2
alla base di una società che si definisce civile e che riconosce e
percepisce, finalmente, il valore aggiunto dei beni culturali
2
.
Stessi argomenti si possono richiamare quando si guarda
alla Penisola Italiana dal punto di vista paesaggistico: alte vette
lambite da acque cristalline, florida macchia mediterranea,
angoli di cielo terso…Panorami in grado di stregare, di attirare
masse di turisti ogni mese dell’anno, ma sempre più minacciati
dall’egoismo di coloro che si preoccupano solo di incrementare
i propri poco leciti profitti a danno dell’ambiente circostante. I
beni paesaggistici, però, non temono solo la noncuranza dei
lestofanti; ogni cittadino, seppur onesto, rischia, a causa di una
scarsa o inesistente informazione o per semplice negligenza, di
tenere condotte irrispettose della sacralità dei paesaggi.
Il legislatore italiano, conscio della delicatezza ed
importanza della materia in esame, anche alla luce del vigoroso
interesse della comunità internazionale per la difesa di quanto è
considerato bene culturale e paesaggistico, ha prodotto il
decreto legislativo 22 Gennaio 2004, n. 42, attraverso il quale è
stato varato il nuovo Codice per i beni culturali e paesaggistici,
sulla base della delega prevista dall’ articolo 10 della Legge n.
137 del 6 luglio 2002
3
.
Sulla scorta del finalmente accresciuto interesse del
legislatore e della comunità tutta nei confronti del nostro
patrimonio culturale, questo scritto ha l’obiettivo di approfondire
la tematica delle azioni di salvaguardia dei beni paesaggistici e
artistico-storici, volgendo lo sguardo alla nuova normativa, a
quella pregressa, e ai contributi in materia a livello
internazionale e comunitario, conferendo particolare attenzione
2
AA.VV ., V.A.S, Napoli, International Printing Editore, 2004, p.76.
3
http://www.altalex.com
3
alla problematica della pianificazione e dell’autorizzazione
paesaggistica (Capitolo III, §§ 2.1, 2.2 e 2.3).
Tutto ciò senza alcuna pretesa di essere esaustivo, poiché
la letteratura in materia è vasta e complessa.
4
CAPITOLO I. L’evoluzione normativa nella
materia.
Sommario: 1. Dall’esperienza degli Stati preunitari sino alle leggi
fasciste. I beni culturali. – 1.1. Segue. I beni paesaggistici – 2.
Dalle leggi Bottai alla Costituzione Repubblicana. – 3. Dalle
Dichiarazioni della Commissione Franceschini al T.U. 29 ottobre
1999, n. 490. – 4. Riforma del Titolo V della Costituzione ed
incidenza sulla materia.
1. Dall’esperienza degli Stati preunitari sino alle
leggi fasciste. I beni culturali.
I più antichi autori di trattati sulla tutela delle cose d’arte
e delle antichità hanno sempre sostenuto che furono gli antichi
romani i primi a dettare disposizioni per la tutela e intangibilità
dei monumenti e a considerare poste al pubblico servizio o di
pubblico dominio le opere dell’architettura e della scultura,
queste ultime se esposte alla libera visione di tutti. Tra gli
esempi più significativi di disposizioni in materia si annoverano
l’adozione di provvedimenti affinché non venisse alterato
l’aspetto della città, il divieto di demolire anche i propri edifici
per alienare le statue e i marmi, la diffusione del principio per il
quale la statua collocata da privati in luogo pubblico in onore di
qualche cittadino doveva ritenersi anche di proprietà pubblica.
Il che, tenendo presente l’enorme quantità di statue, bassorilievi
e architetture di pregio che costellavano le città sottoposte al
dominio romano, rappresenta, anche per gli occhi dei
contemporanei, un vincolo esteso e quantitativamente
importante.
5
L’emanazione di quelle norme, ovviamente, non era
determinata da una precisa e consapevole pretesa di tutelare
quei beni per la loro importanza e cultura bensì per poter
salvaguardare altre esigenze (viarie, di salubrità, economiche)
4
.
Ciò non toglie che alcuni degli istituti affermatisi nel mondo
romano sono stati ripresi e rielaborati dalle prime organiche
leggi di tutela degli Stati Italiani preunitari e sono giunti sino ad
oggi. Ne sono tipici esempi la dicatio ad patriam e la deputatio ad
cultum. La prima rappresenta l’istituto che oggi viene chiamato
«servitù di uso pubblico» o «limitazione al diritto di proprietà»,
che ha operato in virtù degli articoli 12 e 13 della l. 364/1909,
7, 11 e 13 della l. 1089/1939
5
ed è stato confermato
dall’articolo 825 del Codice Civile attualmente vigente. Essa, in
breve, consiste nel fatto del proprietario di porre
volontariamente una cosa a disposizione di una collettività
indeterminata di cittadini, assoggettandola all’uso pubblico o
ammettendo il pubblico ad un particolare godimento
6
.
La deputatio ad cultum deriva dall’istituto sopra descritto.
In essa l’uso collettivo della cosa storica o artistica ha carattere
esclusivamente culturale. Parlando in termini di forma, la
deputatio ad cultum per operare necessita dell’intervento
dell’autorità ecclesiastica e del consenso, espresso o tacito, del
4
A. Mansi, La tutela dei beni culturali, II ediz., Padova, Cedam, 1998, pp. 6,7
5
ARTICOLO 7: Il Ministro per l’educazione nazionale vigila perchè siano rispettati i diritti di uso e
di godimento che il pubblico abbia acquisito sulle cose soggette alla presente legge.
ARTICOLO 11: Le cose previste dagli art. 1 e 2, appartenenti alle province, ai comuni, agli enti e
istituti legalmente riconosciuti, non possono essere demolite, rimosse, modificate o restaurate senza
l’autorizzazione del Ministro per l’educazione nazionale.
Le cose medesime non possono essere adibite ad usi non compatibili con il loro carattere storico od artistico,
oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione o integrità.
Esse debbono essere fissate al luogo di loro destinazione nel modo indicato dalla Soprintendenza
competente.
ARTICOLO 13: Chi dispone e chi esegue il distacco di affreschi, stemmi, graffiti, iscrizioni, tabernacoli
ed altri ornamenti di edifici, esposti o non alla pubblica vista, deve ottenere l’autorizzazione dal Ministro
per l’educazione nazionale, anche se non sia intervenuta la notifica del loro interesse.
6
Questo istituto, però, non è caratteristico solo delle cose avente valore storico o
artistico; anzi esso riguarda prevalentemente terreni, edifici e cose che il proprietario
dedica all’uso pubblico.
A. Mansi, op. cit., pp. 8, 9.
6
proprietario alla destinazione della cosa all’uso soggetto al
provvedimento connesso.
In entrambi gli istituti, comunque, il diritto di proprietà
viene solo affievolito dalla destinazione pubblica del bene, ma
non viene meno la possibilità di commerciare quest’ultimo, ben
inteso nel rispetto delle norme in materia.
Dopo l’esperienza degli antichi romani, la protezione del
patrimonio storico, artistico ed archeologico rappresentò
l’oggetto d’interesse anche degli Stati italiani preunitari. Ciò è
dimostrato dal fatto che già alla fine del 1500 nel Granducato
Mediceo di Toscana si tentò di dar vita alla prima, anche se
embrionale, forma di “Ordinamento Giuridico dei Beni
Culturali”, avvalorando, così, la tesi, giunta sino ai giorni nostri,
secondo la quale la Toscana rappresenterebbe la culla della
civiltà italiana.
Nel 1571, ad esempio, si vietò la rimozione di insegne e
iscrizioni dai palazzi antichi.
7
Nel 1602 Ferdinando I ordinò l’entrata in vigore della
deliberazione, datata 24 ottobre, intitolata «dipinti dei quali si
proibisce l’estrazione». Essa conteneva l’elenco di diciotto (poi
divenuti diciannove) pittori, le cui opere erano considerate
talmente qualificanti per l’individuazione delle radici storiche
della cultura figurativa, da non poter essere esportate senza la
concessione della licenza da parte del «luogotenente dell’accademia
del Disegno», fissando, in tal modo, un chiaro limite alla
esportabilità delle tele
8
. È interessante notare che il
7
M.Ainis, M.Fiorillo, I beni culturali, in Trattato di diritto amministrativo, tomo II, a cura di S.
Cassese, Milano, Giuffrè editore, 2000, p. 1053
8
A tale proposito è interessante notare che gli artisti elencati non erano tutti di nascita
toscana né legati tutti alla cultura fiorentina o senese. Quindi, la tutela assunse una
dimensione “universalistica”: l’arte non ha confini e va protetta a prescindere dal suo
legame con le radici nazionali. Insegnamento valido tutt’oggi.
F. Lemme, Spunti per una introduzione al diritto dei beni culturali, in Gazzetta Ambiente n.
4/2004, edizioni Colombo, p.102
7
provvedimento del luogotenente non era discrezionale, bensì
condizionato alla verifica della inesistenza in vita dell’artista.
Con una successiva deliberazione, datata 11 dicembre
1602, si prevedette che per le opere degli artisti non elencati la
concessione della licenza di esportazione fosse rimessa alla
scelta di 12 pittori viventi (anch’essi nominativamente indicati),
tenuti ad esprimere, all’autorità di governo preposta, una sorta
di parere tecnico circa l’opportunità o meno del trasferimento
della tela in oggetto.
Sempre in Toscana, nel primo trentennio del 1700, la
granduchessa Anna Maria, Elettrice di Lorena, destinò le
raccolte granducali degli Uffizi a funzioni museali e ordinò,
tramite il proprio testamento (5 aprile 1739), che le opere d’arte
di sua proprietà rimanessero a Firenze sotto la condizione
espressa che «…non ne sarà nulla trasportato e levato fuori della
capitale e dello stato del granducato…»
9
.
Infine, nel 1754, il locale Consiglio di Reggenza estese il
divieto di esportazione dal Granducato di quelle categorie di
beni artistici considerate «cose rare»
10
.
Tutte queste misure fecero sì che la Toscana si trovasse
in una posizione di avanguardia nel campo della protezione
delle cose di interesse artistico, storico e archeologico anche
durante tutto il periodo che precedette immediatamente
l’unificazione.
A differenza della Toscana, negli altri Stati Italiani, in
quegli anni, si registrarono poche, insufficienti e frammentarie
misure.
9
L’intero documento è riportato in L.Parpagliolo, Codice dell’antichità e degli oggetti d’arte, I,
Roma, Morpurgo, 1932, p.306
10
M.Ainis, M.Fiorillo, op.cit., pag.1054
8
In Lombardia il primo provvedimento in materia di cose
di interesse artistico fu adottato solo nell’aprile del 1745. Esso
sancì il divieto di esportazione delle opere d’arte.
A Venezia, il 20 aprile 1773, fu istituito il primo catalogo
delle «pubbliche pitture» (una sorta di catalogo dei beni culturali
del giorno d’oggi) e fu creato un ufficio di ispettorato a
protezione di queste ultime.
Sicuramente più attivo fu Carlo III di Borbone, sovrano
del Regno di Napoli, che prima, nel 1755, con la «prammatica
LVII», introdusse misure volte a tutelare i reperti archeologici
dei siti di Pompei, Stabia ed Ercolano dalle predazioni; più
tardi, nel 1759, ordinò l’apertura a Napoli del Museo di
Capodimonte. Nel 1778 fu creato il Servizio di tutela
monumentale per la Sicilia con l’istituzione di due
sovrintendenze e la previsione di varie forme di tutela destinate
ai reperti archeologici del sito di Noto
11
. Nel 1822 e nel 1839,
infine, furono emanati due editti che contemplavano la tutela e
conservazione degli edifici, dei monumenti, degli scavi e di tutti
gli oggetti di interesse storico-artistico.
Si noti, quindi, che la maggiore preoccupazione del
tempo, fu proprio quella di evitare, o, al massimo, contenere, il
saccheggio e la vendita all’estero di opere d’arte italiane. Primo
segno, questo, di una considerazione della esistenza di un
patrimonio artistico e storico da salvaguardare dalla
dispersione
12
. Nonostante ciò la triste «tradizione» della «fuga»
di opere d’arte, soprattutto a seguito dell’invasione napoleonica,
sembrò non essere abbandonata.
11
Città della Sicilia sudorientale in provincia di Siracusa; rappresenta una vera e propria
«perla» artistica dell’isola, poiché raccoglie testimonianze greche, romane, medievali, ma, in
particolar modo, barocche.
12
T.Alibrandi, P.Ferri, I beni culturali e ambientali, IV ed.,Milano, Giuffrè editore, 2001, p.5
9
Solo lo Stato della Chiesa, memore della funesta
dispersione di molteplici collezioni artistiche nel corso del ‘600
a seguito del declino di centralità del papato e rafforzato dalla
riconquista dei propri territori grazie al Congresso di Vienna
del 1815, diede vita al primo, vero provvedimento organico di
salvaguardia di beni artistici e storici.
Dopo l’Editto del Cardinale Aldobrandini (1624) sul
divieto di esportazione di oggetti provenienti da scavi,
l’estensione della protezione (1704) ad altri oggetti (es. libri) e
l’Editto del Cardinale Spinola (1707) che sancì il principio della
conservazione artistica come interesse pubblico
13
, il 7 aprile
1820 venne emanato l’Editto di Bartolomeo Pacca
14
; a questo
seguì il correlato regolamento d’esecuzione del 6 agosto 1821.
Tale importante documento si snodava lungo tre linee
fondamentali:
a) principio di catalogazione: necessità di inventariare,
anche attraverso una denuncia descrittiva dei singoli oggetti da
effettuarsi alla Commissione di belle arti, tutto il patrimonio
figurativo esistente nello Stato della Chiesa. Questa attività di
accertamento della consistenza del patrimonio da tutelare era
considerata il presupposto fondamentale della tutela stessa;
b) divieto di esportazione: data la considerazione dei
beni culturali come fortemente radicati al territorio
d’appartenenza, nessuno di questi poteva oltrepassare il confine
dello Stato Pontificio senza autorizzazione del Cardinale
Camerlengo;
13
G. Cogo, I beni culturali ed ambientali tra ordinamento e istituzioni, in I beni culturali, a cura di
L. Mezzetti, Padova, Cedam, 1995
14
Vescovo di Frascati e Cardinale Camerlengo di Sacra Romana Chiesa.
10
c) principio della proprietà pubblica del sottosuolo
archeologico: si dichiarò che qualsiasi bene culturale rinvenuto nel
sottosuolo fosse di proprietà dello Stato e non del privato
15
.
L’Editto Pacca ebbe una risonanza tale da ispirare la
legislazione successiva degli Stati Italiani. Nel Regno di
Sardegna, ad esempio, tristemente noto per essere lo Stato che
per ultimo si è mosso sul terreno dei beni culturali, il primo
provvedimento degno di nota è datato 1832: esso ricalcò
perfettamente il decreto del cardinale Pacca, istituendo la
Giunta di antichità e belle arti, avente il compito di provvedere
alla promozione, ricerca e conservazione degli oggetti antichi e
delle opere d’arte.
L’Unità d’Italia (proclamata il 17 marzo 1861) non portò
affatto ad un miglioramento della legislazione in materia di beni
culturali, anzi: se durante il periodo precedente i regnanti si
erano sforzati a dar vita almeno ad una normativa di mera
conservazione, l’ultimo quarantennio del 1800 registrò un
dilagante disinteresse e un mancato arresto della dispersione del
patrimonio culturale per alienazioni o donazioni.
Ciò di cui in quel momento s’abbisognava era una
disciplina vincolistica dei beni culturali, cioè un insieme di
norme che, attraverso l’intervento pubblico, limitassero
l’iniziativa individuale e la proprietà privata ad appannaggio
della pubblica fruizione delle cose di interesse storico, artistico
ed archeologico.
Le forti resistenze politiche che una disciplina di tal fatta
incontrò in seno alla classe dirigente dell’epoca furono dovute
15
Il professor Lemme riscontra, in nuce, nell’Editto Pacca, i principi ai quali si ispira la
legislazione successiva in materia di beni culturali; da ultimo il recentissimo Codice
Urbani.
Op.cit. p.103
11
soprattutto alla ideologia liberale
16
tipica del XIX secolo e che si
riassumeva, per lo Stato italiano, nel dettato dell’articolo 29
dello Statuto Albertino:« Tutte le proprietà, senza alcuna eccezione,
sono inviolabili». Sulla base di questo «supremo principio» ogni
intervento statale che potesse in qualche modo inficiare il libero
scambio e l’intangibilità della proprietà era visto con sfavore.
Alla luce di ciò ci si adoperò ulteriormente per eliminare anche
quei residui istituti che, ponendo un limite al principio del
libero scambio, avevano garantito la conservazione dei beni
culturali. Si pensi, tra tutti, ai vincoli fidecommissari: essi
avevano innanzitutto la finalità economica di evitare la
dispersione dei patrimoni delle grandi famiglie, prevedendo, in
caso di successione, il passaggio al primogenito dell’intero
patrimonio sottoposto a quel vincolo e la sua indivisibilità ed
alienabilità
17
. Il Governo post-unitario, invece, vide nei vincoli
fidecommissari un ostacolo all’economia pubblica, alla giustizia,
alla morale, così con gli articoli 24 e 25 del Codice Civile del
1865 essi furono aboliti.
In tal modo la classe governativa non finì per andare
oltre il mero riconoscimento del principio del rispetto dell’
«ornato delle città»
18
, inteso come divieto di trasformazione o
demolizione di edifici urbani reputati di grande pregio artistico.
Sempre alla luce della dottrina liberale, anche la cosa
d’interesse artistico, storico e archeologico veniva considerata
come un qualunque altro oggetto di diritto, ergo non necessitava
di una regolamentazione specifica poiché alle sue vicende
16
In breve: il liberalismo è una dottrina politica imperniata sulla difesa della sfera di
autonomia del singolo dall’invadenza delle istituzioni o di qualunque gruppo sociale
prevaricante. Nel corso dell’Ottocento il pensiero liberale fece leva sulle teorie
economiche di Adam Smith e David Ricardo per difendere la libera concorrenza e
contrastare l’ingerenza dello stato nella gestione della proprietà privata.
17
G. Chiarante, U. D’Angelo (a cura di), Beni culturali, nuovo Codice e riforma del Ministero, in
Quaderni dell’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli, Roma, Graffiti editore, 2004, p. 11.
18
Che, come si è visto sopra, affonda le radici nelle previsioni legislative degli antichi romani.
12
andava applicata la disciplina negoziale prevista dal Codice
Civile (sic!).
Di fatto, perciò, nei primi dieci anni successivi
all’unificazione, finirono sostanzialmente col restare in piedi le
norme vigenti negli Stati preunitari. L’unica, e invero di
importanza irrilevante, voce fuori dal coro fu rappresentata
dalla l. 25 giugno 1865, n. 2359; essa sancì la facoltà in capo
all’amministrazione di disporre l’espropriazione dei «monumenti»,
se mandati in rovina per incuria dai proprietari.
Con l’annessione dello Stato Pontificio al Regno d’Italia
(1870) la situazione non volse al meglio; addirittura, con
l’articolo 5 della l. 28 giugno 1871, n. 286, il legislatore si limitò
a rinnovare l’efficacia della legislazione disomogenea degli Stati
preunitari (!)
19
e a compiere un passo indietro anche in tema di
vincoli del fidecommisso: essi furono ristabiliti «a titolo
provvisorio»
20
. Mentre, con la legge 31/1892, furono introdotte
sanzioni penali per la sottrazione, la distruzione, la
soppressione o il danneggiamento di oggetti compresi in
collezioni.
Fortunatamente, in Parlamento iniziarono a divenire
sempre più accese le discussioni tra i difensori della proprietà
privata e quelli del patrimonio culturale, tant’è che, seppur
senza successo, nel 1872 cominciò a respirarsi la voglia di
rinnovamento: il Ministro Correnti presentò al Senato una
iniziativa legislativa per la protezione di cose di antichità e
d’arte. Il progetto Correnti non andò a buon fine ed i ministri
19
Anche la Corte di Cassazione di Firenze (coesistevano, allora, ben cinque Corti di
Cassazione) affermò la sopravvivenza, nei vari territori dello Stato Unitario, della
legislazione precedente all’unificazione, in attesa di una nuova normativa nazionale
(sent. 24 ottobre 1888, in causa Ministero dell’Istruzione c/ Condomini di Palazzo
Petrucci di Siena).
F. Lemme, op.cit., p.103
20
In realtà essi non furono più abrogati, anzi sono stati addirittura richiamati sia dal
T.U. 490/1999 (sul quale v. Cap. I, § 3) sia dal Codice Urbani nell’art. 129, comma 2.
13
che successivamente si avvicendarono nel proporre interventi
legislativi in materia (Borghi, De Sanctis, Coppino, per fare solo
alcuni nomi) si trovarono dinanzi ad un muro di totale
indifferenza. Ebbe la meglio solo il Ministro Nasi il quale
ripresentò, nel 1902, il progetto ideato dal Ministro Gallo che
portò al varo della l. 12 giugno 1902, n. 185, la quale fu seguita
da un disordinato regolamento composto di ben 418 articoli
approvato con R.D. 17 luglio 1904, n. 431. Questa legge,
seppur palesemente carente già al momento della sua entrata in
vigore, costituì la prima legislazione organica in materia. Essa
proibì l’esportazione solo delle opere considerate di «sommo
pregio» e che fossero iscritte in un catalogo, la cui istituzione era
prevista dalla stessa legge.
In realtà, in un’epoca, come si è visto, in cui prevaleva il
dogma della proprietà privata quale diritto fondamentale della
persona, la legge non potette vietare tout court l’esportazione;
pertanto venne emanata una norma di carattere transitorio,
contenuta dall’articolo 35, che prorogò di un anno le
disposizioni vigenti in materia di esportazione all’estero per
ciascuna delle regioni italiane.
Il timore che allo scadere del termine posto dall’articolo
35 sarebbe ricominciata la dispersione delle opere d’arte, spinse
il legislatore ad adottare una regolamentazione più restrittiva
con la l. 27 giugno 1903, n. 242. Essa prorogò nuovamente il
termine di cui sopra e fece sì che le nuove disposizioni vietanti
l’esportazione si applicassero a tutta l’Italia senza disparità tra
regione e regione; inoltre, contemplò separatamente le cose di
scavo e chiamò le rappresentanze locali a pronunciarsi circa il
veto dell’esportazione.
14
Un anno dopo, con la l. 17 luglio n. 431, fu istituito il
catalogo nazionale dei beni culturali e proibita l’esportazione
delle opere in esso menzionate, se qualificate dai connotati di
«grande pregio». Anche questa legge, purtroppo, non permise di
raggiungere i risultati sperati, perché non riuscì con il solo
ricorso all’iscrizione nel catalogo ad impedire ulteriori
sottrazioni del patrimonio culturale italiano.
Nel 1909, con la l. 20 giugno, n. 364 (detta “Rosadi-
Rava”)
21
, si mise definitivamente fine all’operato della
legislazione del 1902. In questa legge
22
, che rappresentò un
grande progresso rispetto alla precedente, si ritrovano alcuni
degli enunciati fondamentali cui è ancora informata la
normativa attualmente vigente (dichiarazione di interesse
pubblico, poteri strumentali dell’amministrazione, ecc.).
Anzitutto, la legge in parola all’articolo 1 abbandonò il criterio
della previa iscrizione dei beni in un catalogo ufficiale e
dichiarò soggette alla legge le cose mobili ed immobili aventi
interesse storico, archeologico o artistico, di autori defunti da
almeno 50 anni.
Si badi: la storia, quale parametro ulteriore e
complementare per la valutazione dell’interesse dell’oggetto da
tutelare è comunque la storia in senso idealistico, ossia la storia
per eventi significativi, capaci di improntare di sé un
determinato tratto del cammino dell’uomo e della società
23
. Le
testimonianze alle quali si assicurava, e si assicura ancora oggi,
tutela, quindi, sono quelle in qualche modo paradigmatiche di
una civiltà di un periodo storico.
21
Il cui minuzioso regolamento d’attuazione fu adottato nel 1913.
22
La cui impronta generale fu seguita dalla prima legge sulle bellezze paesistiche, la 11
giugno 1922, n. 778.
S. Cassese, L’amministrazione dello stato, Milano, Giuffrè editore, 1976, p.155
23
Ministero per i beni e le attività culturali, Dal Testo Unico al Codice dei beni culturali e del
paesaggio, in Dossier dell’Ufficio Studi, Roma, Eredi dott. G. Bardi, 2004, p. 9.
15
Per le cose appartenenti a Stato ed enti pubblici si sancì
l’inalienabilità; per quelle di privati considerate di «importante
interesse», si istituì l’obbligo di denuncia di ogni trasmissione di
proprietà e di possesso e il diritto di prelazione a favore dello
Stato.
Si vietò l’esportazione quando questa avrebbe potuto
costituire danno grave per la storia, l’archeologia e l’arte,
prevedendo, inoltre, il diritto d’acquisto coattivo per
l’Amministrazione statale delle cose presentate per
l’esportazione.
Fu sancita l’impossibilità di compiere demolizioni,
rimozioni, modificazioni o restauri senza la previa
autorizzazione del Ministero (se le cose ricadevano, però, nella
proprietà di soggetti privati, la disciplina ora illustrata risultava
applicabile solo agli immobili per natura o destinazione).
Si delineò, infine, una puntuale regolamentazione degli
scavi archeologici, consentendo l’espropriazione delle cose
mobili e immobili nel caso che il proprietario avesse trascurato
di provvedere ai necessari restauri
24
.
Finalmente, dopo anni di stupida indifferenza, il
legislatore italiano sembrava cominciare a prendere coscienza di
quanto fondamentale fosse per uno Stato il riconoscimento e la
tutela del proprio patrimonio culturale; e le leggi Nasi e Rosadi-
Rava, che pure presentavano lacune e incompletezze, hanno
rappresentato il momento della caratterizzazione più
24
La legge Rosadi-Rava fece da apripista all’entrata in vigore di una serie di leggi speciali in
materia:
• Il d.l. 2 ottobre 1912, n. 2074, che istituì le Soprintendenze bibliografiche;
• il r.d. 31 dicembre 1923, n. 1889 per la compilazione del catalogo dei monumenti e delle
opere di interesse storico, artistico e archeologico;
• il regolamento 26 agosto 1927, n. 1917 per la custodia, conservazione e contabilità del
materiale artistico, archeologico, bibliografico e scientifico;
• il r.d.l. 15 aprile 1937, n. 623, convertito nella l. 7 giugno 1937, n. 1015, sulla tassa di
esportazione di cose d’interesse archeologico ed artistico;
• la l. 22 dicembre 1939, n. 2006, che stabilì il nuovo ordinamento degli Archivi del Regno.