7
Dopo la ricognizione storica, la tesi svolge un esame approfondito di
due fondamentali applicazioni pratiche del principio della tutela
dell’affidamento e della buona fede del contribuente. In particolare, si tratta di
due limiti che il principio di buona fede “impone” tanto al legislatore tributario
che all’Amministrazione finanziaria.
In questo modo, ci si occuperà della tutela dell’affidamento e della
buona fede del contribuente quale limite alla retroattività sfavorevole della
legge tributaria e quale limite al ripensamento interpretativo sfavorevole
dell’Amministrazione finanziaria. Dopo di che, si darà conto di ulteriori ipotesi
di operatività del principio di buona fede nell’ordinamento tributario, ad
esempio nel campo delle verifiche fiscali.
Infine, l’ultimo capitolo della tesi, sulla prospettiva della codificazione
della parte generale del diritto tributario di cui alla legge n. 80 del 2003, è
dedicato ad una breve analisi del principio di buona fede nel rapporto con i
principi generali del diritto comunitario, ed in particolare con la nozione
comunitaria di affidamento.
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CAPITOLO I
LA TUTELA DELL’AFFIDAMENTO E DELLA
BUONA FEDE DEL CONTRIBUENTE
1. PREMESSA.
La legge n. 212 del 2000, denominata Statuto dei diritti del
contribuente, all’articolo 10, comma 1, dispone che “i rapporti tra contribuente
ed Amministrazione finanziaria sono improntati al principio della
collaborazione e della buona fede”.
La legge delega al Governo per la riforma del sistema fiscale statale,
legge n. 80 del 2003, all’articolo 2, comma 1, lettera f, dispone che “è garantita
la tutela dell’affidamento e della buona fede nei rapporti tra contribuente e
Fisco”, quali principi generali dell’ordinamento tributario da tenere fermi
nell’opera di codificazione.
Il principio della tutela dell’affidamento e della buona fede del
contribuente ha, così finalmente, trovato una sistemazione propria nel diritto
positivo tributario.
Tuttavia, l’operatività del canone della buona fede nei rapporti tra
Amministrazione finanziaria e contribuente era già stata affermata da tempo,
sia da una parte della dottrina sia da una giurisprudenza minoritaria ma
significativa.
Si tratterà, adesso, di dare brevemente conto delle “originarie”
posizioni, sostenute sull’argomento, da parte della dottrina e della
giurisprudenza anteriori all’approvazione dello Statuto dei diritti del
contribuente.
9
A dire il vero, il tema della buona fede in diritto tributario non è mai
stato indagato a fondo dalla dottrina di settore.
La scarsa attenzione dedicata al principio in questione nel diritto
tributario dipende, probabilmente, da una serie di motivi da ricercarsi sia
all’esterno di questo particolare settore del diritto che al suo interno.
La formulazione del principio di buona fede trova la sua naturale
sistemazione nell’ambito del diritto civile. Tale principio è rinvenibile in
numerose norme, tra cui gli articoli 1175 e 1375 del codice civile, i quali si
occupano rispettivamente di correttezza e di buona fede; esso viene fatto
discendere direttamente dal fondamentale principio di solidarietà enunciato
dall’articolo 2 della Costituzione. La dottrina civilistica considera i doveri di
correttezza e di buona fede come sinonimi.
Per quanto concerne l’efficacia precettiva della clausola generale della
buona fede, come tale applicabile anche quando la norma di legge non vi faccia
espresso riferimento, in un primo tempo la giurisprudenza ha negato che essa
potesse operare al di fuori della violazione di diritti già riconosciuti da altre
norme; in seguito, invece, ne ha affermato la piena autonomia.
Il settore amministrativo è stato quello in cui il principio di buona fede
ha avuto più difficoltà ad affermarsi. La configurabilità di un tale principio è
stato tradizionalmente oggetto di forti controversie, quando non apertamente
negata dalla dottrina.
E’ stato, infatti, obiettato che il diritto amministrativo non conosce
l’incontro di volontà proprio del diritto civile e che, pertanto, non potrebbe
trovare applicazione la clausola generale della buona fede. Di contro, si
osserva, che alcune norme si rifanno ad un principio generale di correttezza
anche in assenza di un rapporto giuridico.
10
E’stato altresì rilevato, sempre a proposito del diritto amministrativo,
che il principio di buona fede è incompatibile con l’interesse pubblico. Ma
l’interesse pubblico non è altro che un principio generale concorrente con
quello della buona fede.
Solo recentemente, a conclusione delle richiamate dispute dottrinali, si
è registrato un diffuso consenso circa l’ammissibilità del principio di buona
fede anche nell’ambito del diritto amministrativo.
Il disinteresse della dottrina tributaria appare, pertanto, giustificato dal
ritardo con cui si è ammessa l’operatività del principio di buona fede nel diritto
amministrativo.
Un non secondario contributo alla rilevanza della buona fede
nell’ordinamento pubblicistico è venuto dal graduale passaggio da una
amministrazione di tipo “autoritativo” ad una essenzialmente “partecipata” ed
alla accentuazione del carattere solidaristico della funzione amministrativa.
In questo modo, stante lo stretto legame che accompagna gli studi
amministrativi e quelli tributari è evidente come alla dottrina tributaria siano
mancati fino a non molto tempo fa solidi riferimenti che consentissero una
efficace visitazione del tema.
In diritto tributario si è assistito ad un dibattito dottrinale a proposito
dell’esistenza o meno di un superiore principio di buona fede.
Vari sono stati gli argomenti addotti per escludere la vigenza di tale
principio in questo settore particolare dell’ordinamento. Il riferimento
obbligato è a taluni aspetti dogmatici peculiari del diritto tributario, per i quali
un’integrazione della disciplina positiva tramite l’utilizzo di un principio o di
una clausola generale non è cosa affatto semplice da sostenere dal punto di
vista della teoria generale del diritto.
11
Tali aspetti dogmatici saranno analizzati in seguito in maniera
approfondita.
Cosicché, nei rari casi in cui il principio di buona fede è stato affrontato
o si è laconicamente constatata la generale mancanza di regole sulla correttezza
e sulla buona fede nell’adempimento dell’obbligazione tributaria ovvero, al
contrario, si è ammessa coraggiosamente la rilevanza del principio di buona
fede senza tuttavia offrirne un inquadramento sistematico che andasse al di là
dell’ipotesi del mero revirement ministeriale in malam partem; sono in effetti
pochissimi i lavori nei quali emerge una prospettiva di indagine più ampia.
Le richiamate osservazioni sull’ammissibilità del principio di buona
fede perdono, evidentemente, rilievo a seguito dell’introduzione dell’articolo
10 dello Statuto dei diritti del contribuente, che ha dato finalmente ingresso in
ambito tributario al principio in questione nei rapporti tra Amministrazione
finanziaria e contribuente.
Il tema è, peraltro, oggi particolarmente interessante: non solo perché,
in forza dell’approvazione dello Statuto dei diritti del contribuente, il principio
di buona fede viene espressamente annoverato tra i principi generali
dell’ordinamento tributario; ma anche perché in un momento storico in cui il
diritto tributario sembra caratterizzato da una forte incertezza, a causa del peso
dell’alluvione normativa e del particolarismo della legge, il recupero della sua
coerenza potrebbe passare anche attraverso la rivalutazione dei principi e delle
clausole generali.
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2. AFFIDAMENTO E BUONA FEDE QUALI PRINCIPI DI
DIRITTO.
Per un inquadramento sistematico preliminare dell’oggetto di studio del
presente lavoro, è necessario dare conto di alcune questioni di teoria generale
in materia di principi di diritto. Per fare questo, si utilizzerà il fondamentale
studio in materia di Guastini
1
.
L’Autore muove le sue considerazioni partendo dalla distinzione,
“ricorrente sia nei discorsi dei giuristi sia nel discorso delle fonti normative”,
tra norme e principi.
Secondo Guastini, tale distinzione può venire intesa in non meno di due
modi diversi.
In primo luogo, essa può essere intesa in senso forte, come se si
trattasse di una opposizione: “i principi non sono norme, essi sono altro da
norme”. Si tratta, evidentemente, di una distinzione che ha una valenza,
essenzialmente, negativa.
Questa tesi, tuttavia, non è chiara.
Infatti, se per “norma” si intende, conformemente all’uso comune,
qualunque enunciato rivolto alla guida del comportamento, sembra ovvio allora
che anche i principi siano norme. Sicché non si comprende bene in che senso i
principi siano altra cosa dalle norme; non è chiaro insomma che cosa significhi
il vocabolo “norma” in questo tipo di contesto.
1
cfr. Guastini, Riccardo, Principi di diritto. In: “Digesto delle discipline privatistiche:
sezione civile”, vol. XIV, Torino, Utet, 1996, pp. 341-355.
13
Secondo Guastini, la distinzione tra norme e principi così intesa
“sembrerebbe” avere un significato di carattere essenzialmente ideologico e,
pertanto, impiegabile anzitutto a scopi di politica del diritto.
A conferma di tale “impressione”, l’Autore riporta alcuni esempi.
Tra essi, uno è particolarmente significativo. Dopo l’entrata in vigore
della Costituzione, parte della dottrina e della giurisprudenza adoperò in
maniera strumentale la distinzione tra le norme ed i principi contenuti nel testo
stesso, al malcelato scopo di circoscrivere l’efficacia giuridica della nuova
Costituzione: “In quel contesto dottrinale e giurisprudenziale, l’opposizione tra
norme e principi dissimulava, a ben vedere, una diversa opposizione, quella tra
norme efficaci e norme inefficaci”. In pratica, non si negava tanto la natura
normativa dei principi, quanto piuttosto la loro immediata efficacia. Di
conseguenza, i principi costituzionali, non potendo essere immediatamente
produttivi di effetti giuridici, erano inidonei ad abrogare la legislazione vigente,
specie quella fascista antecedente la Costituzione, “almeno fino a quando il
legislatore non avesse provveduto ad attuarli e concretizzarli”.
In secondo luogo, la distinzione tra norme e principi può essere intesa
in senso debole: “i principi non sono altra cosa dalle norme, ma solo una specie
particolare nel genere delle norme”.
Secondo Guastini, anche questa è una tesi problematica. Infatti, la
nozione di principio è controversa. Se anche si conviene che i principi
costituiscano, nel genere delle norme giuridiche, una specie particolare,
tuttavia, non è facile individuare con precisione i loro tratti caratteristici: non è
affatto chiaro, in altre parole, quali proprietà una norma debba avere per
meritare il nome di “principio”.
14
In ogni modo, Guastini ritiene “cosa ovvia” aderire a questa seconda
tesi, decidendo per la natura normativa (anche) dei principi:
Se per norma si intende qualunque enunciato rivolto alla guida del
comportamento, sembra ovvio che i principi siano non già altro da
norme ma tutt’al più una specie del genere norme: le “norme di
principio” per l’appunto.
Da tali considerazioni, consegue logicamente la contrapposizione tra
“norme di principio” e “norme di dettaglio”.
Il problema è adesso il seguente. Quali sono i tratti caratterizzanti delle
“norme di principio” rispetto alle “norme di dettaglio”?
La questione è controversa; tra l’altro, a causa della estrema
eterogeneità dei principi.
Per l’Autore, conviene rinunciare senz’altro a dirimere la controversia
in modo netto e definitivo, e accontentarsi di ipotizzare assai cautamente che,
almeno nella maggior parte dei casi, i principi si distinguano dalle (altre)
norme per uno o più dei caratteri seguenti.
Tali caratteri distintivi, secondo Guastini, sono riconducibili a tre
situazioni differenti. Si tratta, specificamente, della formulazione, del contenuto
normativo e della posizione nell’ordinamento dei principi rispetto alle altre
norme (di dettaglio).
La formulazione dei principi, quale tratto distintivo rispetto alle norme
di dettaglio, può avere una triplice concretizzazione:
1) Alcuni principi, a differenza di ogni altra norma, sono (proprio) privi
di qualsiasi formulazione: nel senso che alcuni principi sono abitualmente
menzionati, ma non formulati.
15
2) Molti principi, a differenza delle altre norme, non hanno una precisa
formulazione “precettiva”, in quanto affermano orientamenti o ideali di politica
legislativa. Sicché si può dire che molti principi “prescrivano” un dato
comportamento in maniera solamente indiretta: “ora proclamando un valore,
ora formulando un auspicio”.
3) In generale, i principi non hanno una formulazione “imperativa”.
Difatti, “essi spesso assumono la forma di solenni dichiarazioni: nel senso che
si atteggiano ad enunciati non già costitutivi di situazioni giuridiche nuove, ma
meramente ricognitivi di valori preesistenti e ormai acquisiti”.
Il contenuto normativo costituisce un altro elemento di distinzione tra le
norme di principio e quelle di dettaglio. Così:
1) Molti principi sono norme teleologiche: essi si distinguono dalle
norme specifiche per il fatto che non prescrivono un preciso comportamento,
ma raccomandano un fine, “per conseguire o realizzare il quale i destinatari
possono scegliere tra una pluralità di comportamenti alternativi”.
2) Molti principi non sono normali regole di condotta, bensì
metanorme. Le metanorme sono norme sull’applicazione del diritto: norme,
dunque, che si rivolgono non ai singoli consociati, “bensì agli organi
giurisdizionali ed amministrativi, e si riferiscono non direttamente alla
condotta, bensì ad altre norme”
3) Molti principi, a differenza delle norme di dettaglio, non hanno un
contenuto di tipo “condizionale”, bensì di tipo “categorico”: “Essi proclamano
un fine o un valore da perseguirsi non già in presenza di una precisa fattispecie,
ma incondizionatamente”.
16
4) In generale, i principi si distinguono dalle altre norme a causa di un
loro più elevato grado di “generalità” e di “vaghezza”. In altre parole, il loro
possibile campo di applicazione è, al tempo stesso, molto esteso (generalità) ed
altamente indeterminato (vaghezza).
Infine, l’ultimo elemento di distinzione concerne la posizione dei
principi nell’ordinamento. I principi si caratterizzano rispetto alle norme di
dettaglio in quanto svolgono il ruolo di norme “fondamentali”. I principi sono,
dunque, norme fondamentali; ed in un duplice senso: sia nel senso che essi
danno fondamento o giustificazione ad altre norme, sia nel senso che essi sono
norme che sembrano non richiedere a loro volta fondamento o giustificazione.
Ancora, secondo Guastini, i principi di diritto trovano una triplice
utilizzazione: sia nella produzione, sia nell’interpretazione, sia
nell’integrazione del diritto:
I principi trovano utilizzo, anzitutto, nella produzione del diritto.
La formulazione di un principio da parte di un’autorità normativa
adempie in genere alla funzione di circoscrivere, sotto il profilo sostanziale o
materiale, la competenza normativa di una fonte (in qualche senso)
subordinata.
I principi trovano poi utilizzo, anche, nell’interpretazione dei
documenti normativi. I principi sono impiegati in genere per giustificare una
interpretazione “adeguatrice”. Si dice “adeguatrice” quella interpretazione che,
per l’appunto, “adatta” il significato di una disposizione a quello di un
principio, previamente identificato. In generale, in sede di interpretazione,
argomentare per principi consiste “nel fare appello ad una norma, esplicita o
implicita, di cui si assume la superiorità rispetto alla disposizione da
interpretare, onde adeguare a quella il significato di questa”. E trattare una
norma come principio significa appunto assumerne la superiorità rispetto ad
un’altra.
17
Infine, i principi trovano utilizzo nell’integrazione del diritto lacunoso.
L’articolo 12, comma 2, preleggi dispone: “Se una controversia non può essere
decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che
regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si
decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”.
Le controversie che non possono essere decise da una precisa
disposizione, ossia con una norma espressa, configurano altrettante lacune del
diritto. I principi, dunque, sono qui richiamati quali strumenti di integrazione
del diritto in presenza di lacune: ad essi il giudice è autorizzato a fare ricorso
dopo avere inutilmente esperito l’argomento analogico.
Un ultimo argomento da affrontare, a proposito del tema dei principi di
diritto, è quello concernente la loro classificazione.
I confini di questa possono presentarsi in maniera veramente indefinita,
a causa della naturale eterogeneità dei possibili criteri di classificazione
adottabili. Così, i principi di diritto sono catalogabili, oltre che (come abbiamo
già visto) per la loro diversa formulazione, contenuto normativo e posizione
nell’ordinamento, anche per la diversa fonte (giuridica e non) da cui essi
promanano. Senza dimenticare che sono sempre possibili criteri di
classificazione ulteriori.
In questa sede, si propone una classificazione dei principi di diritto del
tutto parziale: nel senso che con essa si propone un inquadramento generale,
solamente, dei principi di affidamento e di buona fede.
In questo modo, affidamento e buona fede sono principi di diritto;
specificamente, principi generali o fondamentali dell’ordinamento: così si
chiamano i valori etico-politici che, per un verso, abbracciano l’intero
ordinamento e, per altro verso, danno ad esso fondamento o giustificazioni.
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Naturalmente, aggettivando i principi in questione come “generali”, si
sottolinea la loro estensione; aggettivandoli come “fondamentali”, si mette
l’accento sulla loro posizione in seno all’ordinamento.
La tutela della buona fede è principio espresso: sono principi espressi
quelli che sono esplicitamente formulati in una apposita disposizione
costituzionale o legislativa, dalla quale possono essere ricavati (come qualsiasi
altra norma) mediante interpretazione.
La tutela dell’affidamento è, invece, principio inespresso: sono principi
inespressi, per contro, quelli non esplicitamente formulati in alcuna
disposizione costituzionale o legislativa, ma elaborati o costruiti dagli
interpreti. S’intende che gli interpreti, allorché formulano un principio
inespresso, non si atteggiano a legislatori, ma assumono che tale principio sia
implicito, latente, nel discorso delle fonti.
I principi inespressi sono frutto non di interpretazione, cioè di
ascrizione di senso a specifici testi normativi, ma di integrazione del diritto ad
opera degli interpreti. Essi sono desunti dagli operatori giuridici: ora da singole
norme, ora da insiemi più o meno vasti di norme (è questo, evidentemente, il
caso del principio di tutela dell’affidamento), ora dall’ordinamento giuridico
nel suo complesso.
I principi impliciti sarebbero costruiti dagli interpreti per via di
induzione (astrazione, generalizzazione, universalizzazione) a partire da norme
particolari. Un principio (implicito) sarebbe dunque una norma (molto)
generale dalla quale diverse norme particolari (esplicite) potrebbero essere
logicamente inferite (dedotte).
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Dopo la dettagliata esposizione del lavoro di Guastini sulle questioni di
teoria generale attinenti ai principi di diritto, è adesso necessario tornare ad
occuparsi del problema della utilizzazione dei principi di diritto
nell’integrazione del diritto lacunoso.
Ai nostri fini, evidentemente, è interessante verificare la possibilità di
utilizzare il principio dell’affidamento e della buona fede del contribuente
come mezzo per l’integrazione delle lacune dell’ordinamento giuridico.
La dottrina che si è occupata, in maniera specifica, del tema in
questione muove le sue conclusioni dallo studio del rapporto tra obbligazione
tributaria e codice civile
2
.
L’Autore, dopo la critica al dogma della completezza dell’ordinamento
giuridico, giunge all’ammissione della configurabilità teorica delle lacune nel
diritto tributario.
Infatti, il dogma della completezza dell’ordinamento giuridico non
riesce a superare la prova del raffronto con il diritto positivo; quel dogma ha
fondamento e svolge una importante funzione quando viene applicato a norme,
come quelle penali, che impongono obblighi e divieti, o come quelle tributarie,
che individuano e delimitano i presupposti d’imposta. Ma, nella sua
assolutezza, non permette di risolvere i problemi che all’operatore pratico si
pongono, quando l’operatore incontra le cosiddette lacune tecniche. Proprio in
materia di disciplina dell’obbligazione tributaria possiamo rinvenire esempi
significativi di lacune tecniche, ossia di lacune che l’operatore del diritto non
può eludere.
2
cfr. Fregni, Maria Cecilia, Obbligazione tributaria e codice civile. Torino,
Giappichelli, 1998, pp. 224-237.
20
In questo modo, se a proposito delle norme che fissano i presupposti
d’imposta e che delimitano la materia imponibile può essere utilmente
richiamato il principio di completezza, ossia il divieto di analogia, non
altrettanto può essere fatto per la disciplina delle conseguenza giuridiche che
scaturiscono dalle fattispecie imponibili.
In altre parole, la disciplina dell’obbligazione tributaria può presentare
spazi vuoti, rispetto a cui non opera alcun divieto di analogia, ma si pongono
problemi di completabilità, risolvibili, appunto, in via di analogia.
La tesi conclusiva dell’Autore è che, quando la disciplina tributaria
dell’obbligazione d’imposta presenta delle lacune, ossia la mancanza di una
norma espressa, può si applicarsi il codice civile, ma non in via diretta e in
modo automatico.
Il codice civile può applicarsi solo in quanto ricorrano i presupposti
dell’anologia (legis e iuris), ex articolo 12, comma 2, delle preleggi.
Di conseguenza, è possibile il ricorso all’analogia solamente se:
a) la disciplina tributaria dell’obbligazione d’imposta presenti una
lacuna in senso tecnico;
b) la norma del codice risponda ad una ratio, o si presenti espressiva di
un principio generale, sicché ne è possibile l’estensione analogica;
c) non vi siano, nel diritto tributario, ostacoli all’applicazione della
norma del codice.
In questa ottica, viene in evidenza la distinzione tra analogia legis e
analogia iuris.
La prima prende le mosse da una singola disposizione ed estrae da
questa la norma da applicare al caso analogo; la seconda, invece, prende le