nemici” dovettero ammettere
che il Sergente Visconti Luchino aveva “strategicamente disposto” i suoi uomini in modo
tale che allo Stato Maggiore non restava alcuna alternativa, se non quella di arrendersi!,
insomma le Grandi Manovre erano finite prima di iniziare la battaglia! Fu uno scandalo
al Comando superiore, tra gli ufficiali si arrivò a insinuare che qualcuno aveva tradito
per far sapere in anticipo, alla pattuglia del giovane Visconti, le posizioni. Questo era
Visconti, uno che aveva la famosa marcia in più nella testa, che gli permetteva di intuire
lo svolgersi delle azioni prossime e di riuscire a mettere tutto l’impegno in ciò in cui si
cimentava. Ma quando sbagliava aveva anche la straordinaria capacità di imporre i
suoi errori, questa caparbietà è importantissima anche nella professione, per non
prestare il fianco agli invidiosi: se uno ha questa forza può sperare di vincere, altrimenti
rischia di diventare un perdente”.
DG- “Dopo “Bellissima” cosa venne?”
GZ- “Tra “Bellissima” e “Senso” Visconti girò un episodio nel film collettivo “Siamo
donne”, con Anna Magnani “Il cane da grembo”, dove lei discute con un tassista perché
non vuole permettergli di portare in macchina anche il suo cane. E’ uno “scampolo di
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film” divertente che ho visto girare e mi ha dato la possibilità di capire a fondo le
capacità recitative della Magnani. Si girava dal “vero” – come consuetudine nel
neorealismo - nel teatro delle Quattro Fontane, usato come teatro di posa, mi ricordo
che in quella occasione conobbi Citto Maselli che era assistente di Visconti. Mi fu dato
qualcosa da fare, dare il segnale ad un gruppo di comparse che fumavano davanti alla
macchina da presa, ma soprattutto sul set ebbi occasione di immagazzinare informazioni
e cominciavo a capire come si formava un film. La cosa che mi colpì, problema che
ancora oggi non è stato risolto nemmeno negli Stati Uniti, fu il tempo che si perde tra
l’ora di convocazione della troupe ed il primo effettivo ciak. Una serie di dettagli
imprevisti, che accadono nonostante il film sia frutto di un’organizzazione straordinaria,
grazie al lavoro degli assistenti che dovrebbero pianificare il lavoro e rendere pronto il
set in collaborazione con la Produzione, ma alla fine ci sono sempre degli intoppi.
DG- “Si può perdere quindi tanto tempo durante le riprese di un film e, nel cinema si sa
che il tempo è denaro nel vero senso della parola”.
GZ- “Infatti è importante sottolineare che la troupe ha un costo orario, che scatta sin
dalla sua convocazione nel primo mattino. Gli attori invece sono pagati a Film (nel caso
siano protagonisti) o a Pose, il cui prezzo varia a seconda della quotazione del momento
di questo o quell’attore. Prendiamo ad esempio Vittorio De Sica, negli anni ’50 già
attore famoso, per fare un protagonista sarebbe costato troppo, allora i produttori gli
proponevano ruoli che per la durata di realizzazione erano ritenuti “secondari” e che
potevano essere pagati a posa. Per girare le poche scene l’attore veniva impegnato per
pochi giorni.
E anche se appariva una volta soltanto in tutto il film, era comunque legittimo utilizzare
il suo nome dal punto di vista pubblicitario. Fu così che De Sica cominciò ad accettare
più di un film contemporaneamente per circa 5 milioni di vecchie lire a posa, che era
moltissimo, ma dato che le pose erano poche, poteva passare da un film all’altro, anche
nello stesso giorno! Lui lavorava otto ore al giorno, da quando si presentava per il
trucco e a prescindere se iniziava o meno a girare la “posa” del giorno gli doveva essere
pagata.
Diciamo che lui arrivava sul set intorno alle 7:00 di mattina, l’inizio delle riprese era
fissato per le 9:00, ma se si perdeva del tempo per allestire il set, per girare, allora si
iniziava tardi e le riprese si protraevano oltre l’orario, allora scattava comunque
un’altra posa! Quando poi un attore supera il numero di pose concordate al momento
della firma del contratto per il film, il suo straordinario deve essere pagato con la Pro-
rata. Una delle ragioni che ha portato il budget di “Senso” a sforare di parecchio è stato
che gli attori, non per colpa loro, hanno lavorato metà film in Pro-rata”.
DG- “Questo ha creato problemi alla Produzione immagino”.
GZ- “Certo la LUX dopo quel film è finita, ha chiuso!”
DG- “Ma il botteghino ripagò gli sforzi economici fatti per la realizzazione di “Senso”?”
GZ- “Insomma, il film non andò certo benissimo…
DG- “…. Come invece fu per “Rocco e i suoi fratelli”! In quegli anni, diversamente dai
giorni nostri, dominati da film di fantasy come “Il Signore degli Anelli”o “Harry Potter”,
il pubblico italiano preferiva il film italiano popolare, perché aveva più attinenza con la
realtà che viveva in prima persona.
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“Senso” invece che era un film storico, con una storia controversa e ormai lontana come
il Risorgimento italiano, restava un film d’elite, viceversa era tanta la gente che si
rivedeva nelle vicissitudini di “Rocco” e della sua famiglia, emigrata in cerca di lavoro
nella grande metropoli del nord. Potremmo dire che in quel periodo i gusti dello
spettatore italiano erano mutati notevolmente, rispetto ad esempio all’immediato secondo
dopoguerra, quando c’era il rifiuto “politico” della tematica Neorealista. Questo perché il
Neorealismo era soprattutto denuncia sociale, metteva lo spettatore faccia a faccia con i
problemi dell’Italia anni ’50, problemi che però gli stessi vivevano già nella loro
quotidianità e non si voleva farglieli rivedere anche al cinema, considerato strumento
d’evasione, di sogno, di desideri, rispetto alla vita reale. Negli anni della ripresa
economica invece queste preferenze mutano, sono gli anni della consacrazione di attori
come Alberto Sordi, che con i suoi personaggi incarna proprio vizi e virtù dell’italiano
medio, quello che più somiglia alla gente, quello in cui la gente si rivede e si prende in
giro, così si tocca la realtà, ma non in modo politico”.
GZ- “Nel dopoguerra io c’ero, i film “neorealisti no”! C’erano ancora gli epigoni dei
”telefoni bianchi”, non si faceva il cinema impegnato… non era permesso… nei
contenuti, intendo… “Ossessione” ha in sé i motivi tecnico-narrativi anticipatori e per
questo verrà scambiato dalla critica per un vero film “neorealista” “.
DG- “Ma torniamo a “Senso” ed alla sua tormentata preparazione”.
GZ- “Diciamo che questi inconvenienti mi fecero capire quei problemi materiali del set
che nessuno ti spiega, le mancanze, anche di piccoli, ma insieme ad altri importanti,
dettagli del fabbisogno giornaliero sul set. A quel punto o c’è un regista meno esigente,
pensando che poi lo spettatore non farà mai caso a certe incoerenze tra una scena e
l’altra, oppure sei uno come Visconti che ad ogni mancanza, rispetto alla sua idea
iniziale, bloccava tutto. Ma quando ti fermi a lungo su una scena sprechi tempo e soldi.
Ma quello che conta deve essere il risultato. Visconti aveva un occhio pazzesco per la
continuità d’azione nelle scene, questa attenzione quasi maniacale per la continuità la
trasmise anche a me, tanto che Stoppa mi diceva che avevo l’occhio deformato della
“segretaria di edizione”. Una volta, in “Senso”, dopo che s’era girato un bellissimo ed
intenso primo piano di Alida Valli, io dissi: “Guardi che la posizione della mano è
diversa rispetto all’attacco che abbiamo nella scena precedente”. Visconti allora mi
sorprese dicendomi: Quando un attore ti da’ questo tipo d’intensità, chi se ne frega della
posizione della mano”. Ecco un altro grande pregio di Luchino, il saper essere puntuale
e pignolo senza eccedere, aggiungendo qualcosa al risultato artistico della scena.
Intanto, in episodi come questo io “rubavo” importanti astuzie del mestiere di fare
cinema. Per questo è importante, accanto agli studi, all’apprendimento accademico
imparare il cinema sul set, come s’impara il mestiere “nella bottega dell’artigiano”.
DG- “Come tutti i mestieri d’altronde, sin dai tempi di Michelangelo”.
GZ- “Esatto, mi ricordo quando sul set venivano i ragazzi del Centro Sperimentale, che
pur avendo un diploma di regia, si vedeva che non sapevano dove mettersi. Per chi non
c’è mai stato, è difficile anche lo stare dentro un set, perché non è abituato ai movimenti
degli operatori, agli spazi da lasciare per gli elettricisti, ai raggi dei proiettori e via
dicendo, quindi bisogna fare attenzione a non essere di intralcio a nessuno. In sostanza
un set è un po’ come la “catena di montaggio” della fabbrica, se si crea qualche
ostruzione, si blocca tutto l’ingranaggio, per questo anche un semplice Assistente