V
Le poesie del Primo Libro sono popolate, infatti, da figure femminili che incarnano
una particolare sensualità, in simbiosi con quella dell’ambiente circostante. La loro
presenza alleggerisce il dettato espressivo, lo armonizza in una partitura di suoni soavi che
ne anticipano, sonoramente, le immagini leggere.
L’immagine, non il volto: solo con Cronistoria, infatti, compare Olga, la
fidanzatina morta nel 1936, che torna a sollecitare il ricordo e ad implorare memoria
affinché il poeta ricostruisca le tappe dell’amore insieme percorso, espresso in un
linguaggio chiuso, contratto nel rigido schema del sonetto.
Da questo punto in poi, nello spazio della poesia, la figura femminile acquista un
ruolo bifronte: da un lato rimane la giovane donna morta, il cui nome, rimosso dallo spazio
testuale, cerca incessantemente un’espressione in nuove e dolorose maschere (Alcina,
Euridice). Dall’altro è rintracciabile una linea femminile solare, positiva, a cui si
riconducono note stilnovistiche e celebrative: è quella che lega Rina ad Annina, le due
creature la cui bellezza porta nella poesia il calore di un linguaggio modulato sulle chiare
note della levità.
È proprio ne Il seme del piangere, infatti, che all’immagine femminile viene
concesso di entrare nelle maglie della poesia come autentico personaggio: una donna di cui
conosciamo finalmente il nome, corre lungo le strade di una soleggiata Livorno che,
incantata, ne osserva la grazia e la nascosta sensualità. Si tratta proprio della madre di
Caproni, Anna Picchi, protagonista di un romanzo in versi scandito sulla dolcezza di una
lingua «in –are» a cui si chiede il compito di essere la stilizzazione sottile di questa lieve
figura.
Lo sguardo innamorato del figlio-fidanzato pedina la sua “signora”; come un
narratore onnisciente ne interpreta i più intimi pensieri e l’accompagna fino all’attimo
dell’addio, quando la verità della morte emerge con tutta il suo carico di lacrime e di
dolore.
Il cammino verso il personaggio, inaugurato dunque da una donna, raggiunge
un’ulteriore realizzazione nel Congedo del viaggiatore cerimonioso, in cui una folla di
figure – il guardacaccia, la ragazzina, il sacerdote – prendono voce in un susseguirsi di
dialoghi e monologhi dove il poeta, non di rado, cede il diritto di parola.
Come sottilmente suggerisce il titolo, però, siamo giunti al Congedo: lo scenario in
cui muove la prossima poesia di Caproni è quello dei “luoghi non giurisdizionali”, dove la
presenza si dissolve in una perenne “asparizione” e le voci in una confusione di identità.
Persa ogni fiducia nel potere definitorio della parola, che, anzi, nel Conte di Kevenhüller è
VI
una “bestia”, un’introvabile fiera, la poesia si chiude nel silenzio. Della figura femminile
resta la calda e rassicurante presenza, incarnata nel volto della moglie Rina o di altre figure
domestiche e familiari, semplici referenti di omaggi o di Galanterie, senza alcun ruolo
incisivo e operante.
Per meglio sostanziare il nostro lavoro e dare maggior rilievo al ruolo del
personaggio “in versi”, il primo capitolo sarà dedicato a descrivere, certo in maniera non
esaustiva, quel fenomeno di “romanzizzazione” della letteratura che porta la poesia ad
avvicinare i moduli formali della prosa, e, in maniera più o meno conseguente, ad aprire lo
spazio testuale ad una pluralità di voci che conferiscono maggior complessità polifonica al
tradizionale impianto monologico della lirica.
Acquisite le coordinate necessarie all’identificazione del personaggio, le griglie
interpretative verranno dunque applicate alla figura femminile, cercando di evidenziare
come il suo ruolo muti di pari passo al variare della poesia, in un dialogo diffuso e
continuo che si spezza all’inizio di quella che molti critici definiscono la “grande stagione”
caproniana, sicuri che anche l’analisi della poesia “minore” possa offrire nuove occasioni
esegetiche alla lirica “maggiore”, e che Caproni stesso non avrebbe accettato etichette di
merito:
Dubbio a posteriori:
i veri grandi poeti
sono i «poeti minori»?
3
3
Pensando a Sbarbaro e a certi suoi (frettolosi) collocatori, in G. CAPRONI, Res amissa, a cura di G.
AGAMBEN, Milano, Garzanti, 1991
1
CAPITOLO PRIMO
PROSA E TEATRO NELLA POESIA
CONTEMPORANEA: L’ AVVENTO DEL
“PERSONAGGIO”
I. 1 Poesia inclusiva
Nel giugno del 1964 Eugenio Montale pubblica sulle pagine del Corriere della
Sera un articolo intitolato Poesia inclusiva
1
, nel quale tratteggia con precisione alcune
delle novità formali e tematiche che caratterizzano la lirica di quegli anni:
Fino a una ventina d’anni or sono la poesia si distingueva dalla prosa per
l’impiego di un linguaggio «poetico» […], per l’uso di strutture metriche
visibili a occhio nudo (il verso, la strofa, il polimetro) ed anche per
l’esclusione di contenuti che si ritenevano più adatti al trattamento
prosastico. La lirica escludeva la prosa proprio per questo: eleggendo
contenuti privilegiati, che potevano anche essere convenzionali, e
tentando di trascenderli e renderli personali imprimendo ad essi il
suggello dell’arte. […]
I moderni poeti «inclusivi» non hanno fatto altro che trasportare
nell’ambito del verso o del quasi verso tutto il carrozzone dei contenuti
che da qualche secolo n’erano stati esclusi.
Negli anni ’60 i poetae novi, infatti, offrendo alla lirica la possibilità di intrattenersi
con gli aspetti del reale che tradizionalmente le sono meno consoni, «esprimono l’aspetto
fenomenologico del loro essere uomini “in situazione” (anagrafica, temporale e
strettamente individuale). Inclusivi di tutto, escludono la trascendenza di quella che fu
tradizionalmente la poesia e l’alta retorica, si vergognano ragionevolmente di essere poeti e
sembrano vivere in un perpetuo terrore che diremmo aziendale»
2
.
In questi anni, dice Montale, la poesia ha l’obbligo di abolire le regole di una
soggettività svincolata da qualsiasi preoccupazione referenziale, dovendo invece garantire
al materiale linguistico una fondazione oggettiva, perché l’alterità della lingua poetica
rispetto al reale produce un sistema retorico che resta a livello di un analogismo puro e
1
E. MONTALE, Poesia inclusiva, «Corriere della Sera», 21 giugno 1964, ora in ID., Sulla poesia, a c. di G.
Zampa, Milano, Mondadori, 1997, (1976
1
), pp. 146-148.
2
Ivi, p. 147.
2
vacuamente estetizzante. La narrativa aveva già da tempo imboccato la strada
dell’impegno, ma anche per la lirica l’imperativo categorico è ora quello del
coinvolgimento nei fatti concreti, non certo nell’ottica ottimistica e palingenetica che aveva
dato vita al neorealismo, ma con l’obiettivo di registrare una realtà difficile da codificare,
dove la parola poetica può trovare un senso nella misura in cui sa farsi interprete e
testimone dei repentini mutamenti che l’attraversano:
tutti appartengono, apparteniamo, all’immensa azienda del progresso tecnico e
meccanico, tutti sentono che il mondo è un serpente che sta mutando pelle e che
ognuno di noi è il testimone e la vittima di questa oscurissima mutazione.
3
Se gli anni ’50 segnano il definitivo passaggio dalle poetiche simbolistiche a una
diversa concezione del testo, sono proprio gli anni ’60 a decretare l’esordio di una stagione
ricca di dibattiti in merito al rapporto tra industria e cultura, ad esempio, o in cui la parola
“letteratura” si trova affiancata ad indagini o inchieste di tipo storico-sociale
4
: anche gli
scrittori, fino ad allora intenti a difendere il proprio statuto d’elezione, rinunciano dunque
al proprio immobilismo e alle dichiarazioni di impotenza, «sempre accompagnate, in
poesia, da una purezza stilistica compensatoria per volontà di espiazione»
5
. Occorre creare
un movimento di idee da contrapporre con decisione a quella che Pasolini definisce lirica
dell’«anima bella […], traumatizzata da esperienze sociali molto ristrette, familiari: da cui
far nascere non senza compiacimento, una visione del mondo che sia tutta tipica della
poesia: ossia deformata, spiritualizzata, esasperata, linguisticamente o eletta fino al
classicismo o negletta fino agli espressionismi più arditi (e innocui)»
6
.
La liberazione del testo poetico dalle regole egemoni e narcisiste dell’io lirico
avviene innanzitutto attraverso la parcellizzazione dei codici linguistici, i quali si
appoggiano ad universi di volta in volta differenziati. L’amalgama di linguaggi settoriali
spesso diversi e stridenti fra loro è l’operazione compiuta dalla Neoavanguardia: del 1961
è l’antologia curata da Giuliani (I Novissimi. Poesie per gli anni ’60) e di soli due anni
3
Ivi, p. 147.
4
Cfr. N. LORENZINI, Il presente della poesia. 1960-1990, Bologna, il Mulino, 1991, p. 29: «A chi lamenta
oggi l’assenza di un dibattito teorico in grado di tracciare linee guida per la poesia, si può intanto indicare una
via da percorrere utilmente: quella di un confronto critico con gli anni Sessanta molto mitizzati o
demonizzati, sicuramente fertili di proposte e progetti, di carica demistificante e alternativa. […] è il caso del
neonato “Menabò”, fondato nel ’59 proprio mentre chiude “Officina”, e poi, lungo il decennio, de “Il corpo”,
“Che fare”, “Rendiconti”, “Quindici”, per non parlare di fogli decisamente oppositivi al Sistema, nel solco
del pensiero marxista (da “Quaderni rossi” a “Quaderni piacentini” a “Nuovo Impegno”…)».
5
Ivi, p. 36.
6
P. P. PASOLINI, Saggio per un’antologia, in «Nuovi Argomenti», n. 46, settembre-ottobre 1960, ora in ID.,
Saggi sulla letteratura e sull’arte, vol. II, a c. di W. Siti e S. De Laude, saggio di C. Segre e cronologia a c. di
N. Baldini, Milano, Mondadori, 1999, pp. 2301-2303.
3
dopo la costituzione del Gruppo ’63. Questi autori svolgono un’azione distruttrice, ove la
portata rivoluzionaria dell’espressione poetica è il veicolo per affermare l’insensatezza
come unico contenuto di una emergente società del consumo che tutto macina e tritura; si
rivendica «la vitalità della lingua, l’asintattismo, la riduzione dell’io in favore della
disseminazione di una parola chiamata a illustrare, con visione appunto “schizomorfa”, la
violenza e complicazione della società del nuovo benessere economico»
7
, consci che la
poesia, la letteratura falliscono di segno se non partecipano dal profondo, anima e corpo,
alla messa in discussione delle proprie strutture di fronte ad una situazione anche
esternamente mutata.
La mescolanza dei linguaggi più disparati (dal parlato ai gerghi della scienza o
dell’industria, alla psicoanalisi, alla linguistica, allo strutturalismo), manifesta la volontà di
elaborare tecniche eversive che investano soprattutto il piano del significante per svelare i
meccanismi del congegno poetico, manifestarne le funzioni interne, «esercitare insomma il
lettore di poesia alla rilevazione della menzogna del linguaggio istituzionale»; funzionale
sarà poi il ricorso a Brecht e alla strategia della “straniamento”, ma anche ad Artaud,
Beckett o Ionesco con il “teatro dell’assurdo”, e alla tecnica del montaggio
cinematografico a «suggerire un diverso uso della struttura e dello spazio testuali»
8
.
Anche esperienze meno estreme rispetto alle avanguardie riconosceranno la
necessità di fissare come punto di partenza la lingua, nodo da cui si irradia una serie di
infinite altre questioni
9
; il rischio è però che l’attività creativa si riduca ad un proliferare di
teorie, di programmi che mettano in secondo piano l’operazione stessa dello scrivere versi,
al punto «da tradurre la riflessione metapoetica (e “l’ideologia” letteraria) in contenuto e
oggetto della poesia, trasformando quest’ultima in critica applicata»
10
.
È ancora Montale a mettere in guardia dal pericolo, costruendo, e corrodendo con
l’acido dell’ironia, un testo in cui ridicolizza nel contempo la posa del poeta
tardoromantico, intimamente ispirato e volutamente oscuro, e l’atteggiamento dei “camici
7
N. LORENZINI, Il presente della poesia, cit., p. 45.
8
Poesia del Novecento Italiano. Dal secondo dopoguerra a oggi, a c. di N. Lorenzini, Roma, Carocci, 2002,
p. 32.
9
«In ogni dato momento della sua esistenza storica, la lingua è totalmente pluridiscorsiva: è coesistenza
incarnata di contraddizioni ideologico-sociali tra il presente e il passato, tra le varie epoche del passato, tra i
vari gruppi ideologico-sociali del presente, tra le correnti, le scuole, i circoli, ecc. Queste “lingue” della
pluridiscorsività si incrociano in vario modo tra di loro, formando nuove “lingue” socialmente tipiche», M.
BACHTIN, La parola nel romanzo, in ID., Estetica e romanzo (1975), trad. italiana di C. Strada Janovič,
Torino, Einaudi, 2001, (1979
1
), pp. 67-230, la citazione è a p. 99. Si veda anche l’analisi di C. SEGRE,
Intertestualità e interdiscorsività nel romanzo e nella poesia, in ID., Teatro e Romanzo, Torino, Einaudi,
1984, pp. 103-118.
10
N. LORENZINI, Il presente della poesia, cit., p. 49.
4
bianchi”, impegnati a sezionare i testi per svelarne gli interni meccanismi ed esercitare la
propria frustrata volontà di potenza:
L’angosciante questione
se sia a freddo o a caldo l’ispirazione
non appartiene alla scienza termica.
Il raptus non produce, il vuoto non conduce,
non c’è poesia al sorbetto o al girarrosto.
Si tratterà piuttosto di parole
molto importune
che hanno fretta di uscire
dal forno o dal surgelante.
Il fatto non è importante. Appena fuori
guardano d’attorno e hanno l’aria di dirsi:
che sto a farci?
11
L’opera a cui appartiene questa poesia è Satura, libro che segna un netto
spartiacque nella produzione montaliana, in accordo con quanto lo scrittore stesso scriveva,
come abbiamo visto, sulle pagine del Corriere: se, come registra Berardinelli, il poeta
genovese «era stato in Italia il punto culminante della poesia tardo e post-simbolista, un
virtuoso manierista del monologo allusivo», dal 1971 in poi «diventa un poeta satirico,
colloquiale, cerimoniale, semi-giornalistico e blandamente auto-divulgativo»
12
. Passando
rapidamente in rassegna i versi che abbiamo qui riportato, ci si accorge, per l’appunto, che
poco resta in questa nuova stagione del preziosismo formale del primo tempo di Montale:
certo in Satura vengono traghettate forme tradizionali, ma l’intento è quello di irriderle. Si
noti ad esempio la rima, dagli Ossi di seppia alla Bufera una delle spie formali più tipiche
del poeta genovese, solitamente “difficili”, raffinate, qui presenti invece in una variante
facile (questione:ispirazione; produce:conduce) e a tratti paradossale, mettendo in
accoppiata, ad esempio, surgelante con importante; la misura versale pure allude ai metri
della tradizione (settenario anche in versi composti, endecasillabo, quinario), allestiti
secondo uno schema libero, ma è il lessico dimesso, abbassato al livello della “prosa più
prosaica” a degradare ogni ambizione di serietà che l’argomento trattato lascerebbe
supporre.
L’alternativa alla neoavanguardia e alla minaccia di una poesia involuta su se
stessa, è offerta, negli stessi anni ’60, da un gruppo di poeti, cosiddetti della “terza
generazione” (Sereni, Caproni, Bertolucci e Luzi), che, se con quest’ultima condividono il
11
E. MONTALE, La poesia, in Satura, Milano, Mondadori, 1971, poi in ID., Tutte le poesie, a c. di G. Zampa,
Milano, Mondadori, 1984, p. 332.
12
A. BERARDINELLI, La poesia verso la prosa, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, p. 15.
5
rigetto della soggettività in quanto territorio esclusivo della poesia, come pure rifiutano un
codice lirico piegato alle pure ragioni dell’espressività, fanno però un uso radicalmente
diverso dello strumento linguistico, praticando «una sperimentazione “silenziosa”, poco
appariscente: una sperimentazione imperniata, si direbbe, sull’ambizioso progetto di
ricostruire un tessuto unitario per il linguaggio poetico, partendo però questa volta dal
“basso”, dal parlato, dal dichiaratamente prosastico»
13
.
Si veda il caso di uno degli autori più esemplari, Vittorio Sereni, il cui esordio
avviene nel 1941 con Frontiera, un’opera ascrivibile all’ambito dell’ermetismo, composta
però con l’occhio rivolto alla linea realistica e concreta della tradizione lombarda
14
. La
fisionomia ermetica è legata all’utilizzo di un vocabolario chiuso, “petrarchesco”
15
,
strutturato attorno a stretti emblemi che esprimono stati di sospensione esistenziale,
smaterializzati in un’allusione che si avvicina al nome delle cose, ma non se ne impossessa
mai completamente. Circa vent’anni dopo, invece, l’esperienza poetica di Sereni muta di
segno: «tanto i primi versi gravitano verso il polo […] della poesia più ritirata in se stessa
(con un lessico seletto, una sua grammatica esclusiva, una metrica tutto sommato ancora
tradizionale), altrettanto i nuovi, si levano appena al di sopra della prosa. […] Siamo, per
intenderci alla svelta, nei paraggi ben noti di certo Saba»
16
.
Ben lo dimostra l’intervento su un testo del ’44, E tu così leggera e rapida sui
prati, che negli anni ’60 vede un’aggiunta di versi nei quali ogni oscurità è tolta, e,
contrariamente alla poetica “orfica”, esprime chiaramente la circostanza da cui è nata la
poesia
17
.
13
S. GIOVANARDI, Poeti italiani del secondo Novecento. 1945-1995, a c. di M. CUCCHI e S. GIOVANARDI,
Milano, Mondadori, 1996, p. XXXVI. Anche le avanguardie si appropriano del “parlato”, ma con l’intento di
smantellare il canone novecentista: «mentre allora esse svolgevano un compito aggressivo che poteva
risultare solo dall’esibito contrasto con registri espressivi del tutto differenti, ora paiono decisamente aspirare
a un ruolo fondativo, riconvertendo “in positivo” il patrimonio genetico della linea sperimentale, e forzandolo
a una funzione pienamente comunicativa sino a quel momento esclusa dal suo orizzonte», ivi, p. XXXVII.
14
«Con un’educazione ermetica corretta da certo suo naturale illuminismo lombardo, tra Parini e Rebora,
Sereni è sempre stato fedele ad un’idea di poesia nutrita di bellezza, nella linea della nostra più alta tradizione
lirica, dal Petrarca in poi; disponibile però, in una visione fenomenologica della realtà, a tutte le offerte della
vita», D. ISELLA, Prefazione all’edizione critica da lui curata di V. SERENI, Poesie, Milano, Mondadori,
1995, 2000
4
.
15
«Non volendo, a scanso di equivoci, chiamarla ermetica, si potrebbe dirla “petrarchesca”, se è lecito
nominare dal Petrarca, per analogia, qualsiasi processi di decantazione della complessità del reale per
estrarne delle levigate essenze primarie, tali da riassumere in sé, sublimandolo, l’intero universo», D. ISELLA,
La lingua poetica di Sereni, in AA. VV., La poesia di Vittorio Sereni, Atti del Convegno, Milano, Librex,
1985, pp. 21-32; poi come Prefazione a V. SERENI, Tutte le poesie, a c. di M. T. Sereni, Milano, Mondadori,
1986, pp. XI-XXVIII; ancora in D. ISELLA, L’assedio di Meulan. Da Manzoni a Sereni, Torino, Einaudi,
1994, pp. 263-77; e ora in V. SERENI, Poesie, cit., pp. LXXVII-LXXXV, da cui si cita (p. LXXVII).
16
Ivi, p. LXXXII, corsivo nostro.
17
La poesia, pubblicata in Diario di Algeria (Firenze, Vallecchi, 1947, e ora in V. SERENI, Poesie, cit., p.
75), recitava nella prima edizione così: «E tu così leggera e rapida sui prati / ombra che si dilunga / nel
tramonto tenace. / Si torce, fiamma a lungo sul finire / un incolore giorno. E come sfuma / chimerica ormai la
6
Si veda come commenta l’autore stesso questa revisione a posteriori:
Queste due brevi poesie qui riprodotte
18
[…] nel mio Diario d’Algeria
figuravano in un testo anche più concentrato […] Mi era sempre rimasta
l’impressione che il preciso rapporto cui sopra, tra circostanza e testo,
fosse stato falsato, in qualche modo sacrificato alle pure ragioni
espressive; che ne fosse seguita, se non proprio un’oscurità del
significato, un’astrattezza in me insolita e non gradita.
19
Nel 1965, con la pubblicazione de Gli strumenti umani, Sereni rinuncia
definitivamente all’espressione immediata, e muove verso un decisa «deliricizzazione»
della produzione in versi, «in piena ibridazione poesia-prosa, non a detrimento bensì a gran
vantaggio della stessa poesia che acquisisce (come del resto, nella contemporanea
evoluzione testimoniata da un altro libro essenziale di questi anni, Nel magma di Luzi),
un’ampiezza e uno spessore che non è irragionevole definire danteschi»
20
. Alla lirica è
affidata l’orizzontalità del ragionamento e del racconto, il compito di testimoniare il senso
della propria vita, o la sua insensatezza, poggiando su mezzi tecnici che manifestano
un’aspirazione di semplicità: lo stile è scevro di preziosismi, e quanto mai teso ad una
comunicazione chiara, inserita in una dimensione quotidiana e umana.
Proprio il titolo di una sua lirica, I Versi
21
, dichiara questa mutata stima, dove
l’accento posto su l’aspetto materico, “artigianale” dei versi, appunto, libera
definitivamente dei residui ermetici e petrarchistici che ancora persistevano nei precedenti
libri:
tua corsa / grandeggia in me / amaro nella scia.». La rielaborazione nell’edizione successiva (Diario
d’Algeria, Milano, Mondadori, 1965, 2
a
ed., Milano, 1979) fa precedere invece dei versi in cui si esplicita il
movente della poesia: «Rinascono la valentia / e la grazia. / Non importa in che forme - una partita / di calcio
tra prigionieri: / specie in quello / laggiù che gioca all’ala.»
18
Il poeta si riferisce, oltre a E tu così leggera e rapida sui prati, anche alla poesia Lassù dove di torre,
sempre presente in Diario d’Algeria ( cfr. V. SERENI, Poesie, cit., p. 73).
19
V. SERENI, Due ritorni di fiamma, in ID., Gli immediati dintorni, Milano, Il Saggiatore, 1962, pp. 107-109;
poi in ID., Gli immediati dintorni primi e secondi, Milano, Il Saggiatore, 1983, pp. 70-72; ora in ID, Poesie,
cit., p. 439
20
G. RABONI, Introduzione a V. SERENI, La tentazione della prosa, Milano, Mondadori, 1998, p. XIII; per lo
studio degli incontri tra prosa e poesia nella lirica del poeta lombardo, si veda M. A. GRIGNANI, Le sponde
della prosa di Sereni, in «Poliorama», 2, 1983, pp. 121-144; il già citato saggio di D. ISELLA, La lingua
poetica di Sereni, cit.; P. V. MENGALDO, Il solido nulla, in ID., La tradizione del Novecento. Nuova Serie,
Firenze, Vallecchi, 1987, pp. 377-386; L. LENZINI, Le distanze della prosa: “Il Sabato tedesco” di Sereni, in
ID., Interazioni. Tra poesia e romanzo: Gozzano, Giudici, Sereni, Bassani e Bertolucci, Trento, Temi, 1998,
pp. 111-136; G. CORDIBELLA, Di fronte al romanzo. Contaminazioni nella poesia di Vittorio Sereni,
Bologna, Pendagron, 2004.
21
I versi, in V. SERENI, Gli strumenti umani, Torino, Einaudi, 1965, ora in ID., Poesie, cit., p. 149
7
Se ne scrivono ancora.
Si pensa ad essi mentendo
ai trepidi occhi che ti fanno gli auguri
l’ultima sera dell’anno.
Se ne scrivono solo in negativo
dentro un nero di anni
come pagando un fastidioso debito
che era vecchio di anni.
No, non è più felice l’esercizio.
Ridono alcuni: tu scrivevi per l’Arte.
Nemmeno io volevo questo che volevo ben altro.
Si fanno versi per scrollare un peso
e passare al seguente. Ma c’è sempre
qualche peso di troppo, non c’è mai
alcun verso che basti
se domani tu stesso te ne scordi.
Se da un lato abbiamo dunque l’opera dissacratoria del gruppo ’63, oppure l’ironica
corrosione di Montale, in questo testo le ragioni della poesia sono sempre meno
comunicabili, meno evidenti. Si abbandona qualsiasi feticismo della forma: se compare un
piccolo gioco verbale, è forse solo il tentativo di sollevare anche di poco il livello basso del
dettato, un gioco di iterazione, oppure «una ripetizione per inerzia, quasi una difficoltà o
stentatezza espressiva»
22
. Anche la memoria poetica che pure agisce (se è vero che il «nero
di anni» vuole alludere al «nero di nubi» pascoliano, e serve a corroborare la figura del
«negativo» che compare nel verso immediatamente precedente), sembra una traccia
casuale, mimetizzata tra le falde del testo, quasi occultata.
Sereni vuole dunque rinunciare ad ogni visione trionfalistica: la poesia non incide
sul nostro essere “uomini in situazione”, l’autore è il primo a dimenticare di aver scritto, a
non saperne trarre un profitto durevole. Il poeta abdica alla sua funzione di guida, alla
possibilità di scovare una «formula che mondi possa aprirti», pronunciandosi in tono
dimesso, senza alcuna pretesa di imporre una verità: «l’acuta, acuminata e un po’
sconfortata onestà referenziale che si trova in quasi tutte le poesia di Sereni, non risparmia
neppure l’esercizio dello scrivere versi, si rivolge contro il poeta stesso»
23
.
Con simile predisposizione anche Pasolini, con Trasumanar e organizar, mette in
campo una radicale fuga dalla letterarietà, destrutturandone moduli, formule, e
raggiungendo, nei suoi «poemetti ideologici in prosa», il limite della «trasandatezza
stilistica»
24
.
22
A. BERARDINELLI, Poesia per vent’anni, in ID., Tra il libro e la vita. Situazioni della letteratura
contemporanea, Torino, Bollati Boringhieri, 1990, p. 46.
23
Ivi, p. 47.
24
Ivi, p. 15.
8
Da un punto di vista strettamente linguistico, sia per i poeti della “terza
generazione” che per un autore come Pasolini, la tendenza è a stabilire un rapporto sempre
più stretto con il parlato, indirizzo che aveva punteggiato fasi o momenti del secolo, ma
che diviene ora un fenomeno di portata generale: «termini, fraseologie, e costrutti
morfosintattici di stampo parlato sono assunti nella scrittura poetica con un grado di
ospitalità di cui è difficile trovare l’eguale nel passato»
25
.
Questo fatto diviene un punto di svolta anche per chi aveva alle spalle un lungo
periodo di scrittura. È il caso, come abbiamo già accennato, de Gli strumenti umani di
Sereni, che, scrive ancora Testa, «ricorre ad un’impaginazione discorsiva in cui i tratti
parlati (scorciature, dislocazioni, termini informali) hanno, a differenza dei libri precedenti,
un ruolo decisivo nella resa, vibratile e nervosa, della sua insoddisfazione per il tempo
avuto in sorte»
26
, di Caproni, come vedremo, e di Luzi, autore inizialmente fedele ad una
purezza di linguaggio, lontano dal registro colloquiale, che Nel magma (1963) opta invece
per una discorsività quasi prosastica «ritenuta necessaria a pedinare “la chiacchiera” del
mondo e il frantumarsi delle esperienza di chi lo abita»
27
.
Mentre la neoavanguardia procede dunque, ad una critica, sostenuta anche
ideologicamente, sia della lingua delle comunicazioni istituzionali che del codice letterario,
mirando ad accelerare la dissoluzione del discorso lirico, questi autori, insieme a Zanzotto
e Giudici, hanno aperto le maglie testuali all’italiano comune appena affermatosi sulla
scena sociale, operando secondo quel «procedimento accumulativo» che, individuato da
Montale negli Strumenti Umani, si attua «inglobando e stratificando paesaggi e fatti reali,
private inquietudini e minimi fatti quotidiani»
28
. Spinti dall’esigenza di dar conto della loro
sorte e delle proprie esperienze individuali, recuperano alla poesia un senso che sembrava
perduto, convertendo il timore di chiudersi ai fatti del mondo esterno «nell’adesione al
doloroso e mutevole profilo dell’esistere e alle sue dimensioni capitali: lo scorrere del
tempo, la realtà della natura, il modificarsi della società»
29
.
25
E. TESTA, Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, Torino, Einaudi, 2005, p. VI. I corsivi sono nostri.
Dove non specificato, però, sono da considerarsi originali. Per un’analisi dei rapporti tra lirica e parlato, si
veda anche A. GIRARDI, Sereni, il parlato, la «terza generazione», in «Studi Novecenteschi», XIV, n. 33,
giugno 1987, pp. 127-139.
26
E. TESTA, Dopo la lirica, cit., p. VI.
27
Ivi, p. VII.
28
E. MONTALE, Strumenti umani, «Corriere della sera», 24 ottobre 1965, ora in ID., Sulla poesia, cit., p. 331.
29
E. TESTA, Dopo la lirica, cit., p. X.
9
I. 2 La romanzizzazione dei generi letterari
Cercavo dunque quel che qui chiamo romanzo
ma col desiderio che fosse la poesia a suggerirmelo,
a farmelo supporre.
(Vittorio Sereni)
30
L’intromissione del parlato all’interno del codice linguistico poetico può dunque
assumere diversi ruoli: la Neoavanguardia se ne appropria per irridere i meccanismi della
comunicazione quotidiana, mentre per i poeti della “terza generazione” è indice di un
rinnovato coinvolgimento, l’abbandono del solipsismo di stampo idealistico per
un’immersione “fenomenologica” nel tessuto del reale.
La suddivisione che Pier Vincenzo Mengaldo traccia all’interno della generazione
postmontaliana, in uno studio, ormai diventato classico, dal titolo Grande stile e lirica
moderna. Appunti tipologici
31
, chiarisce in maniera più approfondita che tipo di
conseguenze, formali ed ermeneutiche, comporti il rinnovato impiego dello strumento
linguistico. Secondo il critico, infatti, è possibile rintracciare tra le fila degli autori che
iniziano a scrivere dopo l’esordio e l’affermazione del poeta ligure, due linee di tendenza:
il filone orfico-sapienzale, che «attraverso la poesia intende affermare niente di meno che
una verità in qualche modo trascendentale»
32
, e quella di coloro che praticano una poesia
di tipo esistenziale, i quali «s’accontentano di partecipare un’esperienza»
33
. Nella fila dei
poeti “esistenziali” Mengaldo assolda Bertolucci, Caproni e Sereni, «con le loro
ascendenze sabiane e la loro utilizzazione, in sintesi, antiermetica di Montale»
34
; se la
parola del primo gruppo di poeti, infatti, «è necessariamente impositiva e quasi
intimidatoria, quella dei secondi comunicativa e interrogativa; gli uni tendono a gestire il
grande stile come stile alto, gli altri, senza rinunciarvi, lo relativizzano e come lo
felpano»
35
. Interessante, proprio a proposito di quest’ultimo verbo, riportare un breve
stralcio del già citato pezzo critico che Montale dedicò alla poesia di Sereni
36
, rilevando
una sintomatica coincidenza, un utilizzo identico del lemma per esprimere il tocco delicato,
30
V. SERENI, Dovuto a Montale, in ID., La tentazione della prosa, cit., p. 146.
31
P. V. MENGALDO, Grande stile e lirica moderna. Appunti tipologici, in ID., La tradizione del Novecento.
Nuova Serie, cit., pp. 7-24.
32
Ivi, p. 19. A questa linea di tendenza appartiene la poesia di Zanzotto e Luzi, «l’attacco dei quali è infatti
nell’ermetismo stricto sensu e a ritroso nella grande lirica primo-romantica da Coleridge a Hölderlin»,
ibidem.
33
Ibidem.
34
Ivi, p. 20.
35
Ibidem.
36
E. MONTALE, Strumenti umani, cit.
10
“felpato” appunto, dell’espressione, una scrittura che non si alza mai al livello della parola
perentoria, del “grande stile”, ma sta piuttosto rasoterra, sfiorando la calda comunicabilità
della prosa:
Nel suo recente e maggior libro, Gli strumenti umani, sarebbe
ingannevole credere che il verso sia andato distrutto; comunque
l’avvicinamento alla forma del poema in prosa è dato dal fatto che il
lettore deve indugiare a metter d’accordo l’occhio con l’orecchio,
ponendo o inventariando cesure nelle linee più lunghe; dopo di che il
polimetro si rivela per quello che è: uno strumento che riesce a felpare e
interiorizzare al massimo il suono senza peraltro portare al decorso
totalmente orizzontale della prosa.
37
I cosiddetti “poeti esistenziali”, come “l’ascendenza sabiana” di cui parla Mengaldo
lascia intuire, e come suggerisce questo breve testo critico di Montale, spingono la forma
della loro poesia verso la prosa; o, quanto meno, lasciano che le loro opere si abbandonino
ad un’effusione narrativa che, nel caso di Bertolucci ad esempio, aspira a configurarsi
come vero e proprio “romanzo in versi”
38
. Del resto, uno degli obiettivi che accomuna i
poeti di questa generazione, è la costruzione di una «tensione poematica»
39
che porta molto
spesso alla narratività o, più frequentemente – se non è consentito intravedere in controluce
lo scheletro di una fabula – alla costituzione di “libri di poesia”, ove non vi è una vera e
propria progressione di senso, ma una forte compattezza macrotestuale, una forte coerenza
di significato.
40
Non per nulla proprio Mengaldo ha auspicato una ricerca di come la lirica «anche
in rapporto al decadimento delle tradizionali forme di narrazione in versi […], abbia via
via assorbito istanze e modalità narrative e in generale prosastiche, con le relative crisi e
assestamenti formali», insistendo da parte sua, ad esempio, sulla narratività della poesia di
Montale, in particolare nelle Occasioni
41
.
37
Ivi, p. 331.
38
«Le due parti della Camera da letto […], sono l’esito – raggiunto attraverso un lungo e paziente lavoro
iniziato nel ’56 – di una sfida, che lo stesso Bertolucci dichiara di aver ingaggiato contro l’idea di Edgar
Allan Poe, che aveva teorizzato l’impossibilità di un lungo poema senza cadute di tensione. […] Con il suo
romanzo in versi, per la radicalità e l’ampiezza del progetto, Bertolucci realizza un unicum nella poesia del
Novecento, e ridà fiato e slancio alla grande idea, irrinunciabile, di poter raccontare la vita in poesia», S.
GIOVANARDI, Poeti italiani del secondo Novecento, cit., p. 6.
39
Ibidem
40
Per l’argomento si rinvia a E. TESTA, Il libro di poesia. Tipologie e analisi macrotestuali, Genova, il
melangolo, 1983; ID., L’esigenza del libro, in AA. VV., La poesia italiana del Novecento, a c. di M.
Bazzocchi e F. Curi, Bologna, Pendagron, 2003, pp. 97-121; L. BISOGNO, Enigma e Regola. La testualità
nella poesia del Novecento, Verona, Anterem, 2000.
41
«Un’impaginazione narrativa sempre più raffinata dei propri miti esistenziali, che Montale costruisce
immettendo nelle strettoie della sua forma lirica precisamente le suggestioni del miglior romanzo
11
Lo studio dell’interazione tra poesia e prosa si innerva, del resto, in un discorso
critico che risale a Bachtin, e che, in Italia, si sviluppa in una direzione di ricerca il cui
maggior esponente è senza dubbio Giacomo Debenedetti. L’attività dei due studiosi, in
particolare, si concentra sulla considerazione del romanzo come il grande fenomeno
artistico del Novecento, chiave d’accesso per l’interpretazione di tutti i generi letterari.
Michail Bachtin, ad esempio, in uno studio pubblicato in Italia nel 1976, Epos e
romanzo
42
, dichiara il romanzo un genere letterario che si distingue innanzitutto per la sua
“giovinezza”, «con un’ossatura […] lungi dall’essersi consolidata», di cui ancora non è
possibile prevedere tutte le possibilità plastiche: «lo studio degli altri generi letterari è
analogo allo studio delle lingue morte; lo studio del romanzo, invece, è analogo allo studio
delle lingue vive, e giovani»
43
.
Questa tipologia letteraria ha una natura che produce un effetto catalizzante e, al
contempo, un conflitto con le altre varietà; mentre in determinati periodi tutti i generi
letterari «si completano armonicamente a vicenda e tutta la letteratura […] è in notevole
misura un tutto organico di ordine superiore»
44
, il romanzo non partecipa mai di questa
armonia, la sua indole è semmai quella della parodia, la sua forza è seducente e al tempo
stesso dissacratoria
45
.
Quando invece il romanzo si fa il genere dominate, le altre categorie letterarie
vengono assorbite nella sua sfera di influenza, assumendone una fisionomia similare; si
produce quell’effetto assimilativo che Bachtin definisce “romanzizzazione”, e che fa sì che
i generi letterari diventino
più liberi e più plastici, il loro linguaggio si rinnova grazie alla
differenziazione interna della lingua extraletteraria e grazie agli strati
«romanzeschi» della lingua letteraria, si dialogizzano, in essi penetrano
ampiamente il riso, l’ironia, lo humor, elementi di autoparodia e infine –
ed è questa la cosa più importante – il romanzo porta in essi la
problematicità, la specifica incompiutezza semantica e il vivo contatto
con l’età contemporanea incompiuta e diveniente (col presente aperto).
46
contemporaneo (Proust, Svevo, gli inglesi), oltre a quello dei prediletti narratori in versi come Browning»; P.
V. MENGALDO, Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori, 1978, pp. XXIII-XXIV.
42
M. BACHTIN, Epos e romanzo. Sulla metodologia dello studio del romanzo, in G. LUKÁCS, M. BACHTIN E
AA. VV., Problemi di teoria del romanzo. Metodologia letteraria e dialettica storica, trad. italiana, Torino,
Einaudi, 1976, pp. 179-221; poi in ID., Estetica e Romanzo, cit., pp. 445-482, da cui si cita.
43
Ivi, p. 445-446.
44
Ivi, p. 446.
45
«Il romanzo parodia gli altri generi (proprio in quanto generi), smaschera la convenzionalità delle loro
forme e del loro linguaggio, soppianta alcuni generi e ne introduce altri nella sua propria struttura,
reinterpretandoli e riqualificandoli», ivi, p. 447.
46
Ivi, p. 449.
12
Questo fenomeno deve essere spiegato alla luce dell’intimo intreccio che la varietà
stabilisce con la realtà: essendo il romanzo in divenire, esso riflette il rinnovarsi
dell’esistenza in modo più profondo, «è l’unico genere letterario procreato dal mondo
moderno e gli è in tutto consunstanziale»
47
; conquistato il suo ruolo predominante, attira
nella propria orbita tutte le altre categorie letterarie, indirizzandole, secondo lo studioso,
verso quello che sarà il principale sviluppo dell’intera letteratura.
Una delle espressioni artistiche che maggiormente ha risentito di questo effetto di
“romanzizzazione” è il teatro, il quale, nonostante la condanna aristotelica sull’intrusione
di elementi romanzeschi nel campo della poesia drammatica, conosce dalla seconda metà
del diciannovesimo secolo un fenomeno fondamentale: la sua progressiva “epicizzazione”.
Lo dimostra lo studio condotto da Peter Szondi, intitolato Teoria del dramma moderno
48
,
ove si svela come la rappresentazione diretta del dramma sia possibile «solo in una forma
letteraria che lo accolga “nella serie dei suoi principi costitutivi”. Questa forma letteraria è
il romanzo»
49
.
La «patologia drammatica»
50
di fine Ottocento troverà poi compiuta espressione
nell’opera dei tre drammaturghi (Brecht, Wilder, Miller) dove «il principio del teatro epico
si realizza nel modo più integrale»
51
, arrivando a toccare la rinuncia alla forma teatrale.
Se in letteratura modernità significa il superamento delle rigide frontiere dei
generi
52
, il romanzo si pone a crocevia di questo intreccio, ne sfrutta i movimenti, ne
assorbe le forza vitali. Il suo essere, come dice Bachtin, genere “in divenire”, gli conferisce
nel Novecento una certa instabilità: si impone una prosa dove «è venuta meno la solida
competenza del narratore, dove vigono leggi pluriprospettiche, dove il tempo è fatto di più
strati che scorrono gli uni dentro gli altri, dove i personaggi esistono solo in quanto
accumularsi continuo di impressioni nate a contatto col quotidiano»
53
. Il romanzo assume
47
Ibidem.
48
P. SZONDI, Teoria del dramma moderno. 1880-1950, (1956), trad. italiana, introduzione di C. Cases,
Torino, Einaudi, 1962, 2000
2
.
49
Ivi, p. XIII.
50
Ivi, p. 106.
51
Ivi, p. XVIII.
52
«Per i poeti del Novecento, cioè di una modernità matura, le tradizioni delle forme o delle convenzioni
sono giunte ad esaurimento, dopo essere passati attraverso diverse fasi. Contini parlava di perdita di
sensibilità alle misure canoniche (endecasillabi, settenari, ecc.); e Valéry di musiche desuete. Pavese diceva –
e siamo nel 1934 – di non poter far uso delle forma canoniche se non in chiave parodistica e sotadica. E
Ungaretti che, allo stesso modo di Valéry, ritorna al verso tradizionale, e lo riverifica, deve sottoporlo a
pressioni tali che esso risulta ben poco petrarchesco e leopardiano, poiché deve liberarlo da ogni discorsività,
dal “ragionare” di Petrarca e di Leopardi. Egli avverte la presenza della prosa e la registra negativamente», G.
GUGLIELMI, Poesia della prosa, in La poesia italiana del Novecento, cit., p. 32.
53
M. A. BAZZOCCHI, Poesia come racconto, in La poesia italiana del Novecento, cit., p. 151.