4
Si potrebbe concludere questa breve premessa riassumendo che, il
Vampiro si nutre della vita delle sue vittime, ma non della vita intesa in
senso strettamente fisiologico, bensì sarebbe più corretto dire che il
Vampiro, il “non-morto”, si nutre prevalentemente dell’esistenza dei
“vivi”.
1
Nell’affrontare una lettura critica del mito del vampiro nel cinema si
dovrà tener conto di un complesso intreccio di riferimenti d’ordine
etnografico, letterario, storico-biografico e filosofico, attraverso i cui fili
sottili poter ricostruire l’origine di un mito che domina per tutto il XX
secolo l’immaginario collettivo dello spettacolo filmico. E’ altresì
interessante notare come ciò che avviene abitualmente ritenuto frutto di
pura invenzione letteraria abbia radici a sua volta in un altro
immaginario; quello di un popolo le cui testimonianze sul campo ne
assicurano la veridicità. Discipline diverse tessono dunque un
complesso labirinto d’immagini speculari e ingannevoli al tempo stesso
nelle quali la figura del vampiro viene ad assumere differenti letture
anche secondo i tempi, pur tuttavia conservando quel substrato
metafisico perennemente sospeso fra esemplarità e serialità, che
appunto ne determina il mito.
Se osserviamo da vicino e intensamente l’immagine di un morto, presto
giungiamo a concludere che il vampiro smentisce la definizione di
tertium non datur: esso non è vivo, non è morto, ma è invece un non-
morto, la terza dimensione dell’essere. Non stupisce, dunque, che ad
appropriarsi della natura esoterica, metafisica e sommessa del
vampirismo sia stata proprio la corrente estetico-letteraria del
Romanticismo europeo. E’ appunto in termini sovranazionali che il
1
Cfr. www.filmup.it/forum - Tutto Cinema - Lo specchio vuoto dei vampiri
5
vampirismo diviene fonte di ispirazione letteraria per più di una
generazione di poeti e scrittori. Da E. T. Hoffmann a Lord Byron, da
Samuel Coleridge ad Aleksej K. Tolstoj sino a giungere al nostro
Capuana.
La notte è il tempo ideale e necessario perché il gesto vampirico possa
compiersi. Notte dopo notte, come una creatura errante, avida di
trasmettere la propria solitudine e maledizione. Essa, dunque, non
poteva non destare interesse e ammirazione nei poeti romantici.
Se la figura del vampiro veniva ad assumere nelle opere degli scrittori
romantici diversi significati metaforici, questo non implicava che
venisse pronunciato il suo nome. E tale sembra essere il destino di film
contemporanei come Miriam si sveglia a mezzanotte di Tony Scott o
The Addiction di Abel Ferrara (di cui si parlerà specificamente più
avanti) dove la parola vampiro è del tutto ignorata, sebbene
quest’ultimo sia sempre protagonista delle storie, quasi a voler
maggiormente sottolineare il lato oscuro e metaforico della narrazione.
<<Nella notte tutto è possibile e la difficoltà dell’azione e della
conoscenza si fondono come per incanto nell’immensità oceanica
dell’ombra – scrive Alfredo De Paz nel volume sul romanticismo
europeo – la notte romantica non è una notte costellata di spazi neri,
muti e sconsolanti; è, al contrario, una notte infinitamente popolata, una
notte in cui circolano tutte le specie di presenze, dove vi sono degli
scricchiolii, dei trilli, dei fruscii, dei risi furtivi>>.
2
E aggiungiamo che la notte del Vampiro di Carl Thedor Dreyer, dove il
viandante Gray, accolto da mormorii furtivi, pianti di bambini e latrati
di cani, si trova come sospeso in un’atmosfera indecifrabile: essa è
frutto della sua immaginazione romantica, oppure semplicemente
esiste?
2
ALFREDO DE PAZ, Il Romanticismo Europeo. Un’introduzione tematica, Liguori, Napoli 1987
6
E ancora: <<Vi è qualcosa nel “cuore della notte” che fa trasalire
l’animo. Nel “cuore della notte” comincia la “Vita Nuova”, cioè il caos
della natura il caos della coscienza e al contempo si celebrano le nozze
della coscienza e della natura>>
3
LA POETICA
Perché autori tra loro diversissimi, in un lunghissimo arco temporale, si
cimentano con storie di vampiri, ma ancor più con l’essenza morale e
spirituale che è propria di questa mitica figura così prepotentemente
entrata a far parte dell’inconscio collettivo?
Coniugare un autore come Dreyer con registi come Fisher o Ferrara può
perfino scandalizzare i puristi. Ma è altresì interessante la verifica
dell’atteggiamento che ciascuno di essi ha di fronte a tale mito, a quale
codice linguistico od interpretativo fanno riferimento. L’idea del
vampiro come fiction si origina da un certo mondo anglosassone del
XIX secolo, ma presto diviene, col secolo ventesimo, sovranazionale.
La risposta “estetica” al mito del vampiro è comunque una questione di
linguaggio. Così avviene che nella messa in scena di ciascuna opera si
insinui quell’elemento perturbante nascosto dietro le ombre
espressioniste del Nosferatu di Murnau come nell’orgia visiva
dell’ultimo Dracula coppoliano.
La dimensione moderna
Il passaggio avvenuto intorno agli anni settanta dal mito
cinematografico di Dracula a quello più generale del vampiro moderno,
ha significato non solo la possibilità di una lettura “critica” della
tradizione, ma ancor più, l’invenzione di una delle metafore della
modernità. Si impongono un nuovo scenario urbano, metropolitano, e
3
Ibidem
7
una nuova indagine sull’uomo rispetto ai suoi simili. L’idea stessa di
vampirismo, subisce una metamorfosi: chi è dunque il vampiro nello
scenario contemporaneo? Colui che vive succhiando il sangue alle
proprie vittime o è piuttosto egli stesso vittima di quanti vogliono
impossessarsi della sua anima?
Esiste sempre un rapporto di ambiguità tra vittima e carnefice. Talvolta i
ruoli si confondono, si capovolgono in una prospettiva ontologica, che
viene assumendo la singolare fisionomia dell’apologo morale. E’
dunque logica conseguenza di tale premessa che lo scenario del
vampirismo contemporaneo nel cinema sia uno spazio reale e
immaginario, fisico e mentale come la città di New York divenuta
frequente scenario di storie di vampiri. La natura della stessa città
metropoli cosmopolita, perviene dunque ad un’osmosi con la natura
della seduzione vampirica come fiction visiva. Entrambe infatti possono
essere cruente e crepuscolari, misteriose e decadenti come altrettante
icone del vampirismo cinematografico. In termini specificatamente
filmici non appare certo casuale che lo spazio fisico della provincia
americana abbia invece suggerito l’idea di un horror evasivo, che quasi
non riesce a farsi metafora. La metropoli americana, infatti, non è la
sola capace di incarnare il mito di Babele, delle lingue e delle razze del
mondo. Ed è proprio nel cuore stesso di quella città che un regista
cosmopolita come Roman Polanski ha scelto di filmare la nascita
dell’Anticristo in Rosemary’s Baby.
Da Blacula di William Crain a The Addiction di Abel Ferrara, passando
attraverso il Martin di George Romero, che costituisce un’eccezione in
quanto da ambientazione provinciale, la figura emblematica del vampiro
verrà assumendo il ruolo di protagonista e al tempo stesso di testimone
di una crisi dell’uomo civilizzato e urbanizzato, di un’angoscia che si
perpetua nell’ambigua forma della comunicazione.
8
E’ la società stessa a creare il vampiro affinché ne venga sedotta e
contaminata. Nel film di Romero, ad “allevare il mostro” in seno alla
propria superstizione e all’idea che essa ha dell’uomo e della sua
diversità, è proprio un rappresentante della normalità borghese di
provincia, un “onesto commerciante”. Martin è un vampiro poiché la
sua “malattia”, o se si vuole il suo “vizio”, quello di uccidere donne
bevendo il loro sangue, lo fa assomigliare a un perfetto vampiro,
giovane reincarnazione di Nosferatu.
E’ con the Addiction, capolavoro maledetto di Abel Ferrara, che
l’equazione vampirismo – modernità giunge al suo apice di maggiore
tensione. Sensibile alle ragioni morali del bene e del male e alla loro
conflittualità interiore, Ferrara sovrappone sino a confonderla, la
“malattia” della giovane studentessa, “vampira” non per libera scelta
con quella ben più crudele di una intera umanità. Alla voluttà “animale”
del vampiro che è costretto ad esigere il sangue delle proprie vittime per
sfamarsi corrisponde invece la razionale e sistematica violenza di una
società che mentre predica la fratellanza produce il genocidio dei campi
di sterminio.
La dimensione umana
Se la figura mitica del vampiro, il non – uomo, il non – morto, si forma
attraverso l’immaginario notturno degli uomini – personaggi delle storie
di Dracula, la sua “umanità” vera o presunta non è leggibile senza
l’apporto o la presenza di coloro che ne hanno determinato l’esistenza.
L’umanità di Nosferatu è leggibile di volta in volta nell’accoglienza
riservata a Jonathan Harker, nel rapporto che viene istaurandosi tra i due
personaggi (Herzog), nella sua estrema solitudine che è il vero elemento
di sutura con il mondo dei vivi. Sebbene quest’ultimo sia basato sulla
morte fisica, v’è tuttavia una comune sofferenza a cui il vampiro e
9
l’umano pervengono che è il mistero dell’anima. Per il vampiro l’essere
condannato all’eternità significa conservare la propria anima attraverso
il corpo, cioè ottenere la sua vivificazione mediante il sangue umano.
L’umanità di Nosferatu si manifesta nel desiderio per Mina, la cui
bellezza diafana e struggente immediatamente lo incanta. Il Nosferatu di
Werner Herzog è doppiamente significativo in quanto spartiacque tra la
visione classica del vampiro e quella moderna. Inoltre esso chiude un
ciclo (quello narrativo classico) e implicitamente ne apre un altro
(rendendone visibili taluni elementi essenziali) che possiamo chiamare
di “umanizzazione del vampiro”. Le opere successive, infatti, tengono
conto delle singole stesure proprio dell’interpretazione che suscitano ad
un attento sguardo critico le precedenti (fino agli horror della Hammer).
Se ne ricorderà perfino Francis Ford Coppola nel suo Dracula, la cui
impronta marcatamente neoromantica non esclude affatto, anzi sollecita,
una visione disincantata dell’antico principe valacco che sopravvive ai
secoli fino alla nascita del cinema, alla ricerca dell’amore perduto. La
sua identità si plasma sul binomio amore – dolore, in un rapporto
sadomasochistico, con le proprie vittime che gli rammentano la bellezza
della caducità e la malinconia dell’eternità: sopravvivere ai giorni, alle
notti, alle decadi, ai secoli che lentamente passano ad uno ad uno, senza
lasciare segni sul suo corpo, ma non nell’anima. Perfino l’atto di
succhiare il sangue alle proprie vittime viene ad assumere la doppia
valenza di irrefrenabile desiderio, ma anche di dolorosa fatica. Per tale
ragione il classicismo della Hammer rappresenta la fase più avanzata di
demonizzazione del vampiro e al tempo stesso il suo completo
esaurimento. In altre parole esso riflette una sorta di decadentismo in cui
l’immagine del vampiro e la sua interpretazione “negativa” va
sfaldandosi in una deriva ambiguamente erotica. Pensiamo ad esempio
al vampiro Luis – Pitt di Intervista col Vampiro, personaggio che più di
10
ogni altro riflette l’umanizzazione del “mostro”, il dolore di essere ciò
che non si vorrebbe essere mai stati, ma anche la falsa coscienza
dell’impossibilità di uscire dalla propria condizione di “vampiro”. Luis
può perciò trovare una giustificazione ai suoi delitti proprio come un
comune essere umano, così da rassomigliare moltissimo, nonostante la
differenza di toni e di impianto scenico – temporale, alla protagonista
del film di Abel Ferrara The Addiction. Il dolore della giovane donna
divenuta vampira per mano di un’altra donna misteriosa, come fosse
una semplice malattia contagiosa, lentamente si trasforma per necessità
quotidiana (metafora evidente dell’istinto umano di sopravvivenza) in
prassi rigenerativa, trasformando qualsiasi atto sessuale in atto
vampirico, e quest’ultimo in metafora di un prolungato atto sessuale.
Pensiamo allora alla “malattia” di Martin nel film omonimo di George
Romero: il suo bisogno di sangue femminile è la forma più cruenta di
un atto di amore, certamente la più vicina ai primitivi riti sacrificali.
Tuttavia, per suo cugino, egli è un vampiro, un incarnazione di
Nosferatu, una maledizione da esorcizzare. Il suo è il dramma di non
sentirsi appartenente alla comunità dei cosiddetti “normali”, di
“avvertire” come propria un’intima identità non riconosciuta, inoltre
accettare quella che gli è stata assegnata, non porta la consolazione di
una possibile integrazione, ma piuttosto allo scacco
dell’autocolpevolezza e dell’autodistruzione.
Martin è vittima di un paradosso il quale non può che riflettere la
specularità della natura umana nel rapporto che si stabilisce fra vittima e
carnefice. Martin dà e riceve amore da una donna ma essa morirà di una
morte volontaria. Tale episodio, dice molto dell’estrema umanità del
protagonista, sottintendendo l’atto vampirico come eutanasia al dolore e
alla solitudine. La sua maniera di dare la morte attraverso il desiderio è
11
più dolce di qualsiasi altra morte volontaria o involontaria. Essa è un
atto sessuale totale.
La dimensione narrativa
Dracula, racconto apparentemente canonico in forma epistolare, è in
realtà l’avventura metafisica di un uomo normale che si confronta con
l’elemento irrazionale. Il cinema ce ne ha fornito un seguito di varianti
sul medesimo tema del viaggio (sempre più chiara ci appare la
weltanshauung romantica del viandante, ma in chiave positiva).
Se il romanzo si poneva come opera di fine secolo, perciò opera
composita che presenta al suo interno l’uso di differenti registri quali il
racconto borghese, il racconto dell’orrore e il romanzo di viaggio ed
epistolare, il film opera una sorta di distillazione linguistica adattando il
precedente linguaggio (letterario) al proprio codice linguistico. Il
risultato è pertanto una riduzione alla forma del racconto filmico
dell’orrore inteso anche nell’accezione metafisica (Murnau, Dreyer,
Herzog). Ma veniamo ad analizzare gli elementi essenziali che
compongono e determinano il meccanismo narrativo del cinema
vampirico. Innanzitutto i personaggi.
Chi è Jonathan Harker e qual è l’impulso che lo spinge ad intraprendere
un così periglioso viaggio in terre misteriose e sconosciute?
Egli viene rappresentato quasi sempre come un uomo di aspetto
piacevole, dal carattere risoluto, in altre parole un campione di
moderazione, che agisce essenzialmente mosso da uno spiccato senso
del dovere e spirito di classe. E’ l’uomo che ama teneramente una
giovane donna, Mina ma in realtà aspira al matrimonio e alla famiglia,
oltre che ad una solida posizione sociale. Sia che lo si presenti in veste
di agente immobiliare (Murnau, Browning, Herzog) o in quella di
antagonista del vampiro (Fisher), egli agisce in nome della medesima
12
ragione pragmatica che lo vede impegnato a sterminare il vampiro
Dracula senza neppure tentare di comprendere le ragioni profonde di
tale “creatura” maledetta, intimamente connesse alla sua stessa natura.
Ma il ritratto del giovane Harker si completa e si chiarisce quando alla
motivazione ideale (la vendita della proprietà di Carfax) si aggiunge
quella “nascosta” (la scoperta del mondo “oltre la selva”). Egli infatti
con la seconda costruisce il proprio alibi alla ostinata volontà di
“crociato” della causa del Bene.
L’incontro di Jonathan con il Libro possiede diverse valenze: esso
innanzitutto precede cronologicamente quello con il vampiro in carne ed
ossa, vero e proprio alter ego di Harker, campione a sua volta di un
mondo infinito e di una seduzione ininterrotta. Ad un primo livello di
interpretazione, il Libro può essere inteso come un avvertimento, un
monito che viene ad assumere una risonanza quasi mondana: la
presenza del Libro sostituisce, infatti, la voce comune, maliziosa e
sospetta che nell’emettere il proprio giudizio, perviene ad un
condizionamento della coscienza del singolo. Ad un livello più
profondo, invece, si può concludere che esso rappresenti la saggezza
razionale, la strada maestra senza la quale ogni azione compiuta diviene
un’azione vana. E’ la parola dunque a guidare Jonathan come
stigmatizzazione della ragione.
Intorno alla figura di Jonathan Harker conosciamo una prima
interpretazione anomala rappresentata da Nosferatu herzoghiano. Il suo
Harker (Ganz) è un personaggio dal tono dimesso, assai più vicino nello
spirito a un uomo del XX secolo, individualista e indifferente agli umori
della società cui in fondo appartiene. Non è un caso forse che sia
proprio lui a contrarre il virus vampirico e successivamente a prendere il
posto di Nosferatu, dopo che egli è morto per sempre. La sua malattia e
la perdita della memoria (egli non riconosce più l’amata Lucy), del
13
senso di appartenenza consapevole ad uno status, creatura fuori dalla
storia, egli lentamente scivola fuori dalla propria esistenza sentimentale,
fuori dalle regole della vita umana e dalla vita stessa. E’ diventato un
vampiro, ha acquisito cioè una nuova vitalità che paradossalmente viene
contrapposta dall’eretico Herzog alla cronica stupidità dei notabili di
Vismar.
Il viaggio che Harker deve intraprendere per raggiungere il castello di
Dracula forma quasi un prologo alla fase successiva, anziché occupare,
come la reale lunghezza del viaggio potrebbe supporre, un più ampio
sviluppo. E’ un nucleo narrativo che in quasi tutte le versioni conosciute
si risolve in brevi accenni sottolineati dalle pagine del diario di Jonathan
Harker fuori campo. L’attraversamento di selve oscure, la sosta a
Bistritz nella locanda, il percorso finale sulla carrozza del vampiro sono
frammenti di un unico disegno che ad ogni nuova opera si ripete, senza
che venga posto l’accento su questo o quell’elemento mantenendo il
medesimo livello di interpretazione.
Viaggio, dunque, ma verso un ignoto materializzato, identificabile con
la figura del vampiro, che è corpo e apparenza ingannevole, ma al
tempo stesso entità maligna. Ancora una volta il Nosferatu herzoghiano
costituisce un’eccezione: il regista, infatti, dilata l’episodio del viaggio
da Vismar in Transilvania calando il protagonista (Harker) in uno
scenario di suggestiva e selvaggia bellezza (selve oscure, gole con
torrenti impetuosi secondo una precisa iconografia pittorica ricca di
rimandi al romanticismo) che sembra preannunciare il clima di forte
onirismo e di irrealtà che invade il regno di Nosferatu. Esso è luogo
simbolico situabile oltre la soglia della coscienza razionale e della
morale comune. E’ lo spazio ricreato dell’immaginario.
L’incontro fra Harker e il conte vampiro è forse il momento culminante
dell’intero tessuto narrativo. Esso naturalmente viene ad assumere
14
differenti valenze narrative ed espressive a seconda dell’identità del
vampiro. Questi può ridursi a una presenza – apparizione fugace quanto
temibile (Murnau), mostrarsi in tutta la sua fisicità seduttiva ed
inquietante (Fisher) o infine suscitare un vero e proprio confronto con il
giovane e raro interlocutore in forma di conversazione (Herzog e
Coppola).
Dal dialogo col vampiro si passa alla prigionia nel castello. In questa
fase, che possiamo definire “claustrofobica” di esplorazione dello
spazio fisico, ricca di apparizione (le amanti di Dracula, i pipistrelli) un
altro libro diviene elemento essenziale, oggetto di consolazione, non il
Libro dei Vampiri, ma il diario che lo stesso Jonathan ha scritto e
portato con se dall’inizio del viaggio. Il suo pensiero è rivolto
innanzitutto a Mina, la donna amata, alla quale confida ogni dettaglio
del suo stato fisico e mentale, descrivendo la cupa atmosfera e le
stranezze del luogo.
Il primo libro e il secondo assommandosi nella coscienza di Jonathan,
finiscono per annullarsi nel duplice sentimento irrazionale dell’amore
per Mina, e nell’attrazione – repulsione verso il vampiro.
Lo stato di delirio porta al desiderio di fuga che sul piano dell’avventura
interiore attesta il rifiuto della parte oscura di sé che nel passaggio dalla
parola scritta all’immagine filmica, (passaggio per così dire “epocale”),
viene ad assumere un’identità più precisa per mezzo del cosiddetto
metodo di analisi psicanalitica.
Dunque le sue azioni sono dominate da una forza oscura che egli ignora
essere in se stesso, poiché il vampiro non è che la proiezione del
desiderio di fuga di Jonathan dal proprio secolo, dalla volontà di
rovesciare il pudore verso la morte nello schiudersi di un tempo e di una
libertà infiniti.
15
Nell’interpretazione herzoghiana non leggiamo solamente la malinconia
del vampiro di fronte alla durata del tempo, ma anche la fine delle
utopie umane.
Nell’amaro pessimismo del cineasta tedesco, Jonathan e Nosferatu sono
sempre più simili tra loro e lontani dagli altri uomini che forse, senza
neanche saperlo, sono dei morti viventi.
E’ curioso che generalmente sia dato esiguo spazio ad uno dei momenti
essenziali della narrazione, il viaggio per mare di Nosferatu. Invece esso
viene ridotto a poco più di un passaggio necessario per giungere alla
parte finale nella quale si assiste all’eliminazione del Male mediante
l’eliminazione del Vampiro.
Il vampiro, partendo alla volta dell’ “Europa”, porta con se la memoria
della propria terra di Transilvania, insieme alla peste diffusa dai topi. E’
una passaggio di rara potenza iconica, simbolica ed espressiva. La
versione herzoghiana riesce perfettamente a coglierne la solenne
lentezza conferendo alle immagini una sorta di ritmo interiore.
Martin di George Romero, o The Addiction di Abel Ferrara, mostrano
visibilmente il tentativo di sovvertire gli stereotipi narrativi del genere,
capovolgendone quasi tutti i luoghi comuni, in altre parole mandando in
pezzi una tradizione ormai solida, e in particolar modo il film di Ferrara,
la cui esile trama introduce una percezione fisica del morbo vampirico
inteso come malattia morale, una addiction appunto.
Non possiamo infine ignorare che il linguaggio usato dal regista George
Romero nel suo Martin, risente pure dei dettami del cinema americano
indipendente. Ma è da notare soprattutto il rigore morale con cui viene
affrontato il tema del vampirismo, intesa come frattura schizofrenica
della logica del quotidiano. Romero, attraverso la caratterizzazione del
personaggio del giovane Martin, fa letteralmente a pezzi il mito stesso
16
del vampiro, scardinandolo dall’interno, ossia riferendolo al moralismo
bottegaio e ipocrita.
Forse è necessario ricominciare proprio da Il Vampiro di Dreyer: esso è
come un paletto d’acciaio piantato nel cuore malato del cinema. Nessun
altro film prima e dopo Il Vampiro ha saputo comprendere sino in fondo
che l’ossessione del vampiro come incubo onirico e il linguaggio
necessario per esprimerlo appartengono ad un'unica fonte, ad una sola
mente visionaria.
La dimensione onirica
Il tempo infinito del vampiro è equivalente al tempo del sogno, al fluire
segreto delle immagini prive di un codice razionale. Poiché è la notte
l’unita spazio – temporale del vampiro, ogni sua azione, da esso
compiuta sullo schermo, risulterebbe proiezione delle fantasie notturne
dello spettatore, confermando metaforicamente la natura onirica delle
immagini cinematografiche. Se l’esistenza stessa di una figura come
quella del vampiro si identifica con la dimensione onirica, essa mette in
moto a sua volta meccanismi narrativi e percezioni visive che
rimandano al particolare climax dell’incubo notturno.
Se prescindiamo nell’analisi da un’opera come Il Vampiro di Carl
Theodor Dreyer che sceglie deliberatamente la dimensione del sogno
quale referente espressivo linguistico, dal Dracula di Browning in
avanti è il concetto di narrazione (cioè quell’insieme di codici legati alla
necessità di raccontare una storia sui quali domina l’idea di chiarezza) a
prendere il sopravvento su quello di frammentazione o di
sperimentazione. Con la produzione Hammer (Fisher, Ward Baker,
Francis) si giunge a un perfetto controllo delle emozioni, all’espressioni
delle fobie erotiche, tipiche della società vittoriana. Ma la vicenda di
Dracula può invece essere intesa come un incubo prolungato dei suoi
17
protagonisti, Jonathan Harker, Mina, Renfield e Van Helsing. L’incubo,
ovvero il punto di vista di ciascun personaggio, secondo l’accezione
dreyeriana. Si tratta di un incalzante gioco di riflessi ove ognuno vede
se stesso (chiara in tal senso la metafora del funerale in soggettiva) e
allo stesso tempo tutti gli altri.
Vediamoli ad uno ad uno: innanzitutto Jonathan che sogna che un
giorno gli verrà offerto un incarico straordinario che tanto significherà
nella sua carriera di avvocato e di agente immobiliare.
Dunque egli giunge al castello non come lo spirito di Joseph K. che da
principio pensa sia un luogo normale da cui subito venire escluso, ma
come colui che sogna di entrare nel sogno, anzi nell’incubo del conte
vampiro, creatura della sua immaginazione.
Renfield invece sogna di vendere un immobile fatiscente, addirittura
un’antica abbazia o una grande casa che nessuno vuole comprare, ad un
vampiro, ad un essere soprannaturale, e si innamora del suo sogno a tal
punto da diventarne schiavo.
A questo punto il sogno di Renfield e quello di Jonathan giungono di
fatto a coincidere dal momento che è lo stesso Harker a ricevere
dall’altro l’incarico di incontrare il vampiro.
Il sogno di Mina è un incubo apparentemente innocente; essa immagina
che una creatura dotata di una forza superiore si impadronisca della sua
anima tramite Jonathan, che, dopo aver incontrato il vampiro per ragioni
di dovere professionale, nel cade subito vittima.
Quanto a Van Helsing, il suo è un sogno di gloria: consacrare i suoi
studi scientifici all’incontro con l’essere soprannaturale che legittimi i
suoi sforzi di rendere visibile l’invisibile, plausibile l’impensabile
sopprimendolo infine in nome della ragione e del bene.