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popolo per molti versi sui generis, sentito da sempre come “nemico”, ostile se non addirit-
tura come incarnazione di tutto ciò che è male, di un male così radicale da essere definito
come agente di una potenza demoniaca capace di mettere seriamente in pericolo e di di-
struggere le basi dell’ordine morale e della civiltà occidentale cristiana.
Dalle accuse medioevali rivolte al popolo deicida fino alla rivoluzione nazionalsocialista
che inaugura l’antisemitismo razziale e biologico la costruzione sociale dell’ebreo nemico,
si nutre di argomenti propagandistici, pseudoscientifici, nondimeno rinforzata da provve-
dimenti legali ed amministrativi, che “marchiavano a fuoco” la presunta perniciosità e peri-
colosità di una minoranza colpevole di non essersi mai veramente integrata nel paese o-
spitante.
La caccia all’uomo era iniziata.
Ciò che caratterizza la Shoah e che ne fa un evento unico è, a nostro giudizio, la freddez-
za scientifica con cui è stato condotto il genocidio. Freddezza, efficienza ed organizzazio-
ne: le vittime sono numerate, schedate, ordinatamente suddivise. Domina su tutto una
chiara e sicura coscienza professionale: i nazisti dal più alto ufficiale delle SS alla più insi-
gnificante sentinella del lager erano persone che lavoravano con grande spirito di abnega-
zione, facevano più del loro dovere ed avevano ampi margini di libertà per esercitare il po-
tere e la violenza, uccidendo in modo pulito.
Si costruirono, allora, i lager, sottosistemi sociali autonomi ai confini della società civile, in
cui dominava il potere assoluto, che instaurava nuove pratiche di “socializzazione” e di
“desocializzazione” forzata degli individui, dove il tempo e lo spazio divennero altrettanti
strumenti di violenza, che destabilizzavano non solo lo spazio strettamente fisico dei corpi,
ma anche le strutture temporali interne, in primo luogo, la coscienza e la memoria.
Un’organizzazione totalizzante che mirava a distruggere ogni residua umanità delle sue
vittime attraverso un violento processo di reificazione, per poter meglio sfruttarle con il la-
voro, lo sfinimento, la fame, le malattie e gli inutili esperimenti scientifici quasi sempre mor-
3
tali. Paradigmatica è, a tal proposito, la figura scheletrita del “mussulmano”, un uomo ridot-
to all’ombra di se stesso, senza più dignità, senza alcun riflesso d’umanità, un essere a-
bietto a metà tra la vita e la morte. Un non-uomo, “una presenza senza volto”
3
.
In questo universo di solitudine e di terrore il corpo degli internati sviluppava una memoria
corporea della violenza, che lasciava il proprio stigma indelebile, la propria traccia nella
carne viva e che non potrà mai più essere dimenticata.
Alla luce della visione biomedica nazista abbiamo potuto costatare come i programmi di
“sterilizzazione coatta” ed il programma “eutanasia”, avviati dal regime nazista rispettiva-
mente nel 1933 e nel 1938-39 costituiscano, per molti versi, delle “prove generali” per la
realizzazione della “soluzione finale” del problema ebraico. Infatti, i malati di mente, i disa-
bili gravi e non, erano concepiti come veri e propri “minorati biologici”, che minacciavano
l’igiene organica del popolo tedesco, erano “bocche inutili” da sfamare e, nella peggiore
delle ipotesi, focolai di contaminazione della razza ariana.
Il genocidio, quindi, si presentava come la soluzione ad un timore collettivo di “contamina-
zione” sentito non solo da Hitler in persona, ma anche dall’intero popolo tedesco.
Secondo l’antropologa Mary Douglas la preoccupazione per la contaminazione, sia magi-
ca o religiosa, ha attinenza con i sistemi simbolici che si occupano del “rapporto dell’ordine
col disordine, dell’essere col non essere, della forma con l’informe, della vita con la mor-
te”
4
. Infatti, nei rituali di purificazione primitivi contro la contaminazione, “l’impurità o spor-
cizia è ciò che dev’essere escluso se si deve mantenere un modello” e perciò “come al
centro di ogni simbolismo di contaminazione c’è il corpo, così il problema finale cui la pro-
spettiva della contaminazione conduce è la disintegrazione corporea.”
5
Le camere a gas, ed in particolare, i forni crematori costituirono gli strumenti tecnologica-
mente programmati per uccidere, ma soprattutto per cancellare definitivamente col fuoco
ciò che faceva più paura, “i prodotti di scarto” del ciclo produttivo del lager, i corpi delle vit-
time deturpati, in decomposizione, di per sé abietti, ma che, agli occhi dei nazisti, erano
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doppiamente impuri perché erano i corpi degli ebrei, degli zingari e di tutti quelli che, in
qualche modo, erano stati considerati non degni di esistere.
Nonostante la distruzione dei crematori (strumenti sofisticati al servizio dell’oblio) e delle
innumerevoli prove da parte dei nazisti in fuga per l’arrivo dell’Armata rossa e degli Alleati,
la memoria di coloro che non sono più continua a rivivere nei ricordi dolorosi dei soprav-
vissuti, sulla loro pelle trapunta con le cifre del loro “nome” che bruciano come il giorno
stesso in cui sono state fatte; la memoria rivive nei lager divenuti siti museali di grande in-
teresse culturale e meta di “pellegrinaggi della memoria”, rivive nelle istituzioni e nelle as-
sociazioni degli ex- deportati e dei partigiani italiani fino ad essere ritenuta un vero e pro-
prio “dovere”civile cui corrispondono cerimonie pubbliche da inserire nell’agenda istituzio-
nale del nostro paese con la legge istitutiva del “Giorno della memoria”, la legge 211/2000,
che indica come data il 27 gennaio in ricordo dell’arrivo nel lager di Auschwitz di una divi-
sione dell’Armata rossa nel 1945.
“Ogni uomo civile – scrive Primo Levi – è tenuto a sapere che Auschwitz è esistito, e che
cosa vi è stato perpetrato: se comprendere è impossibile, conoscere è necessario.”
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Nel mondo si costruiscono monumenti per non dimenticare le vittime della Shoah, non so-
lo il museo israeliano “Yad Vashem” a Gerusalemme, ma anche in Germania, dove il sen-
so di colpa per gli errori del passato costituisce ancora una ferita aperta e difficile da ri-
marginare per l’opinione pubblica come per le istituzioni democratiche; il passato nazista
sembra essere divenuto un elemento della ragion di stato tanto che l’agenda urbanistica
tedesca è densa di musei e monumenti da realizzare.
Basta pensare alla recente inaugurazione del “Museo ebraico” a Berlino progettato
dall’architetto americano Daniel Libeskind e alla costruzione, ancora in corso, sempre a
Berlino, del “Memoriale alle vittime della Shoah” ideato da un altro architetto americano
Peter Eisenman, che sorgerà a due passi dalla Porta di Brandeburgo, dove fino al 1989 si
snodava il Muro. Ma accanto al “dovere di memoria”, strategicamente importante risulta “il
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dovere di oblio”, perché potere selettivo della memoria che permette di ricordare quanto
basta per continuare a vivere. L’antropologo francese Marc Augé nel suo libro, Le forme
dell’oblio, indica delle linee guida per un buon “uso del tempo”, che si manifesta proprio
nel far buon “uso dell’oblio”, grazie al quale è possibile riscoprire il gusto dell’attimo pre-
sente e dell’attesa, recuperare la dimensione remota del passato a scapito di quella recen-
te. Il “dovere di oblio” diventa per gli ebrei, in particolare per i sopravvissuti allo sterminio
nazista, un’occasione strategica per sopravvivere ad un doloroso passato che è sempre
pronto a ritornare prepotentemente nella loro esperienza per destabilizzare la loro indivi-
dualità, l’indentità ed il loro rapporto con la vita quotidiana.
“È perfettamente chiaro –scrive Augé- che i sopravvissuti all’Olocausto o all’orrore dei
campi di sterminio non hanno bisogno di essere richiamati al dovere della memoria.
Il loro dovere è…al contrario, quello di sopravvivere alla memoria, di sfuggire, per quanto li
riguardava, all’incessante presenza di un’esperienza incomunicabile. […] chi non è stato
vittima dell’orrore, non può neanche immaginarselo, nonostante tutta la buona volontà e la
pietà; ma anche…chi l’ha subito, se vuole rivivere e non soltanto sopravvivere, deve poter
fare spazio all’oblio, inebetire, in senso pascaliano, per ritrovare la fede nella quotidianità e
il dominio del proprio tempo.”
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Perciò i testimoni della Shoah non hanno bisogno di essere
richiamati al “dovere di memoria”, ma possono essere invitati a lasciare che l’oblio lambi-
sca i loro ricordi per continuare a vivere, riappropriarsi della dimensione presente della vita
e coltivare con coraggio e dignità un atteggiamento critico capace di operare una possibile
mediazione fra il passato (Auschwitz) ed il futuro (la contemporaneità), in modo da indivi-
duare una nuova configurazione identitaria aperta alla sfida della postmodernità.
La nostra analisi si è poi sviluppata intorno al concetto goffmaniano di rappresentazione
che ci ha permesso di guardare in particolare all’attività svolta dai medici nazisti come ad
una vera e propria messa in scena della loro funzione medica, una drammatizzazione del-
le loro “performance mediche” altamente funzionale al loro status professionale e
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all’ecologia del lager. Esse prevedevano una particolare cura che si estendeva dalla pre-
parazione della “facciata” dei medici-attori all’allestimento scenico, dal coinvolgimento di
più attori insieme alla partecipazione obbligatoria degli stessi prigionieri in qualità di pub-
blico e vittime dello spettacolo. Infine la nostra attenzione si è rivolta al problema
dell’impossibilità della rappresentazione della Shoah, un problema che riguarda in primo
luogo il modello di rappresentazione inaugurato dai lager. Seguendo le riflessioni di un
grande filosofo contemporaneo come Jean-Luc Nancy abbiamo costatato come questo ti-
po di rappresentazione sia caratterizzato dalla iper-realtà, che nasce dalla contrapposizio-
ne di due categorie umane irriducibili tra loro: l’ariano e l’ebreo, dove l’ariano non è unica-
mente colui che rappresenta la tipologia umana più perfetta, ma è il rappresentante di una
umanità superiore creatrice di sé, in contrapposizione alla non-umanità dell’ebreo, privo di
un volto umano e di uno spazio vitale di rappresentazione.
Il trionfo dell’ariano si compie poi attraverso la supremazia dello sguardo, che, incontrando
la negazione del non-sguardo di milioni di morti, il fumo dei crematori che si innalza verso
il cielo o le loro ceneri, sperimenta l’imperdibile occasione di immergersi nel non-sguardo
della morte, di ciò che si sottrae alla possibilità di essere rappresentato.
La rappresentazione della Shoah e dell’orrore dei campi è da considerarsi come possibile
e doverosa e pertanto il problema si sposta dal campo della possibilità a quello della mora-
lità dello sguardo cinematografico, che è in definitiva quello dell’arte, chiamata a salva-
guardare la verità storica senza rinunciare alle sue possibilità tecniche ed espressive.
Infine, l’avventurosa storia delle quattro fotografie strappate all’inferno di Auschwitz da un
membro sconosciuto del Sonderkommando in un giorno dell’agosto 1944, che ritraggono
le operazioni di cremazione all’aperto e di gassaggio di un gruppo di donne avviate al ca-
mera a gas, costituiscono una chiara confutazione non solo dell’irrapresentabilità
dello sterminio, ma anche della ferma volontà nazista di una distruzione senza resto, volta
7
a negare l’esistenza di Auschwitz nella storia umana e a condannare per sempre
all’incredulità la testimonianza dei sopravvissuti.
Dalle potenzialità tecniche dell’immagine fotografica, legata alla memoria, e perciò capace
di una “potenza epidemica” di diffusione, abbiamo fatto nostra la riflessione di Georges Di-
di-Hubermann sull’importanza che queste immagini ancora possono avere per il nostro
sguardo d’oggi, non solo per la condizione d’estrema pericolosità oltre che di grande co-
raggio che le ha rese possibili, ma anche perché, nonostante la loro fragilità dovuta
all’imprecisione dello scatto, sono “tutto ciò di cui disponiamo” per continuare ad immagi-
nare Auschwitz ed in definitiva la Shoah.
“L’immagine autentica del passato, scrive Walter Benjamin, non appare che nel lampo” ,
perciò le quattro fotografie costituiscono dei “frammenti di verità”, degli istanti di un giorno
dell’agosto 1944, istanti catturati per sempre nel brevissimo tempo del lampo, che li ha
trasformati in storia per offrirli unicamente al nostro sguardo.
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Capitolo I
L’Ebreo: il nemico, l’abietto, il metamorfico
Le radici dell’odio
Nel cuore dell’Europa medioevale l’antigiudaismo cristiano con l’accusa di deicidio gettò i
primi germi dell’odio antisemita:
“Identificandoli con il male, bollandoli come violatori della sacralità e oppositori del bene assolu-
to…[l’antisemitismo] li demonizza, insediandoli, sul piano linguistico, metaforico e simbolico, nella
vita degli antisemiti. Gli ebrei non vengono soltanto valutati secondo i principi e le norme morali di
quella cultura, ma divengono costitutivi dell’ordine morale stesso e degli elementi cognitivi fonda-
mentali che delineano il campo del sociale e dell’etico […]. Integrati dai non ebrei nell’ordine mora-
le e dunque nella struttura simbolica e cognitiva di base della società, questi modi di concepire gli
ebrei assumono livelli di significato sempre più vasti, crescendo di continuo in coerenza e solidità
strutturale. Molti aspetti del bene vengono definendosi in contrapposizione agli ebrei […].
Per i non ebrei diventa difficile modificare la propria percezione degli ebrei senza modificare anche
una struttura simbolica ampia e integrata che comprende importanti modelli cognitivi, sui quali
poggia la loro idea della società e della morale; diventa difficile non vedere in qualsiasi azione degli
ebrei, nella loro stessa esistenza, un atto di dissacrante profanazione.”
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La chiesa medioevale, secondo D. J. Goldhagen, sicura del controllo teologico e pratico
che esercitava sulle potenze d’Europa, coltivava nondimeno aspirazioni totalitarie e gli e-
brei ricoprivano per questo una posizione profondamente antitetica rispetto alla cristiani-
tà.“[…] Nel XIII secolo l’ebreo divenne sinonimo del diavolo. Grazie al controllo assoluto
che esercitava sulla cosmologia e sulla morale in Europa, la chiesa diffuse tale ideale per
mezzo dei suoi portavoce i vescovi, e soprattutto i parroci, creando una concezione uni-
versale, paneuropea, in cui gli ebrei, creature del demonio, finiscono per non far più parte
nemmeno dell’umanità.”
9
Inoltre, ad aumentare il disprezzo e l’odio verso gli ebrei si ag-
giungevano i pregiudizi non sempre frutto di una conoscenza reale del popolo ebraico.
“L’odio per gli ebrei nell’Europa medioevale era tanto intenso, e tanto avulso dalla realtà,
che ogni disastrosa evenienza poteva essere imputata al loro maligno operato. Gli ebrei
rappresentavano tutto ciò che era discorde: di fronte ad una calamità naturale o sociale si
reagiva automaticamente ricordandone la presunta origine ebraica.”
10
9
“Fu quasi inevitabile -sostiene D. J. Goldhagen citando Jeremy Cohen- che la colpa della
Peste nera ricadesse sugli ebrei, e molte delle comunità in Germania furono stermina-
te…Nel Medioevo le aggressioni e le espulsioni degli ebrei erano all’ordine del giorno, tan-
to che alla metà del Cinquecento i cristiani potevano dire di averli cacciati con la forza da
buona parte dell’Europa occidentale.”
11
La logica dell’antisemitismo cristiano premoderno fa luce però sulla sostanziale non volon-
tà di sterminio degli ebrei da parte della chiesa, che “sensibile alla comune origine del cri-
stianesimo e dell’ebraismo, riconosceva loro il diritto di vivere e praticare la religione, pur
condannandoli a una condizione degradata come punizione per aver rifiutato Gesù.”
12
Da allora la storia di questo popolo ha conosciuto innumerevoli massacri, basta pensare
alle Crociate, alla cacciata degli ebrei dalla Spagna nel XV, i roghi di innocenti e dei loro
libri di preghiera, legislazioni restrittive, chiusura nei ghetti, istituiti nel 1555 da Paolo IV,
discriminazioni, processi, conversioni forzate, tutti atti accompagnati da una permanente
predicazione che li accusava di essere la causa della loro stessa dannazione.
“Nel XVIII secolo la condizione degli ebrei europei fu sottoposta a un accentuato processo di diva-
ricazione: sull’Europa occidentale, un ristretto numero di ebrei riuscì a inserirsi più intensamente
nella società e nella cultura dominanti; di contro, la situazione in cui si trovava la maggioranza del-
la popolazione ebraica continuò a essere contraddistinta da una pesante discriminazione.
Nell’Europa orientale le vicende politiche di quel secolo fecero sì che vaste aree della Polonia, abi-
tate da un numero assai consistente di ebrei, passassero sotto il dominio russo.
Ciò comportò un sensibile peggioramento della loro situazione.”
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Ma per gli ebrei l’ingresso nella modernità coincise con l’epoca dell’emancipazione, che,
iniziata durante la Rivoluzione francese, li riconobbe come individui soggetti di diritto.
Venne loro concesso il pieno esercizio dei diritti civili, ma fu negato loro qualunque partico-
lare riconoscimento come gruppo. Secondo il biblista Piero Stefani: “ciò segnò un vero e
proprio rovesciamento della situazione precedente, in cui gli ebrei erano ritenuti tali in
quanto costituivano una collettività. […] le comunità ebraiche, per quanto spesso discrimi-
nate e non raramente perseguitate, godevano, di norma, di una relativa autonomia, rifles-
10
sa dall’adozione di usi e costumi specifici. Una tale condizione rendeva immediatamente
percepibile la differenza che distingueva un ebreo dagli altri membri della società.”
14
Infatti, “nel XVIII secolo la spinta verso l’inserimento delle élite ebraiche nella società occi-
dentale non arrivò mai al raggiungimento della completa parità con gli altri sudditi.”
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Complici le due grandi rivoluzioni di fine secolo, quella francese e quella americana, la
Francia e gli Stati Uniti furono i primi paesi nei quali gli ebrei conseguirono l’uguaglianza e
la cittadinanza. In Francia nel 1789 toccò agli ebrei di Bordeaux e di Avignone, nel 1791 a
quelli dell’Alsazia e della Lorena. “Nel dibattito, ci ricorda P. Stefani, svoltosi in
quell’occasione alla Convenzione, il conte Clermont -Tonnerre pronunciò una frase assur-
ta a simbolo…di queste prime emancipazioni: “Tutto va rifiutato agli ebrei come nazione,
tutto va loro garantito come individui.” In tal modo non veniva riconosciuta, in linea di prin-
cipio, alcuna identità collettiva ebraica.”
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“Nell’età della Restaurazione la condizione ebraica tornò per lo più, a essere quella dell’antico re-
gime e in vari luoghi si ricostruirono i ghetti. Furono soprattutto le rivoluzioni del 1848, cui gli ebrei
diedero un contributo assai significativo a portare prepotentemente alla ribalta la questione della
loro emancipazione. In tal modo in Piemonte, lo Statuto albertino che, dal 1861, sarebbe valso per
l’intero regno d’Italia, concesse la cittadinanza agli ebrei ed analogamente l’emancipazione, con-
seguita in Prussia nel’48, fu estesa a tutta la Germania nel 1871 all’atto della proclamazione del
Reich. In Inghilterra le restrinzioni caddero gradualmente, ad esempio l’accesso degli ebrei al par-
lamento fu consentito nel 1858, mentre la loro ammissione all’università avvenne solo nel 1871.
Per la caduta definitiva di ogni forma di discriminazione si sarebbe dovuto però attendere addirittu-
ra il 1890.”
17
La condizione degli ebrei dell’Europa orientale, la maggior parte dei quali si trovava sotto il
dominio russo non era delle più felici
18
.
A questo stesso periodo risale la stesura da parte della polizia segreta russa di un testo
conosciuto col titolo “Protocolli degli anziani di Sion”
19
: questo falso privo di autore soste-
neva la tesi di una congiura ebraica mondiale ed avrebbe goduto in seguito di una triste
notorietà nell’ambito dell’antisemitismo nazista. Nell’Europa moderna “dal punto di vista
economico l’integrazione ebraica risentì della ormai lunga collocazione urbana degli ebrei:
attività artigianali e commerciali, libere professioni, imprese finanziarie rappresentarono
quindi i lavori degli ebrei occidentali. L’emancipazione ebraica avvenne in base a parame-
11
tri volti a situare la diversità nel solo ambito religioso.”
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“Ciò ebbe inevitabili ripercussioni
sul modo di concepire l’ebraismo, il quale, in precedenza, si era sempre autopresentato
pure come un modo per regolare la vita di una comunità anche da un punto di vista civile e
culturale e non già come semplice credo religioso. L’addensarsi di tutta la differenza sul
polo religioso ebbe, in varie situazioni, l’esito di diventare una specie di implicito invito ad
abbandonare, attraverso la conversione al cristianesimo, anche l’ultima traccia della resi-
dua diversità. Questo processo di “assimilazione” fu largamente favorito dalla pratica dei
matrimoni misti.”
21
Nel corso dei secoli però, l’autodefinizione ebraica ruoterà sempre in-
torno a tre ambiti, secondo P. Stefani: la Torà, il popolo e la terra d’Israele
22
.
Per D. J. Goldhagen “l’antisemitismo non ci dice nulla degli ebrei, ma molto degli antisemiti
e della cultura che li produce”
23
, perciò “in ogni società la natura dell’antisemitismo tende
ad armonizzarsi con i modelli culturali che improntano anche la contemporanea conoscen-
za del mondo.[…] – Quindi – in epoche dominate dalla teologia, l’antisemitismo tende a
condividere i presupposti religiosi prevalenti; in epoche dominate dalle teorie darwiniane,
tende ad adeguarsi alle nozioni di immutabilità (certi tratti considerati come innati) e del
conflitto totale che coinvolge le nazioni (il mondo è lotta per la sopravvivenza).”
24
Questo legame tra i modelli culturali elaborati all’interno di una società e la genesi, ma an-
che i modi d’espressione, dell’idea-contenitore , qual è per noi quella dell’antisemitismo, è
molto stretto a tal punto che “quanto più l’antisemitismo occupa un ruolo centrale nella vi-
sione del mondo di quella società, cioè riprende alcuni aspetti dei modelli culturali domi-
nanti, tanto più probabile sarà la sua congruenza con quei modelli, perché se vi fosse con-
flitto esso andrebbe a scapito della coerenza psicologica ed emotiva generale, creando
gravi dissonanze cognitive.”
25
L’evoluzione dell’antisemitismo nella Germania nell’800 fu
molto complesso: esso divenne un importante modello di coerenza culturale e successi-
vamente una forte ideologia politica dalle qualità salvifiche per la società tedesca in crisi.
12
Come rileva lo stesso D. J. Goldhagen: “la trasformazione linguistica e cognitiva
dell’immagine degli ebrei […] si era già verificata all’inizio del XIX secolo.”
26
In Germania si
aprì allora un acceso dibattito sugli ebrei e sul posto che questi dovevano occupare nella
società tedesca e anche quei cittadini tedeschi che difendevano la loro emancipazione ed
il loro diritto a risiedere in Germania concordavano sul fatto che “essere ebrei ed essere
tedeschi fossero realtà reciprocamente incompatibili. […] che essere ebrei significasse es-
sere ostili e deleteri, se non minacciosi per l’esistenza stessa, di tutto quanto fosse tede-
sco.”
27
“Il modello culturale tedesco di base dell’“ebreo” der Jude era costituito da tre con-
cetti. L’ebreo è diverso dal tedesco, […], non è un diverso innocuo, bensì maligno e perni-
cioso. Lo si concepisce in termini di religione, nazione, gruppo politico o razza, l’ebreo era
sempre un Fremdkörper, un corpo estraneo alla Germania. Questa concezione era pre-
dominante e così radicata che gli antisemiti cominciarono a vedere in tutto ciò che non an-
dava nel paese, dall’organizzazione sociale ai movimenti politici, alle turbolenze economi-
che, un collegamento, spesso causale, con gli ebrei.”
28
Queste però non erano unicamente le opinioni dei polemisti antisemiti, ma anche quelle
dell’intera società tedesca. Nell’ambito del dibattito politico ottocentesco in Germania spic-
ca la posizione dei “liberali”, di coloro che dichiarandosi “amici” degli ebrei e lottando per la
loro emancipazione, condividevano i dogmi fondamentali dell’immaginario antisemita: “si
distinguevano dagli antisemiti dichiarati in quanto ritenevano che l’origine di quella diversi-
tà fosse correggibile, che gli ebrei potessero rinnovarsi e che loro stessi, […], sarebbero
riusciti, allettandoli, con la prospettiva di una piena integrazione nella società tedesca, a
persuaderli a cancellare origini e identità per diventare tedeschi.”
29
Verso la fine dell’800 i liberali però, li avevano in buona parte abbandonati e la teoria so-
ciale che prometteva la “rigenerazione”- si era rivelata infondata, perché gli ebrei tedeschi
si erano dimostrati molto tenaci nel conservare la loro identità e vennero considerati il
principale impedimento all’unità spirituale della nazione.
13
“Svanito l’ottimismo, rimaneva il modello culturale degli ebrei come estranei e prendeva
piede l’unica spiegazione convincente dell’origine della loro perniciosità, ormai considerata
inalterabile: gli ebrei erano una razza.”
30
L’antisemitismo nella Germania ottocentesca toc-
cava indistintamente tutti e quasi tutti i settori della società e la grande maggioranza delle
classi inferiori continuava a sostenere in pieno il modello cognitivo e culturale dell’ebreo
senza distinzioni fra città e campagna
31
. D. J. Goldhagen individua alcuni aspetti salienti
dell’immagine degli ebrei prodotta dall’antisemitismo ottocentesco: prima di tutto gli ebrei
erano considerati come maligni, potenti e pericolosi, erano dei veri e propri parassiti che
non davano nulla alla società che li ospitava, scansavano la fatica, l’impegno, non svolge-
vano alcun lavoro produttivo nutrendosi a spese del popolo ospitante.
“La loro impurità comprendeva anche un’altra dimensione: erano ancora più dannosi dei
parassiti, che…si limitavano a prendere senza restituire; (essi) sabotavano attivamente,
con intenzione, l’ordine della società, corrodendone i costumi, la coesione e introducendo
disordine e disarmonia.”
32
Inoltre erano considerati dall’opinione pubblica come un vero e
proprio gruppo organizzato, mosso da un’unica volontà e per i tedeschi ciò significava la
potenzialità di una rovina senza precedenti se si pensava al particolare talento dimostrato
dagli ebrei nell’economia e all’immenso potere che avrebbero potuto procurarsi in tal mo-
do. Mutò il rapporto ebrei-tedeschi: se agli inizi dell’800 l’idea dominante vedeva gli ebrei
come invasori nelle case dei tedeschi ora questi le avevano addirittura occupate ed i tede-
schi si trovavano in una posizione minoritaria e, se prima bastava “tenerli lontani”, ora era
più che mai necessario “cacciarli”. Da “comunità religiosa” essi vennero considerati sem-
pre di più come “nazione” nemica nel cuore stesso della Germania.
Nella seconda metà dell’800 l’antisemitismo puntò sul concetto potente della razza: come
qualità immutabile, essa escludeva che un ebreo potesse diventare un vero tedesco, inte-
grarsi definitivamente nella comunità. “Contrapponendo la germanicità all’ebraicità, quel
modello cognitivo rilanciava la contrapposizione assoluta e binaria che da sempre gli anti-
14
semiti tradizionali individuavano tra cristianesimo ed ebraismo.[…] (Così) l’antisemitismo
razziale si appropriò della forma del modello cognitivo cristiano, iniettandovi un nuovo con-
tenuto.”
33
D. J. Goldhagen sostiene come: “nell’antisemitismo moderno l’ebreo si era tra-
sformato da agente del diavolo (come era stato immaginato nel Medioevo) nel diavolo
stesso”
34
. Ora la potenza demoniaca si era incarnata in un corpo sociale e bisognava solo
trovare il modo per neutralizzarla. Le “soluzioni” proposte dagli antisemiti erano diverse fra
loro: andavano “dall’antica speranza liberale nella scomparsa degli ebrei per totale assimi-
lazione, alla richiesta di nuove forme legali di emarginazione fino alla revoca
dell’emancipazione, all’espulsione forzata e violenta e anche all’annientamento comple-
to.”
35
Queste soluzioni erano tutte più o meno equivalenti in quanto affondavano le radici
nella convinzione che la Germania doveva essere in qualche modo judenrein
36
.
Ma l’antisemitismo di fine ’800 per quanto forte e potenzialmente violento non esplose in
un’aggressione pianificata e sistematica: mancavano le condizioni necessarie per trasfor-
marlo in un vero e proprio programma di violenza fisica e la Germania guglielmina non a-
vrebbe mai tollerato la violenza organizzata che gli antisemiti volevano attuare.
La vita degli ebrei però, non era tranquilla: continue erano le aggressioni verbali, le discri-
minazioni sociali ed i traumi psicologici, anche se era loro garantita una certa incolumità
fisica. L’antisemitismo però divenne micidiale sul finire del secolo grazie al progresso eco-
nomico e tecnologico della Germania: esso si saldò, infatti, con la modernità in quanto il
concetto fondante della comunità politica, il Volk, definitosi all’interno del dibattito sulla
“questione ebraica”, trovava ora anche una base pseudoscientifica moderna nelle teorie
razziste e darwiniane presenti nella cultura europea dell’epoca
37
.
Nonostante l’emancipazione gli ebrei continuavano a subire forme di emarginazione di o-
gni genere, dall’esclusione nel campo dell’istruzione, al corpo degli ufficiali nell’esercito e
nella pubblica amministrazione in particolare nella magistratura, tutto ciò non faceva che
rendere ancora più evidente la loro presunta non assimilabilità coi tedeschi.
15
Gli unici partiti che sostenevano la causa ebraica furono i partiti liberali della sinistra dive-
nuti politicamente irrilevanti, perché battuti dai conservatori, profondamente antisemiti, so-
stenitori di Bismarck e del Reich guglielmino. Dopo la dura sconfitta della prima guerra
mondiale ed il crollo dell’impero, in Germania si costituiva nel 1919 la Repubblica di Wei-
mar, che avrebbe dovuto avviare il paese sulla strada della democrazia,
ma l’odio per gli
ebrei si tinse di nuove accuse. Nel febbraio del 1920 nacque, in Germania, il Partito nazio-
nalsocialista dei lavoratori tedeschi a Monaco di Baviera, embrione del futuro Partito Na-
zionalsocialista: animato da Adolf Hitler che si caratterizzava per le sue tendenze populiste
ed eversive, nonché nutriva un chiaro disprezzo per il governo repubblicano sorto dalla
sconfitta e dall’umiliazione di Versailles. Il suo programma era di riscattare la Germania
dalla sconfitta, con l’obiettivo di rivedere i trattati di pace, estirpare il comunismo, far risor-
gere la gloria militare del popolo tedesco ed affermare la superiorità della razza germani-
ca, liberandola dalla presenza ebraica che la “inquinava”
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Tale programma politico aveva come obiettivo fondamentale quello di una vera e propria
“rivoluzione germanica”
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, la ricerca di una “terza via” alternativa al capitalismo e al comu-
nismo, una “rivoluzione antiebraica” diretta contro gli ebrei, profondamente antiborghese,
ed anticomunista poiché attaccava sia gli ebrei che i marxisti tedeschi.
L’interesse della massa fu rivolto allora verso l’antisemitismo, distogliendo in tal modo il
popolo tedesco dai reali problemi sociali ed economici del paese: l’ebreo divenne il comu-
ne nemico da colpire. Nella dottrina nazista l’antisemitismo si mescolava all’obbedienza
cieca rivolta al capo carismatico, il Führer, al primato della razza germanica, che aveva il
compito storico di guidare i popoli dopo che tutti i tedeschi fossero stati riuniti in una sola
grande Germania (l’Anschluss). Portatori di una nuova etica propugnavano con fierezza la
restaurazione dello spirito originario delle genti germaniche.
All’inizio i nazisti erano poche migliaia di persone, ma col tempo ottennero sempre più
ampi consensi
presso i ceti artigiani e piccolo borghesi, i disoccupati e gli operai meno co-