preziose intuizioni di Umberto Eco dal suo Trattato di semiotica generale, tenteremo di 
classificare il Marchio in tutte le sue tipologie, chiarendo gli aspetti più propriamente 
semiologici, come i meccanismi della denotazione e della connotazione, oltre a 
menzionare alcuni casi in cui la retorica, con le sue figure, opera sulla forma del 
Marchio. 
Nella parte centrale del nostro approfondimento metteremo in evidenza come, in 
generale, nella comunicazione visiva, il ruolo della forma sia strettamente connesso a 
quello del contenuto: l’esame di alcuni piccoli esperimenti precettologici ci spiegherà 
come avvengono questi processi, legati, in modo sostanziale, sia a fenomeni propri 
dell’organizzazione della nostra percezione, sia all’influenza che la cultura ha sul 
nostro modo di vedere. Il capitolo successivo mostrerà le applicazioni dirette di quanto 
detto, in alcuni tra i più interessanti progetti di comunicazione, costituiti da Marchi e 
Corporate identity che hanno avuto un ruolo primario nella storia della grafica, 
essendo esempi di ‘forte’ progettazione. 
L’ultima parte sarà invece dedicata ad alcune questioni etiche, aperte negli 
ultimi anni dal dibattito sull’etica della progettazione. Alla luce delle analisi 
precedenti, affronteremo la questione sotto un diverso orientamento, alternativo 
all’atteggiamento tuttora predominante, ossia quello che auspica una cancellazione del 
Marchio dai prodotti, criticando aspramente le strategie con cui vengono propagate le 
immagini aziendali. 
A tal proposito, sembra opportuno chiarire subito che il termine Marchio, che 
qui definiremo come “segno che contraddistingue un’azienda, un prodotto, un 
servizio”
1
 non verrà in questa trattazione mai sostituito col suo equivalente inglese 
Logo, poiché, è bene precisare, abbiamo volutamente eliminato ogni possibile rimando 
a polemiche che pervengono il nostro tema, e che questo termine così ambiguo 
richiama alla mente. Ad esse faremo riferimento solo allorché ci troveremo a discutere 
della funzione del Marchio nel contesto attuale, quando cioè, abbiamo già detto, ci 
avvicineremo alla definizione di una prospettiva etica sulla progettazione grafica. 
Chiameremo col nome di logotipo, invece, la grafia particolare e inconfondibile di un 
nome. 
 
                                                 
1
 Fioravanti, Il dizionario del grafico, Zanichelli (Bologna, 1993). 
 1 
CAPITOLO I 
 
UNO SGUARDO AL PASSATO. 
ORIGINE DEL SEGNO-MARCHIO 
 
 
I.1. Dalla “chiappa” d’asino al Marchio d’impresa 
«Bertoldino senza portare il dovuto rispetto al regio Marchio che il mio asino 
porta nella chiappa sinistra per esser riconosciuto come animal di corte...» [Moneti]
1
. 
L’invenzione di un segno, definito Marchio, da apporre su beni, uomini ed 
animali, nasce con l’esigenza di distinguere, di riconoscere e, in secondo luogo di 
fornire informazioni circa l’origine, la proprietà, la qualità dell’oggetto a cui è abbinato. 
È il caso dell’usanza antica di marchiare il bestiame, con ferro rovente o per mezzo di 
incisioni sulle corna o sulle orecchie dell’animale, con evidente funzione di indicarne 
l’appartenenza, ma altresì la razza o, in caso di epidemie, lo stato di salute. 
Nel 1597, G. Soderini parla di “distinguere con un Marchio”, mentre è del 1333 
la terminologia degli Statuti Suntuari “fornire di Marchio” per le merci in vendita. 
Cantini, nel 1683, anticipa la definizione moderna di Marchio di fabbrica, indicandolo 
come “segno usato dall’imprenditore per contraddistinguere i propri prodotti” e, nel 
1772, Memmo precisa: «col nome, o con la marca od impronto delle rispettive 
fabbriche», riferendosi alle produzioni tessili. Gli stessi produttori di tessuti usavano 
‘marcare’ i propri tessuti per indicarne la provenienza; in una lettera del XII secolo si 
legge di “pannj marchiatj d’Ipro”. Gli Statuti del Tribunale della Mercanzia del XIV 
secolo riconoscono il mestiere di ‘marcatore’ come «l’operaio addetto alla marcatura»
2
. 
Le prime testimonianze, dunque, di Marchi apposti su prodotti e manufatti 
arrivano dalle legislazioni riguardanti il commercio; non si può tuttavia omettere che, 
oltre alle merci, ad essere marchiati erano ugualmente uomini e donne, con funzioni 
diverse: dal bollare criminali, ladri, malfattori, al segnalare la proprietà di schiavi, senza 
dimenticare l’individuazione del gruppo o classe sociale, pratica tipica delle tribù, e 
l’accusa morale, come ricorda il romanzo di Hawthorne, La lettera scarlatta, 
ambientato all’epoca del colonialismo britannico del 1600. 
                                                
1
 Cfr. Monachesi, Marchio – storia, semiotica, produzione, Lupetti (Milano, 1993), pag. 3. 
2
 Monachesi, pag. 3 e pag. 6. 
 2 
Tornando alle fonti di diritto commerciale, riferendosi alla distinzione tra 
Marchio di fabbrica e Marchio commerciale, Monachesi nota come la definizione 
Marchio d’impresa sia unicamente italiana. L’inglese, infatti, utilizza il termine 
Trademarks, il francese Marque de fabrique et de commerce, il tedesco Marken, lo 
spagnolo Marca
3
. 
 
I.2. Radici etimologiche 
In effetti, l’origine diretta della radice /'mark-/, e quindi del termine Marchio, è 
attribuibile alla voce verbale marchier, lemma del francese antico dal francone merkjan, 
attestata al 1190, dal preciso significato di contrassegnare.  
Tuttavia è anche plausibile una derivazione dal latino medievale ‘marca’, che 
indicava una barra d’argento bollata, voce a sua volta riferibile al termine margô, 
margine, confine, limite, ma anche segno di confine, come attesta la Lex Wisigothorum 
medievale, dove è un segno intagliato nella corteccia dell’albero per delimitare un 
territorio
4
. Nel 960 d.C. ‘marca’ suggeriva un paese o una zona di confine: ‘Marchese’, 
del resto, è un titolo che veniva assegnato ai funzionari che governavano le regioni 
estreme dell’Impero Carolingio, impegnati a difendere i confini dagli attacchi esterni. 
Quest’ultima ipotesi ci fornisce un primo spunto di riflessione per una 
descrizione del Marchio e delle sue funzioni: il concetto di ‘segno distintivo’ viene 
associato all’idea di luogo e di limite, il limite crea la forma, che contiene un significato 
e, circoscrivendolo, lo precisa e lo definisce. 
 
I.3.  I limiti del Marchio 
Partendo dalle pratiche di agrimensura romane, che adoperavano come 
riferimenti spaziali una linea tracciata da nord a sud, chiamata cardo, e la sua 
perpendicolare da est a ovest, chiamata decumanus, è possibile rintracciare un’analogia 
tra il concetto di limite artificiale e la funzione del Marchio. Secondo questa intuizione,  
infatti, possiamo pensare al Marchio come ad un segno la cui suddivisione in 
espressione e contenuto assume una dimensione nello spazio; in altri termini, gli 
elementi costituenti il significante ed il significato possono essere considerati come i 
confini spaziali entro i quali si manifesta una data realtà.  
«Il cardo e il decumanus, tracciati a forma di croce, partendo da un punto 
identificano il centro attorno al quale è possibile determinare l’estensione di tutta la 
                                                
3
 Monachesi, pag. 5. 
4
 Monachesi, pag. 7 (da Tesniére, Bulletin de la Société de Linguistique de Paris, 1929). 
 3 
superficie» [Monachesi]. Tale punto costituisce il centro del campo d’azione della 
persona, azienda, ente, - che d’ora in avanti chiameremo Referente - e, pertanto, l’area 
d’indagine che il Marchio deve definire attraverso la sua rappresentazione. «Il cardo si 
può definire il lato qualitativo della rappresentazione, il significato, il contenuto; 
viceversa il decumano è il suo aspetto quantitativo, il supporto materiale, fisico, 
concreto. La somma di tutti gli elementi espressivi (decumani) e di tutti gli elementi 
contenutistici (cardi) determinerà il limite dell’oggetto Marchio e, non meno 
importante, della sua estensione o meglio il riferimento all’oggetto che si vuole con 
questo rappresentare» [Monachesi]. Qualità e quantità, espressione e contenuto, sono 
due aspetti che necessitano l’uno dell’altro per risolversi vicendevolmente: ecco perché 
servono entrambi alla definizione del ‘territorio-Marchio’. 
Ma questa nuova concezione di limes applicata alla riproduzione del Marchio e, 
in secondo luogo, dell’immagine coordinata, non solo ci permette di spiegare lo ‘statuto 
ontologico’ (o sarebbe meglio dire ‘statuto semiologico’) del Marchio, bensì chiarisce 
anche il modo in cui esso assolve ad una delle sue funzioni principali, ovvero quella di 
distinguere e distinguersi. «Essendo in un certo senso il Marchio il limite estremo della 
cosa rappresentata, contiene la stessa per intero: contenuti ed espressione del Marchio 
dicono interamente la cosa rappresentata al di là del quale – oltre al Marchio – non 
esiste più la stessa cosa ma un’altra, diversa dalla prima. Il Marchio, come segno de-
terminato da espressione e contenuto, è ciò che dice significando quello e nient’altro di 
ciò e quello» [Monachesi]
5
. È lecito pensare che il de-terminare di cui parla Monachesi 
sia una definizione non tanto del contenuto del Marchio, giacché questo si limita a 
essere nient’altro che il suo Referente ed il suo campo d’azione, territorio già noto 
determinato, quanto del contenente, e cioè che il limite somigli per lo più alla forma di 
ciò che è rappresentato. Di forma o espressione ci occuperemo in maniera specifica nel 
Capitolo III, laddove porremo le questioni del rapporto tra forma e contenuto nel segno-
Marchio ed in generale nella comunicazione visiva. Per il momento, ci basti riflettere 
sull’analogia tra luogo e Marchio, che ci aiuta meglio a comprendere il suo ruolo di 
riconoscimento verso l’esterno. 
Filippo Vaccari, in un suo articolo dal titolo Segno e cultura, definisce il 
Marchio come «la sintesi grafica dell’immagine aziendale» la cui funzione «è quella di 
identificarla verso l’esterno»
6
. È difatti noto come la necessità originaria da cui deriva 
l’uso del Marchio non è tanto l’indicazione di proprietà, quanto una ragione di 
                                                
5
 Monachesi, pagg. 9-12. 
6
 Vaccari, Segno e cultura, da Linea grafica n. 3. 
 4 
sicurezza:  i capi di bestiame esigono un segno indelebile perché vengono portati al 
pascolo, dove possono disperdersi; i mercanti, abbiamo visto, marchiano gli articoli per 
evitare che questi, durante i trasporti, le importazioni ed esportazioni, passano essere 
scambiati con altre merci. Solo in seguito, i Marchi cominciano a fornire indicazioni 
sull’origine, la qualità etc. 
 
I.4. Una prima classificazione 
Ai Marchi si abbina sovente un complesso di rappresentazioni stilistiche e 
figurative chiamate immagini coordinate, che rappresentano l’immagine del Referente 
attraverso connotazioni che ruotano attorno al Marchio. Marchio e immagine coordinata 
sono elementi che determinano insieme, con una o più persone, un contatto «sensoriale-
visivo», che trasformano un semplice nome in un segno ‘forte’, che riflettono ciò che il 
Referente vuole comunicare e lo consolidano nel tempo.
7
 
Marchio ed immagine coordinata formano la cosiddetta Corporate identity (o 
Corporate image), che costituisce, in sostanza, la direttrice dell’immagine aziendale. 
Essa è «l’apparato comunicativo destinato all’esterno, quello che deve essere percepito 
dal pubblico: dal Marchio, con la sua immediata applicazione in biglietti da visita 
eccetera, alla pubblicità» [Branzaglia]
8
. 
Accenniamo ora, in via del tutto preliminare, ad una dicotomia che ci sarà utile 
per sviluppare un piccolo percorso diacronico sull’origine e la diffusione del segno-
Marchio; una proposta per una classificazione più esaustiva sarà oggetto del prossimo 
capitolo.  
I Marchi possono essere: 
A) Logogrammi: da lovgo", discorso, parola, e gravfein, scrivere. Si dividono in 
tipogrammi o logotipi, sigle (da singula signa), monogrammi (la più antica 
rappresentazione di Marchi dalla comparsa della scrittura). La loro origine è 
                                                
7
 Hoenegger, Graphic design, Romana Libri Alfabeto (Roma, 1973). 
8
 Branzaglia, Comunicare con le immagini, Bruno Mondatori (Milano, 2003). In realtà, Branzaglia opera 
un’ulteriore distinzione tra immagine coordinata, Corporate identity e Corporate image, appellandosi alle 
differenze che esistono tra object, brand, corporate ovvero tra (a) l’oggetto di produzione (il prodotto), 
che corrisponde a determinate caratteristiche rispondenti a (b) una tipologia di Marchio, che a sua volta è 
un segmento specifico di una (c) politica di corporazione più ampia: «una Alfa Romeo 156 ha 
un’immagine di prodotto, che dipende in buona parte dall’immagine della marca Alfa Romeo: immagine 
che si spera corrispondere alla sua identità, la quale dipende dalla corporate identity del Gruppo Fiat» 
(cfr. pag. 119). Queste considerazioni riconoscerebbero nella Corporate identity il corrispettivo della 
comunicazione interna dell’azienda, cioè la sua struttura, il suo organigramma, mentre l’image sarebbe il 
mezzo di dialogo tra l’azienda e l’utente. È comunque questa una distinzione che non ci riguarda se non 
come riferimento al Capitolo VI quando si affronteranno le questioni sull’etica della progettazione 
grafica.