6
In seguito, gli antropologi, soprattutto statunitensi, hanno iniziato a spostare il
loro oggetto d’interesse anche verso le aree contadine e rurali che costituiscono le
culture “tradizionali” nei contesti occidentali. Probabilmente quest’ambito era
considerato facilmente circoscrivibile come campo di ricerca allo stesso modo di
un’etnia sudamericana o africana. Questo tipo di ricerche, come quello precedente, è
stato portato avanti facendo uso di tecniche e metodi che si sono perfezionate nel
tempo.
Nella terza delle fasi o la probabile ultima delle “rivoluzioni”, come le
definisce Stroppa, si sviluppa, circa 30 anni fa, la ricerca urbana. Questa fu dovuta
principalmente alla trasformazione delle società “tradizionali” e al movimento
migratorio verso le città, sia occidentali sia del Terzo mondo.
Il sorgere nella nostra società di problematiche legate all’urbanizzazione e alle
differenze etniche, ha fatto nascere l’esigenza di uno studio che ha utilizzato un
approccio diverso da quello della sociologia urbana.
Alla nascente sociologia urbana gli antropologi erano chiamati a
offrire essenzialmente due cose:
a) l’esperienza etnografica, le capacità descrittive, messe alla prova
attraverso il metodo partecipativo e raffinato nell’incontro con realtà minute
e dense di alterità [.];
b) “l’illuminazione del confronto”, la tradizione comparativa, per
lungo tempo asse portante del metodo antropologico (Alberto M. Sobrero, p.
19).
7
Tuttavia, l’interesse per questi ambiti non completano le potenzialità di questa
disciplina. Nell'ambito urbano, lo sguardo è comunemente stato rivolto verso quei
gruppi sociali definiti “subculture”, “sottoculture” o “controculture”
3
. Ricerche
concernenti gruppi facenti parte della stessa cultura “dominante”, per utilizzare una
terminologia cara a Gramsci, sono raramente effettuate dal punto di vista prettamente
antropologico. Il numero esiguo di queste ultime va forse ricercato nel fatto che
l'antropologia urbana è relativamente recente, soprattutto in Italia, oppure nella
semplicistica constatazione che ciò che è più vicino è già conosciuto ed infine,
collegato al precedente, che una ricerca antropologica debba necessariamente essere
effettuata in un ambito culturalmente “lontano”.
Furono quest’ultime considerazioni che contribuirono successivamente al mio
intento di svolgere una ricerca nella parrocchia di S. Monica ad Ostia, che già da
tempo frequentavo. Il mio interesse personale nell’affrontare spesso argomenti legati
a problematiche religiose, aveva spinto una mia amica a farmi partecipare a degli
incontri parrocchiali tra ragazzi su queste tematiche.
Fermo restando un carattere d’amicizia che mi ha poi legato con alcuni dei
ragazzi della parrocchia, potrei suddividere la mia permanenza a S.Monica in tre fasi,
ognuna legata al mio modo di rapportarmi con loro.
3
Ricerche concernenti questi ambiti riguardano una vastissima gamma di soggetti:
immigrazione, tossicodipendenza, prostituzione, carcerati e gruppi giovanili “devianti”
(centri sociali, punk, hip-hop, ecc.)
8
La prima fase, che arriva fino agli inizi dei miei studi antropologici, dall’85
all’89, è caratterizzata da una forte contrapposizione. Io ero l’elemento di disturbo
nella sostanziale tranquillità dialettica; le mie forti critiche al loro modo di pensare,
mi ponevano in primo piano ed ero ricercato e temuto allo stesso tempo; il
considerarmi dalla parte della ragione, in tutti i sensi, rendeva i miei interventi
aggressivi e poco costruttivi
4
.
Nella seconda fase, dal ’90 al ’97, l’approfondimento degli studi antropologici
e una maggiore frequenza alle attività parrocchiali, mi portarono ad avere nei
confronti dei parrocchiani un rispetto di tipo “relativistico”. Pur separati da grandi
differenze, potevo scambiare le mie opinioni con loro senza tentare di “convertirli” o
considerarli irrazionali.
L’ultima fase, che va dal ’98 ad oggi, ha portato alla stesura di questa tesi.
L’ulteriore approfondimento degli studi in senso generale, mi ha portato a distinguere
nei giovani, tra le idee personali (credere in Dio o alle direttive della Chiesa,
condannare l’aborto, la contraccezione o l’eutanasia, ecc.) e le sue implicazioni
storiche e sociali. Nel secondo caso, la mia critica è tornata ad essere forte e questa
ricerca vuole anche essere un ulteriore stimolo di riflessione per tutti coloro che
hanno frequentato la parrocchia.
Ogni ricerca, sia in ambito etnologico sia nella cosiddetta società complessa, si
svolge in una situazione irripetibile cui il ricercatore deve, naturalmente, far
riferimento. La ricerca da me portata avanti nella parrocchia di S. Monica ha dovuto
4
Naturalmente anche dalla parte opposta c’era la stessa presunzione di verità.
9
tenere conto, proprio in base al fatto che il luogo è una parrocchia, dei ritmi di questa.
Nonostante abbia partecipato a molti gruppi, il tempo trascorso a contatto della realtà
parrocchiale è relativamente poco rispetto a quello trascorso per la durata della
ricerca. Le attività parrocchiali cui farò riferimento, si svolgono prevalentemente il
sabato e la domenica, ma altri incontri avvengono anche negli altri giorni della
settimana. Inoltre, queste attività non prendono che una parte della giornata. Tutto ciò
per ritornare sulla validità di una ricerca effettuata in un ambito in cui il ricercatore,
non ha quella prossimità presente nelle ricerche etnologiche. In queste ultime il
ricercatore, una volta giunto a destinazione, si trova a contatto con l’oggetto di studio
per un lungo periodo senza interruzioni; per me si trattava di spostarmi giornalmente
per andare in parrocchia secondo le attività che vi si sarebbero svolte, mentre nel
resto del tempo i “soggetti” svolgevano altre attività in luoghi diversi.
Preferisco, in ogni caso, chiamare questo tipo di ricerca “antropologia in
ambito urbano”, perché evidenzia il fatto che essa si svolge in un contesto da cui è
influenzata solo in parte; il campo invece, unito alle caratteristiche personali del
ricercatore, determina il tipo d’approccio nei confronti dell’oggetto di ricerca.
10
PARTE 1° - La ricerca in antropologia urbana
a) La scuola di Chicago.
Parlare della scuola di Chicago è far riferimento al pensiero di Robert Park. I
trascorsi giornalistici, la sua conoscenza della letteratura di varie correnti europee e
l’aver seguito le conferenze di Simmel, ne fanno un buon conoscitore dell’ambiente
urbano. Nel 1915, dopo due anni dal suo arrivo all’Università di Chicago, introdotto
da William Thomas, Park scrisse quello che è considerato il suo più famoso articolo
La città: indicazioni per lo studio del comportamento umano nell’ambiente urbano,
che costituisce una sorta di battesimo dell’antropologia urbana.
11
Finora la scienza dell’uomo si è principalmente occupata dello studio
dei popoli primitivi, ma l’uomo civile è un oggetto d’indagine altrettanto
interessante, e allo stesso tempo la sua vita è più aperta all’osservazione e
allo studio. [.] Gli stessi metodi accurati di osservazione, che antropologi
come Boas e Lowie hanno adoperato per lo studio degli Indiani
dell’America Settentrionale, possono essere impiegati ancora più
vantaggiosamente nello studio dei costumi, delle credenze, delle pratiche
sociali e delle concezioni generali della vita che prevalgono a Little Italy
nella parte bassa del North Side a Chicago, o nella registrazione delle
concezioni più sofisticate degli abitanti del Greenwich Village o del vicinato
di Washington Square a New York (Park, 1967, p. 578).
Un’affermazione di questo genere ha i suoi presupposti nel peculiare sviluppo
di Chicago, a cavallo degli ultimi due secoli, contraddistinto da una forte
immigrazione, in pochi decenni il 50% della popolazione era costituita da immigrati,
e quindi dal sorgere di problematiche legate a questa forte e continua immigrazione e
conseguente eterogeneità etnica. Era quindi “naturale” l’esigenza di analizzare le
dinamiche interne alla propria cultura e di applicarvi quelli che erano considerati i
migliori strumenti a disposizione; migliori perché ciò che sarebbe stato oggetto di
studio era concettualmente paragonato alle popolazioni indigene americane. Si
trattava sempre, in altre parole, di culture “altre” interne alla propria.
L’ecologia umana è la prospettiva teorica con cui si voleva studiare il rapporto
tra l’uomo e l’ambiente, di cui la città rappresenta uno dei casi possibili. È nella città
che avviene in misura maggiore la lotta per l’esistenza. Questa prospettiva, infatti,
12
faceva anche riferimento all’analogia tra la distribuzione spaziale delle piante e
l’ordine spaziale della città; come le piante, le persone sono protagoniste di fenomeni
di dominanza, simbiosi e successione. La città è vista anche come l’ultimo passo
compiuto per allontanarsi dal modello rurale, la logica conseguenza del progresso
civile in contrapposizione alla visione antiurbanistica europea che considera la città il
ricettacolo della povertà e dell’alienazione.
Demographers have shown us that for many people the movement of
population from east to west was a movement from one city to another, and
it was accompained by a simultaneous movement, throughout the nation,
from country to city. When the Republic was founded, roughly 9 out of 10
Americans lived in a rural environment; by now, that fraction is less than 3
out of 10. In this view of the past, we are a city building, city-dwelling
people, and so it would seem reasonable to expect our high culture to
“reflect” that ostensible preference for an urban way of life (L. Marx, in
Rodwin-Hollister, 1984, p. 165)
L’area naturale è il concetto utilizzato per analizzare l’ambiente urbano, visto
soprattutto come il luogo della competizione per l’appropriazione degli spazi più
vantaggiosi che scaturisce da processi economici. Ciò determinerebbe la formazione
spontanea (appunto naturale) di spazi omogenei in senso culturale, economico ed
etnico. Il diagramma di Burgess a cerchi concentrici è il risultato visualizzato di
13
quest’impostazione
5
. Man mano che si procede dal centro alla periferia, ci si sposta
dalla zona degli affari a quella di transizione, seguito poi dalla zona delle abitazioni
operaie e quella residenziale, per finire con la zona dei lavoratori pendolari. Ogni
cerchio è suddiviso schematicamente in ulteriori zone che costituiscono le aree
naturali in cui si trovano, tra gli altri, gli spazi occupati dai gruppi etnici, dalla
malavita o dai quartieri alti.
Questo tipo d’impostazione è stato applicato in varie ricerche dai sociologi di
Chicago, ma il suo limite è proprio la sua specificità. Non tutte le città hanno una
marcata differenziazione tra residenza e lavoro, una massiccia immigrazione
proveniente dall’Europa e, tanto meno, le stesse caratteristiche fisiche.
L’idea di area naturale, e dietro a questa quella di storia naturale, per
esempio, sollecita la critica radicale di una visione “naturalistica” della
società, che sconta come necessari e universali processi che sono in realtà
storici e sociali (Hannerz, 1992, p. 23).
Alcune ricerche
6
prodotte a Chicago costituiscono, ad ogni modo, delle valide
etnografie perché fanno uso di metodologie prossime a quelle antropologiche:
inchieste e osservazione in loco, interviste informali, storie di vita. Consideriamole
brevemente.
5
Hannerz, 1992, p. 107.
6
Le più importanti sono: N. Anderson, The Hobo, 1923; F.M. Thrasher, The Gang, 1927; L.
Wirth, The Ghetto, 1928; H.W. Zorbaugh, The Gold Coast and the Slum, 1929; P.G. Cressey, The Taxi-
Dance Hall, 1929.
14
The Hobo, lo studio di Nels Anderson sui vagabondi, oltre ad essere il primo
pubblicato dalla scuola di Chicago, costituisce un’eccezione metodologica nel
panorama di questa disciplina. Il suo autore, infatti, essendo stato lui stesso un
vagabondo, fa un uso inconsapevole dell’osservazione partecipante
7
(qui si potrebbe
parlare anche di “partecipazione osservante”, questa trasposizione di termini è
giustificata dal fatto che Anderson ha prima vissuto come loro e poi portato avanti lo
studio su di loro). Non a caso la ricchezza etnografica è notevole in questo lavoro;
infatti, c’è un’ampia classificazione terminologica per differenziare la tipologia del
vagabondo ed una buona descrizione delle loro condizioni sociali.
Con The Gang, di Frederic M. Thrasher, la generalizzazione assume carattere
dominante. Nonostante la gran quantità di dati, il tentativo di studiare 1313 bande è
oltremodo ambizioso; inoltre, questi non erano caratterizzati da una sistematicità di
raccoglimento e ciò rendeva impossibile un loro trattamento comparativo.
La monografia di Louis Wirth, The Ghetto, si discosta dai lavori finora
menzionati per una maggiore attinenza con il pensiero ecologico. Parametro
preminente della ricerca è la residenza che caratterizza l’appartenenza alla comunità
ebraica per ogni individuo; non sembra esserci possibilità alcuna di sfuggire alla
connotazione culturale di quest’area naturale. Uscendone, assimilerà una nuova
identità, seppur attraverso un lungo processo che lo vede dapprima in una “terra di
nessuno”.
7
La pubblicazione di The Argonauts of Western Pacific di Bronislaw Malinowski, in cui viene
per la prima volta utilizzato quel metodo di reperimento dei dati, è del 1922.
15
Differente è la ricerca di Harvey W. Zorbaugh, The Gold Coast and the Slum,
che tratta di ben sei aree naturali, abitate da individui che vanno dalle classi più alte ai
meno abbienti. I pregi di questo lavoro sono da trovarsi nell’ampiezza della sua
visione e nel contenere anche una parte dedicata, una delle poche eccezioni, alla zona
abitata dalla classe “dominante”. Uno dei difetti è l’altra faccia di un suo pregio: una
ricerca con un settore così ampio non poteva che perdere in profondità d’analisi;
manca, inoltre, una visione dall’interno e non dà spazio sufficiente alle relazioni tra le
sei aree.
L’ultimo lavoro che prenderemo brevemente in considerazione appartiene a
Paul G. Cressey, The taxi-Dance Hall, che potrebbe essere visto come il suo tentativo
di considerare il mondo dei locali da ballo, dove le ragazze erano “affittate” dai
clienti, come autonomo.
Un mondo distinto, con un suo modo di agire, di parlare e di pensare.
Un mondo che ha un suo vocabolario, sue attività, suoi interessi e una sua
concezione di ciò che è significativo nella vita e, in una certa misura, suoi
progetti di vita (Cressey, 1963, p. 31).
La difficoltà nel riuscire in quest’operazione fu dovuta
all’impossibilità di sistematizzare uno dei gruppi che ne faceva parte, oltre a
quello dei proprietari e delle ragazze: i clienti; ciò era dovuto alla loro
diversificazione etnica e sociale (Hannerz, 1992, p.).
16
Il limite più grande che queste ricerche hanno, però, è da imputarsi alla scarsa
attenzione dedicata allo sviluppo teorico relativo alla relazione processuale fra i
diversi segmenti della società.
Il fatto che i ricercatori di Chicago non siano andati oltre, anche se le
circostanze potevano sembrare favorevoli, si comprende se si considera la
generale debolezza, negli studi sui gruppi, dell’analisi dell’organizzazione
sociale, i cui sviluppi sono rimasti indietro a quelli dell’ecologia e della
psicologia sociale. L’interazione fra l’etnografia e lo sviluppo concettuale
non ha mai funzionato realmente bene. I contributi etnografici della scuola
di Chicago sono stati talvolta descritti come “puro giornalismo”, con
riferimento esplicito o implicito al passato di Park (Hannerz, 1992, p. 143).
Con l’articolo di Wirth del 1938, Urbanism as a Way of Life, c’è un evidente
salto di livello. L’oggetto in esame non è più un’area all’interno della città, vista
come un’unità omogenea in cui gli individui cercano di evitare la disgregazione con
meccanismi d’autoidentificazione, o un certo settore della popolazione, ma lo stesso
spazio urbano. Le variabili che, per Wirth, caratterizzano la città sono: la dimensione,
la densità e l’eterogeneità.
Nell’analisi, la città è un sistema chiuso che tende a plasmare uniformemente
tutti i suoi abitanti; anzi, per estensione, il mondo tende a diventare un unico
ambiente urbano. Inoltre, essa tende ad influenzare l’ambiente circostante in modo
unilaterale.
17
L’analisi di Wirth cade nello stesso errore d’impostazione della scuola di
Chicago: aver considerato questa come il metro per uno studio della città, senza
prendere molto in considerazione le peculiarità della sua crescita urbanistica. Ciò
comporta un limite alla sua applicabilità in altre situazioni, limite accentuato dalla sua
scarsa produzione teorica.
Nels Anderson, nella nuova prefazione a una riedizione di The Hobo,
ha ricordato che il consiglio più importante avuto da Park è stato: “annota
soltanto ciò che vedi, ciò che senti e ciò che sai, come un cronista”, e che al
momento di scrivere il suo famoso libro le conoscenze empiriche furono di
gran lunga più importanti dell’elaborazione teorica (Hannerz, 1992, p. 143).
b) Il Rhodes-Livingstone Institute e la scuola di Manchester.
Di gran lunga più importanti, rispetto a quelli della scuola di Chicago, sono gli
studi annoverati all’interno della cosiddetta scuola di Manchester. In questo caso, lo
spessore teorico è di tutto rispetto. Concetti quali la rete ed il campo sociale hanno
dato notevoli contributi alla ricerca in ambito urbano.
La genesi di quest’indirizzo di studi fu dovuta alla forte crescita urbana che si
verificò in modo significativo a partire dal secondo dopoguerra nelle colonie inglesi
dell’Africa centrale. Il social change era l’argomento principale di questi studi che
18
portarono i ricercatori delle colonie a scontrarsi con una realtà non riconducibile alle
classiche categorie d’analisi.
L’alto tasso d’urbanizzazione nell’area mineraria della Copperbelt, unita ad
una forte presenza d’individui occupati nell’agricoltura, comportò la riesamina del
concetto di città.
Si può definire città un luogo in cui, pur abitandovi decine di
migliaia di persone, queste lavorano la terra? (Hannerz, 1992, p. 234).
In un primo tempo, si pensò di studiare il fenomeno dell'urbanizzazione
africana applicandogli i medesimi principi considerati validi per le città europee:
crescita demografica e spopolamento delle campagne a favore delle città; sviluppo
dell’apparato produttivo e successiva riduzione generale degli indici
d’urbanizzazione. Tutto ciò però non avvenne in Africa. Le campagne non si
spopolarono, non ci fu un analogo incremento produttivo e l’indice d’urbanizzazione
si mantenne elevato.
Inoltre si era convinti che gli immigrati, in seguito all’allontanamento dalla
loro tribù, perdessero, con un lungo ma continuo processo, l’adesione agli usi e
costumi tradizionali e si adeguassero al nuovo stile di vita urbano. Questa
“detribalizzazione” non avvenne in modo così netto e totale; infatti, gli
amministratori dovettero costatare che nelle situazioni di contrasto interne agli
19
immigrati le differenze tribali emergevano, mentre se la controparte era esterna c’era
una sostanziale unità d’intenti.
Si deve alla direzione del Rhodes-Livingstone Institute da parte di Max
Gluckman (1940-7), l’impulso alle ricerche nell’Africa centrale. Questo proseguì
anche dopo il suo trasferimento all’Università di Manchester, tanto che si formò un
connubio tra le due istituzioni che si protrasse per quasi due decenni.
Dal punto di vista metodologico ci fu un notevole cambiamento di prospettiva
rispetto all’antropologia classica sviluppatasi in Gran Bretagna. Questa era dominata
dal funzionalismo che considerava le società come sistemi naturali e rifiutava la
storia in quanto priva di rilevanza scientifica.
Gluckman e altri autori come lui, iniziarono a porre in maggior rilievo la
problematica del conflitto, piuttosto che dell’equilibrio, all’interno della vita sociale.
Quest’ultimo era considerato la condizione naturale della società e qualunque
elemento che portasse alla rottura di questa era vista come una devianza e come tale,
esterna al sistema. Inoltre, essi fecero ampio uso degli studi di caso, vale a dire di una
particolare situazione che fungesse da strumento per illustrare i diversi elementi che
compongono un ordine sociale complesso.