4
Nel dizionario della lingua italiana, alla voce consenso si legge:
Conformità di intenti, di voleri. Concordanza di opinioni individuali.
Approvazione. Accettazione da parte di tutti gli uomini di determinati valori
e verità.
Con questo mio lavoro intendo ripercorrere le tappe fondamentali
attraverso le quali tre grandi filosofi, Hannah Arendt, Jurgen Habermas,
Charles Taylor, hanno a mio avviso fornito importanti ed irrinunciabili
contributi alla comprensione di tutte quelle ragioni che nell’ambito politico,
sociale e anche interpersonale stanno alla base della formazione di quel
concetto complesso e carico di implicazioni qual è appunto il consenso.
Ci si potrebbe subito soffermare su una riflessione che so poter nascere
spontanea a proposito ad esempio di Hannah Arendt, autrice del “Le
origini del totalitarismo” : cosa ha a che fare la ricerca del consenso, quel
fattore dinamico alla base degli ordinamenti democratici, attraverso il
quale l’esercizio del potere si esercita in seguito alle elezioni, con il
totalitarismo hitleriano o staliniano?
La risposta è che l’obbiettivo di questa tesi è proprio quello di andare a
fondo nella comprensione delle dinamiche reali di affermazione concreta
di questo concetto, con la convinzione che esso non possa e non debba
essere inteso solo come semplice accordo di compromesso, come
l’unione d’intenti tra due parti che interagiscono comunicativamente o
come nel caso del rapporto governante/elettori.
5
Il consenso, qualunque sia il soggetto d’indagine che si osserva, ossia
colui che lo ricerca per poter agire o per esercitare una qualche forma di
potere o di controllo, oppure colui che dall’ altra parte lo “accorda” e
risponde alla richiesta acconsentendo e delegando, sarebbe meglio
provare ad intenderlo come qualcosa di non scontato che si muove su
piani molteplici che non riguardano il solo e semplice rapporto
democratico.
Ripartendo dalle sue radici etimologiche, ciò da cui esso deriva è il
termine consensus, che in latino significava “con–sentire”, “sentire
insieme”.
Nei rapporti sociali, politici, privati, in cui i soggetti impegnati in un’attività
comunicativa si confrontano o semplicemente sono posti in una qualche
relazione, vi è sempre e in ogni caso, una tendenza ed un orientamento
verso l’intesa.
Il problema è capire, all’interno delle varie situazioni comunicative, se
quell’orientamento verso l’intesa, del quale tanto hanno scritto i tre Autori,
è caratterizzato da un rispetto reciproco, dal riconoscimento delle
reciproche dignità, da un equilibrio comunicativo, oppure se è
caratterizzato da rapporti di forza in cui una delle parti si sente portatrice di
una verità da perseguire convincendo e persuadendo l’altra parte a
contribuire per il raggiungimento dell’obbiettivo.
6
L’orientamento in questione, potrebbe inoltre avere i caratteri di una
strategia in base alla quale non si determina un’intesa nel senso della
reciprocità e della partecipazione consapevole, ma si procede facendo
ricorso alla propaganda, alla violenza, al terrore, alla manipolazione e alla
costruzione di mondi fittizi, come li definì la Arendt, senza lasciar
ovviamente spazio al dissenso ed impedendo qualsiasi manifestazione di
contrarietà e formazione di minoranze critiche.
Quello che caratterizza ciascuna delle esperienze sommariamente
descritte, non è ovviamente un consenso avente le stesse proprietà e che
si esplica attraverso le stesse modalità.
Paradossalmente esiste un consenso anche laddove non c’è
partecipazione critica e consapevole, anche laddove non si manifesta la
propria volontà come soggetti individuali o come collettività, dove non c’è
l’acconsentire tipico di tutte le esperienze di comunicazione democratica o
comunque basate su un principio di reciprocità.
Il consenso dovrebbe essere, in linea teorica, l’esito, non forzato
attraverso la manipolazione o la persuasione, di un’attività comunicativa
tra soggetti impegnati al raggiungimento di un’intesa che sostanzialmente
non sia un banale compromesso, bensì il risultato di un confronto aperto.
Confronto in cui anche l’acconsentire e quindi il confermare, ad esempio,
la validità di una proposta proveniente da uno dei soggetti in
comunicazione, sia un acconsentire motivato e scaturito da una qualche
7
forma di partecipazione, in cui tutti i soggetti abbiano, attraverso i mezzi, i
luoghi e le rispettive competenze, la stessa possibilità di esprimersi.
È chiaro che nei regimi totalitari non esistono gli spazi per il confronto, per
le manifestazioni di dissenso e per una qualunque forma di partecipazione
comunicativa che non siano l’elogio del capo o la “sudditanza” anche
psicologica nei confronti del potere e del suo leader.
Nessun consenso consapevole o comunque caratterizzato da reciprocità e
partecipazione.
Inoltre in queste modalità d' esercizio del potere, quali sono stati i
totalitarismi, non vi è neppure da parte dei partiti e movimenti che ne sono
stati protagonisti, alcuna richiesta di legittimazione popolare, nessuna
costruzione di un consenso sociale e politico che in qualche modo
lasciasse un benché minimo spazio alla “voce dei cittadini”.
La Arendt ci ricorda che queste esperienze politiche che hanno segnato
negativamente il cammino dell’uomo, sono state realizzate attraverso un
disegno politico alla base del quale c’erano sia la persuasione che il
popolo dovesse essere guidato da un capo carismatico che indicasse la
strada da seguire, a qualunque costo (perché quello era il destino di cui
quel capo era portavoce); sia che il potere in questione dovesse essere
quello di un governo senza legge, detenuto da un uomo solo.
8
Un potere, questo, arbitrario e non frenato dal diritto, esercitato
nell’interesse del governante e contrario a quello dei governati, avente il
terrore come principio dell’azione.
Un potere attraverso il quale si stravolgono tutti i concetti fondamentali del
diritto, andando ben oltre le istanze politiche della stessa tirannide. Queste
cose si riferiscono al periodo caratterizzato della comparsa nella vita
politica dell’umanità, di una forma completamente nuova di gestione del
potere politico, in cui la perdita di contatto con il mondo civile è stata
dovuta non solo all’aggressività, alla spietatezza, alla bellicosità
espansionistico-imperialista, ma soprattutto ad una deliberata rottura del
consensus iuris, quello che per Cicerone costituisce il popolo e che nella
modernità è stato alla base della costituzione del “mondo civile”.
Ecco perché può sembrare insensato parlare di consenso nell’ambito di
esperienze politiche come quelle dei regimi totalitari; ma sono
profondamente convinto del fatto che il fenomeno della scarsa
partecipazione dei cittadini alla vita politica e alle questioni politiche,
l’accettazione passiva della politica del regime, qualunque esso sia –
totalitario o democratico e qualunque metodo legale o illegale esso usi per
perpetuarsi – siano anche queste manifestazioni di un consenso, anche
se connotato di passività, dunque non autentico, che viene accordato e
riconosciuto a quello stesso potere o regime.
9
In sostanza credo che, pur nella diversità di punti di vista e prospettive
d’analisi del fenomeno in questione, laddove si ha a che fare con una
mancanza di “possibilità” di manifestazione di dissenso, e di conseguenza
con un’accettazione passiva di ciò che è stato deciso da chi detiene il
potere, quello davanti al quale ci si trova, ha comunque le connotazioni di
consenso.
Il consenso autentico, razionale è invece un consenso consapevole e
partecipativo, e ha come suo inevitabile rovescio la necessità della
sussistenza di “possibilità” e spazi per l’affermazione di un aperto e
incondizionato dissenso.
Tutto questo inoltre, non riguarda solo la componente più debole e
vulnerabile del fenomeno, ossia il popolo, ma anche quella che si presume
più forte, cioè chi detiene il potere esercitandolo anche in maniera
arbitraria senza averne chiesto la legittimazione attraverso i meccanismi
del consenso.
Quasi sempre però chi più appare (e ama apparire) come colui che si auto
legittima, convinto di essere autorizzato “per natura” a guidare un popolo
anche senza che questo si sia espresso dando il proprio consenso, o in
altri casi in cui tale consenso viene manifestato anche attraverso istituzioni
democratiche facendo però subito dopo venir meno (o limitando) sia le
possibilità di “controllo esterno al potere in esercizio” che gli spazi per il
rinnovamento di tale consenso, quasi sempre dicevo costui è comunque
10
dipendente e condizionato dalla risposta, diretta, consapevole,
partecipata, data per paura o per “adattamento ai sondaggi d’opinione”,
che proviene dal popolo, dai cittadini.
Ad ogni modo, anche questo è consenso, e non per la rivalutazione della
massima popolare per la quale “chi tace acconsente”, pur vera ma
comunque esemplificativa, bensì per il fatto che qualunque rapporto
comunicativo tra soggetti, anche se caratterizzato da violenza, dalla
tendenza alla sopraffazione dell’uno sull’altro, dall’accettazione passiva e
priva di partecipazione consapevole alle dinamiche del dialogo, è un
rapporto in cui in termini politici, sociali, umani, psicologici, nello sfondo c’è
sempre qualcosa che ha a che fare con il consenso.
Il bisogno di consenso, la necessità di rassicurazione attraverso il
consenso, il consenso come base per la legittimazione, la mancanza di
dissenso che per il leader totalitario si traduce nel fatto che da parte del
suo popolo c’è comunque “un acconsentire” alle sue strategie, ai suoi fini,
al suo disegno politico.
È da queste considerazioni, che intendo iniziare il mio lavoro di
approfondimento del “problema del consenso” e di confronto con il
pensiero di Hannah Arendt, Jurgen Habermas e Charles Taylor, su questo
tema.
11
I capitolo
HANNAH ARENDT
12
1. L’UNIVERSO DELLA POLITICA.
Per quanto riguarda l’evoluzione del pensiero della Arendt, l’interesse per
la forma peggiore della politica è il primo ad accendersi, col libro sulle
Origini del totalitarismo, del 1951; le riflessioni sul modo virtuoso di
configurarsi della politica vengono dopo, nel 1958, in Vita activa.
Dal punto di vista metodologico e da quello generale,
sebbene concordasse ad esempio con Tocqueville sull'esigenza di una
"nuova scienza della politica", l'opera di Hannah Arendt difficilmente si
presta ad una lettura politologica.
La cosiddetta "arte politica" ha, infatti, trovato poco spazio nel corredo di
una pensatrice che, come ha correttamente scritto Simona Forti, “è stato
impossibile ridurre a questa o quella corrente teorica o a questa o quella
tradizione di pensiero politico.”
1
Fin dal primo confronto con gli scritti della filosofa, ci si accorge che si è
davanti ad una autentica sostenitrice di un liberalismo eterodosso,
orientato al primato della politica e della partecipazione, temi che
sottintendono diffusamente, e in molti scritti (La disobbedienza civile, Che
cos’è la politica…) evidenziano chiaramente, il richiamo ad una necessaria
rilettura e rielaborazione del concetto di consenso.
1
SIMONA FORTI, a cura di, Archivio Arendt, Feltrinelli, Milano, 2001, p. 12.
13
In termini di immediatezza dei riferimenti, la specificità della produzione
politica della Arendt viene spesso legata in modo indissolubile alla sua
opera sul totalitarismo e alla "questione ebraica".
Sebbene questo tipo di operazione sia sostanzialmente legittimo, non ha
senso correre il rischio di semplificare e confinare i suoi scritti in un
orizzonte eccessivamente ristretto.
Come indicato da Gorge Kateb in una intervista del 1992: ”Se si
disancorasse la Arendt da tante interpretazioni riduttive e deboli del suo
pensiero, sarebbe possibile interrogarla per chiederle come salvare la
politica dalla crisi della forma-stato.”
2
Le ragioni per questa interpretazione sono anzitutto storiche.
La riflessione arendtiana si colloca negli anni a cavallo tra la seconda
guerra mondiale, epoca in cui la cesura storica rappresentata dalla
mannaia devastatrice della patologia totalitaria ha snaturato e svuotato di
significato il concetto stesso di "politico", spogliandolo della sua essenza,
fino a fargli assumere connotazioni negative e imbarbarendolo fino agli
abissi della brutalità del comando impersonale (da cui scaturiscono le
pagine più intense de "Le origini del totalitarismo" e, poi, de "La banalità
del male").
All'interno di queste dinamiche, il venire alla luce dello stato sociale ha
determinato una sorta di cementificazione dello "spazio politico", processo
2
Interviste: Gorge Kateb: Hannah Arendt – le origini del
totalitarismo,http://www.emsf.rai.it/scripts/documento.asp?id=91&tabella=interviste
14
questo che a sua volta ha portato alla chiusura di fori di libertà per lasciare
campo libero ad una macchina burocratica, erogatrice di servizi per quello
che la stessa Arendt definisce un “Uomo indifferenziato”, che sembra
cedere ormai solo alle lusinghe del consenso.
Quell’ Uomo indifferenziato che tanto assomiglia a quello iper
tecnologizzato dell’attuale società dell’informazione, è il vero protagonista
e la vera causa di quella cementificazione dello spazio politico, poiché si è
lasciato irresponsabilmente soverchiare dalla “macchina burocratica” fino
a correre il rischio di perdere il suo ruolo di soggetto attivo nell’ambito di
un’autentica partecipazione alla politica, trasformando il consenso politico
in semplice contabilità, ed esponendo dunque la democrazia ad un serio
pericolo.
3
Si è dunque dinnanzi al primato della coercizione, della burocratizzazione
e della spersonalizzazione: il dopoguerra lascia così scorie e detriti, o
principi allogeni di regolazione, ad occupare gli spazi in cui la politica
dovrebbe manifestare la vocazione alla libertà e "pluralità ontologica" degli
esseri umani, dove la partecipazione e il contributo soggettivo non siano
semplicemente la cornice di questa prioritaria e fondamentale attività
umana, bensì l’espressione della sua natura più autentica.
3
Per i temi della “sospensione” della democrazia e dei rischi insiti nella perdita di partecipazione,
Cfr. :MARINA CEDRONIO, La democrazia in pericolo: politica e storia nel pensiero di
Hannah Arendt, Il Mulino, Bologna, 1994.
15
Proprio da questo punto di vista la Arendt deve essere a ragione ricordata
come una delle più radicali sostenitrici dell'autonomia della politica, che
però non è una qualità innata dell'uomo, di ogni singolo individuo: "L'Uomo
è a-politico.”
Per quanto la Arendt in linea generale, si richiami ad una filosofia politica
di stampo aristotelico, queste sue posizioni sono palesemente distanti
dallo zoom politikon.
La politica nasce tra gli uomini, dunque decisamente al di fuori dell'Uomo
[…]. La politica nasce nell'in-fra, e si afferma come relazione"
4
, nella vita
activa, la dimensione politica dell'attività umana, punto di connessione tra
pensiero e azione nell'essere-insieme.
Pensiero e azione nell’essere-insieme, richiamano alla mente il concetto di
sfera pubblica, perché come dice la Arendt ”Vivere insieme nel mondo
significa essenzialmente che esiste un mondo di cose tra coloro che lo
hanno in comune, come un tavolo è posto tra quelli che vi siedono intorno;
il mondo, come ogni in-fra [in between] mette in relazione e separa gli
uomini nello stesso tempo.
La sfera pubblica, in quanto mondo comune, ci riunisce insieme e tuttavia
ci impedisce, per così dire, di caderci addosso a vicenda.
Ciò che rende la società di massa così difficile da sopportare, non è il
numero delle persone che la compongono, ma il fatto che il mondo che sta
4
HANNAH ARENDT, Che cos’è la politica?, Edizioni Comunità, Milano, 2001, p. 7.
16
tra loro ha perduto il potere di riunirle insieme, di metterle in relazione e di
separarle.”
5
Al contrario del fare e dell’operare, l'unica vera forma di attività che realizzi
pienamente la "condizione umana" è dunque l'agire, "l'appartenenza a una
comunità e la disposizione di uno spazio comune dove muoversi e
distinguersi."
6
Nel quadro di una visione realistica dell’uomo e delle cose, la Arendt non
nasconde la sua fiducia nella capacità di agire dell’individuo; da qui il suo
rifiuto tanto della paralisi generalizzata, conseguenza del mancato
riconoscimento della relativa libertà di cui godono gli esseri umani, quanto
della menzogna e della distorsione dei fatti.
L’autrice ritiene indispensabile che ogni persona arrivi ad accettare la
verità come il punto di partenza e, allo stesso tempo, come il limite
dell’azione.
Lo sfondo sul quale ci si muove, sia che il ragionamento venga orientato ai
principi generali, sia che lo sguardo venga rivolto con attenzione alle
conseguenze delle argomentazioni della Arendt, naturalmente non può
che chiamare in causa i concetti di cittadinanza, di partecipazione attiva e
dunque di consenso consapevole.
5
HANNAH ARENDT, Vita Activa, Bompiani, Milano, XI edizione, 2004, p. 39.
6
LAURA BOELLA, Hannah Arendt, Agire politicamente. Pensare politicamente, Feltrinelli,
Milano, 2005, p. 48. - Sul rapporto pensiero-azione, Cfr. :ALESSANDRO DAL LAGO, La
difficile vittoria sul tempo, Pensiero e azione in Hannah Arendt, Introduzione a La vita della
mente, Il Mulino, Bologna, 1987.
17
Questo è anche l’esito di una riflessione condotta sulle analisi arendtiane
della polis e del concetto di cittadinanza attiva, fatta da Gorge Kateb nella
stessa intervista del 1992, dove egli afferma che: “Il concetto di
partecipazione reale connesso a quello di consenso politico, ha
ovviamente a che fare con quello di cittadinanza.
La convinzione profonda della Arendt è che la cittadinanza, se rettamente
intesa, può riscattare la vita dalla sua maledizione.
Questa convinzione […] era condivisa dai greci, da Omero, Pindaro,
Erodoto e Tucidide […].
Per essi, la sola cosa che poteva riscattare la vita dall’orrore, era
l’esperienza della cittadinanza, intesa quale relazione fra uguali, e cioè
quella di discorso appassionato fra cittadini che, a turno, parlano e
ascoltano.”
7
Un richiamo diretto e molto suggestivo al significato della “partecipazione
politica”, la Arendt lo fa nelle pagine del saggio Sulla rivoluzione, dove
afferma che “se lo scopo ultimo della rivoluzione era la libertà e la
costituzione di uno spazio pubblico dove la libertà potesse presentarsi, la
constitutio libertatis, allora le repubbliche elementari delle circoscrizioni,
l’unica sede tangibile in cui ciascuno poteva essere libero, erano in realtà
il fine della grande repubblica.
7
Interviste: Gorge Kateb: Hannah Arendt – le origini del
totalitarismo,http://www.emsf.rai.it/scripts/documento.asp?id=91&tabella=interviste.
18
Il principio basilare del sistema delle circoscrizioni
8
, che Jefferson lo
sapesse o meno, era che nessuno si poteva dire felice senza possedere
la sua parte di felicità pubblica, che nessuno si poteva dire libero senza
avere la sua esperienza di libertà pubblica, e che nessuno poteva essere
considerato né felice né libero senza partecipare, avendone una parte, al
pubblico potere.”
9
A proposito di ciò, alcuni studiosi della Arendt, tra cui Dolf Sternberg,
hanno supposto una interessata simpatia dell’Autrice che si appunta
maggiormente ai “consigli”, alle “circoscrizioni”, alle formazioni spontanee
che, seppur effimere, lasciavano intravedere una possibilità della “politica”
della polis.
La concezione di democrazia partecipativa della Arendt rappresenta uno
dei più interessanti tentativi di riattivare l’esperienza della cittadinanza e di
articolare le condizioni per l’esercizio di una effettiva ed efficace “agency”
politica, che abbia le connotazioni di una vera e propria esperienza di
democrazia diretta caratterizzata da una partecipazione volontaria.
Vale la pena di sottolineare, inoltre, che tale concezione non implica
omogeneità di valori o un consenso unanime sugli stessi, né richiede una
differenziazione delle varie sfere sociali.
8
Il riferimento qui è a Thomas Jefferson , terzo Presidente degli Stati Uniti d'America, considerato
uno dei padri fondatori della nazione e principale autore della Dichiarazione d'indipendenza.
Sulle circoscrizioni e i “germi di democrazia” caratteristici della Rivoluzione americana, Cfr.
ROBERT NISBET, Hannah Arendt e la rivoluzione americana, rivista “Comunità”, n° 183,
Anno XXXV, pp. 88-92
9
HANNAH ARENDT, Sulla rivoluzione, Bompiani, Milano, 1963, p. 262.