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Recentemente, l’emanazione della Legge n. 313/04 “Disciplina
dell’apicoltura”, ha riconosciuto, in maniera istituzionale, il ruolo dell’apicoltura
quale attività d’interesse nazionale, utile per la conservazione dell’ambiente e per
l’impollinazione delle piante selvatiche e coltivate.
In tale contesto si colloca una particolare forma di allevamento delle api,
ovvero il metodo biologico. L’importanza che il metodo biologico ricopre per il
settore agro-alimentare italiano ed europeo è sicuramente significativo. La forte
crescita del numero di aziende che coltivano col metodo bio (al 2004 superavano
il milione e duecentomila unità) testimonia da una parte l’interesse del mondo
della produzione, ma anche la presenza di un gruppo cospicuo di consumatori che
riconoscono al prodotto biologico caratteristiche superiori a quello convenzionale
fino ad essere disposti a pagare per essi un premio di prezzo.
Mentre per le coltivazioni il regolamento comunitario è in vigore dal 1991,
solo negli anni recenti è stato emanato un regolamento per il settore zootecnico in
cui è compreso anche quello apistico. Al ritardo nell’emanazione del regolamento
si è accompagnata una risposta dei produttori significativamente lenta.
L’attività apistica, per le sue caratteristiche, costituisce un tassello
indispensabile nel concetto di ciclo naturale che il metodo d’agricoltura biologica
applica all’azienda agraria. La sua presenza in azienda è la massima espressione di
una agricoltura naturalistica, nella quale il ciclo della vita trova la sua conclusione
e rigenerazione. L’apicoltura biologica costituisce, quindi, la massima espressione
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dell’opera di tutela ambientale attribuita alle api, mettendo maggior attenzione
all’uso di mezzi tecnici “naturali”.
Nonostante la rilevante importanza del settore apistico, sono decisamente
pochi gli studi approfonditi che lo riguardano. La maggior parte della bibliografia
tecnica e degli studi economici sull’apicoltura attualmente presenti in letteratura
riguarda le regioni del Nord Italia, in cui vengono esposte problematiche che
spesso, pur essendo diffuse in tutta la penisola, riflettono realtà diverse da quelle
della regione Campania e del sud Italia in generale, sia per condizioni climatiche
che per tipo di struttura aziendale. Nel campo delle produzioni biologiche i dati
disponibili e gli studi sono ancor di meno. In Campania, ad oggi, non si registra
nessun tipo di studio economico-gestionale con analisi di produzione e
commercializzazione dei prodotti dell’alveare.
Da questa carenza d’informazioni e in considerazione della elevata
importanza del ruolo che possono svolgere studi specifici finalizzati a fornire dati
reali sulla situazione economica delle aziende apistiche nel momento in cui vanno
ad operare in ambito produttivo e commerciale, nasce l’esigenza di raccogliere
presso le singole aziende produttrici i dati necessari al presente studio. Esso
prende il via da quella che, a nostro avviso, è la necessità di indagare più
approfonditamente su un comparto che potrebbe assumere un peso rilevante nella
zootecnia biologica campana.
La ricerca svolta presenta, come scopo primario, quello di indagare il
settore apistico biologico campano al fine di approfondire la conoscenza della
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struttura produttiva del nostro territorio. In particolar modo ci si propone due
obiettivi: il primo è l’individuazione dei costi aziendali di produzione che gravano
sul bilancio degli apicoltori biologici e confrontare i risultati ottenuti nelle
corrispettive aziende che praticano il metodo convenzionale. Tale confronto è
dettato dall’esigenza di verificare se la scarsa diffusione del metodo bio in
apicoltura sia causata da un significativo aggravio nei costi di produzione. Se così
fosse, si precisa, l’apicoltore bio avrebbe una perdita netta dovuta al fatto che i
consumatori non riconoscono al miele biologico alcuna caratteristica superiore al
miele in generale associando erroneamente a quest’ultima una generica
caratteristica di naturalezza. Il secondo obiettivo mira, invece, ad una prima
ricostruzione della filiera miele, con l’individuazione dei principali attori coinvolti
e delle relazioni correnti tra essi. Lo scopo che ci si prefigge è di iniziare a far luce
sulle dinamiche di un settore dalle notevoli potenzialità ma che, a nostro avviso,
non ha ricevuto adeguate attenzioni dagli studiosi.
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1. Agricoltura Biologica
1.1 Il mondo Bio
Il concetto d’agricoltura biologica nasce poco più di un secolo fa nel cuore
dell’Europa Occidentale traendo origine da numerosi movimenti d’ispirazione
filosofico-scientifica che rifiutavano l’utilizzo di sostanze di sintesi chimica nella
coltivazione vegetale. Tale posizione, però, divenne popolare solo molti anni dopo
quando, agli inizi degli anni ottanta, le gravi ripercussioni sull’ambiente causate
dall’abuso di certi mezzi produttivi e tecnologici, perpetrato dagli anni cinquanta
in poi, favorì una forte spinta verso tipi di agricoltura a “basso impatto
ambientale”.
L’interesse dei consumatori per i prodotti biologici si è fatto sempre più vivo
in concomitanza della crescente attenzione alle questioni ambientali; a questo
atteggiamento si è aggiunta un’incalzante preoccupazione per la sicurezza
alimentare alla luce degli scandali che negli ultimi anni hanno avuto come
protagonisti i prodotti agricoli.
La disponibilità a pagare un premio di prezzo per prodotti sicuri di una
fascia di consumatori sempre più ampia ha suscitato negli anni l’interesse di un
numero sempre maggiore d’imprenditori agricoli.
Il biologico, come fenomeno economico, crea l’occasione per attuare
particolari indirizzi d’economia e politica agraria, capaci di affrontare nuove
priorità quali: un migliore equilibrio tra l’offerta e la domanda di prodotti agricoli;
la tutela dell’ambiente e la conservazione dello spazio rurale.
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Tali metodi sono stati quindi incoraggiati dall’UE (Unione Europea) per la
loro ricaduta positiva sull’ambiente, sugli equilibri naturali e sulla compatibilità
delle risorse, tutti benefici che si riflettono sulla collettività. Allo stesso tempo,
ridurre lo sfruttamento delle risorse significa minore produttività agricola e per
l’Unione Europea questo si traduce in minor sostegno finanziario pubblico alle
eccedenze produttive, con risparmi sul bilancio comunitario.
Verso la fine degli anni ottanta, il settore biologico perse la connotazione di
realtà d’elite per intraprendere quella strada che l’avrebbe trasformato, nel giro di
pochi anni, in un fenomeno socio-economico dalle proporzioni mondiali; proprio
in quegli anni l’UE lavorava per l’emanazione di un regolamento che
disciplinasse il metodo di coltivazione biologico in modo univoco in tutti paesi
membri.
Il biologico, in molti paesi, era nato intorno ad associazioni e organizzazioni
che definivano le regole del metodo biologico con non poche e a volte profonde
differenze tra l’uno e l’altro disciplinare. Molte di queste organizzazioni sarebbero
poi diventate, all’emanazione dei regolamenti comunitari in materia di biologico,
organismo di controllo e certificazione.
Questo processo avvenne anche in Italia e coinvolse Organismi quali
l’AIAB (Associazione Italiana per l’Agricoltura Biologica), l’Associazione Suolo
e Salute e la Demeter che operavano nel settore già dai primi anni ottanta.
L’emanazione del Regolamento CE n. 2092/91 mise ordine nel dedalo di
disciplinari che erano nati nei diversi paesi; l’anno successivo all’emanazione di
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questo regolamento l’UE produsse, come misura d’accompagnamento, il
Regolamento CE n. 2078/92, che avrebbe fornito la possibilità alle aziende
agricole, che sceglievano il metodo biologico, di accedere ad aiuti comunitari.
Gli incentivi messi a disposizione delle aziende produssero un incremento
del numero delle aziende biologiche all’interno della Unione Europea. Esso,
infatti, raddoppiò nel giro di un triennio, da quasi 15.000 nel 1991 a più di 34.000
nel 1994 (MiPAF, 2005). Tuttavia, molteplici difficoltà dovevano ancora essere
superate, tra le quali la mancanza di assistenza tecnica e di organizzazione a
livello della commercializzazione, questioni ancora vive in alcune realtà del
nostro paese in cui le piccole aziende trovano difficoltà nel collocare i loro
prodotti. A più di dieci anni dall’introduzione dei regolamenti che hanno
disciplinato ed incentivato la diffusione del biologico il mercato dei prodotti
biologici si è notevolmente allargato e il settore ha acquisito un peso sempre
maggiore nell’economia agricola di molti paesi.
Secondo l’ultimo rapporto dell’IFOAM - International Federation of
Organic Agriculture Movements – (IFOAM, 2005) la vendita di prodotti biologici
è in continua crescita nel mondo, l’incremento maggiore si verifica ancora una
volta in Europa e nel Nord America registrando una significativa crescita anche
nei paesi dell’America Latina e in Australia.
La domanda di prodotti biologici è fortemente concentrata nei paesi più
ricchi del globo, ciò a causa di due fattori caratteristici di questo mercato: i prezzi
più alti dei prodotti biologici hanno canalizzato i consumi verso quei paesi nei
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quali esiste un reddito medio-alto; l’attenzione, da parte dei consumatori, verso
argomenti quali la sicurezza alimentare, il mangiar sano e l’ambiente è cresciuta
negli ultimi anni dopo i numerosi scandali che hanno coinvolto soprattutto il
settore zootecnico.
Insieme, i mercati biologici d’Europa e America del Nord, si stima,
costituiscano il 96% del mercato mondiale; in particolare il valore del mercato
europeo ha subito un incremento del 20% nel 2003, crescita sorprendente se si
pensa che gli altri paesi hanno registrato nello stesso anno un tasso di crescita al
massimo del 5-7%. L’eccezionale aumento del valore del mercato europeo è da
imputare alla forza dell’euro nei confronti del dollaro, senza tale condizione
l’IFOAM stima che l’incremento si sarebbe attestato intorno al 5%.
Da solo il mercato dei prodotti biologici europeo costituisce, con i suoi 13
miliardi di dollari, il 52% del reddito complessivo (Graf. 1).
Graf. 1 - Distribuzione del mercato globale di alimenti
biologici (fonte IFOAM)
45%
52%
3%
Eu ropa Nord America Altri Paesi
Fonte: Nostra elaborazione su fonte IFOAM, 2005
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Dall’emanazione dei Regolamenti CE 2092/91 e 2078/92, in tutti paesi
membri dell’UE il numero d’aziende, come pure gli ettari condotti secondo il
metodo biologico, è cresciuto rapidamente.
Oggi l’Unione Europea conta più di 140.000 aziende e quasi 6 milioni di
ettari condotti col metodo biologico costituendo, rispettivamente, il 3,2% delle
aziende agricole presenti sul territorio dell’UE e il 3,4% delle superfici coltivate.
Recentemente l’UE ha registrato un rallentamento nella crescita del settore.
Se da un lato l’annessione dei nuovi stati membri e la forte crescita della Grecia in
seguito alla recente implementazione del regolamento sulla zootecnia biologica ha
determinato una spinta allo sviluppo del biologico europeo, di contro la
diminuzione del numero di imprenditori agricoli verificatosi in Italia ha
influenzato negativamente l’andamento della crescita di settore. Questo fenomeno
è direttamente imputabile all’esaurimento delle misure di accompagnamento
previste dal Reg. CE 2078/92, la chiusura dei bandi di accesso ai contributi
comunitari ha spinto molti imprenditori agricoli ad abbandonare il biologico.
Questo è accaduto principalmente per tutte quelle aziende in cui, senza il
contributo, la certificazione si è tramutata in un costo inutile e non sostenibile in
quanto i prodotti vengono collocati sul mercato allo stesso prezzo di quelli
convenzionali. Ci si aspetta una ripresa nella crescita del numero d’aziende
biologiche con la ripresa dei Piani di Sviluppo Rurale (PSR) o almeno che il
numero di aziende resti costante. Esiste, tuttavia, un altro fattore che potrebbe in
qualche modo frenare questa ripresa. Quello che stiamo attraversando è un
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periodo non facile per l’economia italiana ed europea. Il calo dei consumi
alimentari ha avuto conseguenze anche sui prodotti biologici e quindi
l’impossibilità di collocare i prodotti sul mercato o di non poter spuntare un
prezzo adeguato potrebbero pregiudicare le attese di ripresa.
In Italia il biologico si diffonde a partire dalla prima metà degli anni ottanta.
Nel 1988 le aziende biologiche attive nel nostro paese, secondo il Nomisma
(MiPAF 2005), sarebbero state 800 con una superficie di 6.000 ettari,
principalmente cerealicoli ed ortofrutticole.
Oggi, facendo riferimento all’ultimo rapporto IFOAM, l’Italia risulta essere
il terzo paese con la più alta superficie e il maggior numero d’aziende condotte
con metodo biologico a livello mondiale.
All’interno della Unione Europea le aziende biologiche italiane
costituiscono un quinto del numero complessivo, contribuendo ad un quanto della
superficie complessivamente investita a biologico.
Sul nostro territorio insistono circa 44.000 aziende biologiche per una
superficie totale di 1.052.000 ettari, che rappresentano rispettivamente, il 2% del
totale delle aziende e quasi il 7% dei terreni coltivati sul totale nazionale.
Dall’elaborazione da parte del SINAB (Sistema d’Informazione Nazionale
sull’Agricoltura Biologica) dei dati forniti dagli organismi di controllo (al 31
dicembre 2004) possiamo tracciare una panoramica sulla struttura dell’agricoltura
biologica in Italia. Le regioni con il maggior numero d’aziende biologiche sono
Sicilia, Calabria ed Emilia Romagna. In generale la distribuzione degli operatori
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sul territorio nazionale vede concentrate le aziende di produzione al sud e la
presenza degli altri operatori, quali trasformatori ed importatori, in maggior
numero al nord.
I principali orientamenti produttivi presenti sul territorio italiano sono
rappresentati da foraggi, prati e pascoli e cereali, che complessivamente
rappresentano il 70% circa della superficie ad agricoltura biologica. Il restante
30% è costituito da coltivazione arboree quali, in ordine d’importanza, l’olivo, la
vite, gli agrumi, la frutta e le colture industriali.
Il mercato italiano dei prodotti biologici è uno tra i più importanti dell’UE
dopo Germania, Francia, e Inghilterra; esso produce un volume d’affari di circa
1,5 miliardi d’euro, rappresentando l’1,5% del mercato alimentare nazionale.
Segnali di forte crescita vengono da categorie quali il latte, i formaggi, gli
alimenti per bambini. La produzione della carne, invece, resta ancora lontana dal
soddisfare la domanda interna, per cui il deficit viene sopperito con importazioni
dalla Germania e dall’Austria.
Tuttavia, nel 2004 il Nomisma ha registrato una diminuzione della spesa di
prodotti biologici a livello nazionale. L’andamento è imputabile al diffuso
rallentamento nel consumo di prodotti alimentari che, per i prodotti più sensibili al
prezzo, si traduce in uno spostamento degli acquisti dal biologico al
convenzionale. In tale scenario si registra anche un calo nelle esportazioni di circa
il 20%(IFOAM 2005).
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Il Regolamento CE n. 1804/99 integra il Reg. CE 2092/91 per quel che
riguarda gli allevamenti biologici zootecnici e arriva solo dopo otto anni.
Considerando che il gap temporale nel recepimento a livello nazionale, in Italia è
stato reso operativo solo nel 2002.
La zootecnia biologica può interessare diverse specie animali, dagli
allevamenti bovini sino ad arrivare alle api, la sua presenza nelle aziende
biologiche è la massima espressione di una agricoltura naturalistica, nella quale il
ciclo della vita trova la sua conclusione e rigenerazione, rappresentando quindi un
tassello molto importante. La zootecnia, infatti, chiude il ciclo ecologico
dell’azienda fornendo letame, principale fonte di sostanza organica nel metodo
biologico. Inoltre, l’allevamento richiede l’investimento di superfici a foraggio,
pratica questa che non permette rotazioni strette nelle coltivazioni e quindi
l’impoverimento dei suoli.
La mancata regolamentazione comunitaria delle produzioni biologiche
animali ha rappresentato un freno alla loro diffusione, per l’incertezza in cui si
sono venuti a trovare i primi produttori. Questi, infatti, si sono dovuti attenere alle
norme stabiliti dai singoli stati o dalle regioni oppure, in mancanza di queste, agli
organismi di controllo.
Gia dai primi anni novanta era viva la necessità di un disciplinare univoco
per l’intera Unione Europea. Tuttavia, la strada per un effettivo accordo tra le parti
era ancora lunga.
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Tante sono le differenze climatiche, strutturali, socio-culturali nei diversi
paesi membri che si riflettono nell’allevamento zootecnico. Inoltre, alcuni paesi
del Nord Europa avevano una propria legislazione in materia già prima
dell’emanazione del Reg. CE 2092/91 e tali condizioni dilatarono i tempi di
formulazione del Regolamento.
La zootecnia biologica in Italia è attiva già dalla metà degli anni novanta
nell’ambito delle carni, sia in quello dei salumi, dei formaggi, sia pure con un
numero limitato di allevatori, che possiamo considerare dei veri pionieri.
Antecedente è la storia degli allevamenti biodinamici, che sappiamo essere
intimamente legati con le produzioni vegetali.
Il ritardo della normativa sulla zootecnia biologica ha costituito, nel nostro
paese, un forte freno alla diffusione delle produzioni animali biologiche a causa
della grande incertezza in cui si sono venuti a trovare i primi allevatori.
Negli ultimi anni, la zootecnia biologica ha guadagnato un posto di grande
rilevanza tra gli operatori e nell’opinione pubblica, in relazione alla crescente
esigenza in fatto di sicurezza alimentare, tematica ancor più enfatizzata in seguito
al fenomeno della BSE nelle carni bovine.
Il settore oggi è alla ricerca di un’affermazione economica e commerciale
alla stregua di quella già raggiunta dal comparto vegetale da alcuni anni. I dati
disponibili in merito ad operatori e consistenza degli allevamenti, forniti dagli
organismi di controllo sono ancora poco dettagliati se paragonati a quelli delle
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produzioni vegetali. Tuttavia possiamo tracciare un’immagine della zootecnia
biologica abbastanza nitida anche se povera di particolari.
Le produzioni animali biologiche nel nostro paese sono rappresentate
soprattutto da aziende dedite all’allevamento bovino con un numero di capi che
per il 2004 si attesta pari a 215.022 bovini. Di questi, in base all’indicazioni degli
organismi di controllo risalenti al 2002, più della metà producono latte.
Considerevoli sono pure gli allevamenti ovini e caprini (con 556.793 capi) i cui
prodotti finali sono soprattutto formaggi, e quelli dei suini (26.508 capi).
Seguono, in ordine di importanza, quelli di pollame (2.152.295 polli), conigli
(1.109) e api (67.713 arnie) (MiPAF 2004).
Le aziende dedite all’allevamento biologico in Italia sono ancora
relativamente poche, complice il ritardato avvio della regolamentazione
comunitaria e l’attenzione dei consumatori verso i prodotti biologici di origine
animale che è ancora minima, rispetto al potenziale di crescita del mercato.
A quelli già citati si aggiungono altri fattori frenanti che hanno influito sulla
conversione dai metodi di produzione convenzionali a quelli biologici. Essi
possono essere individuati come: fattori tecnici, fattori economici e quelli socio-
culturali ed istituzionali.
Perché il processo produttivo sia considerato effettivamente biologico
vengono individuati alcuni parametri tecnici, rappresentati essenzialmente dai
requisiti dei disciplinari di produzione, che vengono utilizzati per il monitoraggio
e la certificazione del prodotto. Spesso per aderire a questi parametri l’azienda
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deve operare un adattamento parziale o totale nella combinazione dei fattori
produttivi, modificano in misura sensibile il quadro dei costi e ricavi. Questa
condizione risulta fortemente influenzata dall'età, il grado di istruzione, la capacità
professionale dell’imprenditore agricolo, nonché dalla disponibilità di
informazioni e di sperimentazioni sugli esiti produttivi dei sistemi di produzione
biologica. Una maggiore qualificazione professionale consente di individuare
soluzione tecniche migliori nell'applicazione del metodo biologico e quindi di
ridurre la distanza che separa questo sistema da quello convenzionale.
1.2 Il biologico in Campania
Prima dell’applicazione del Reg.n 2078/92, nel 1997, la Campania contava
su un settore biologico costituito da appena 300 unità aziendali. Alla fine di quello
stesso anno il numero degli operatori era già passato a 500, per raggiungere nel
1999 le 1600 aziende.
Sul territorio campano sono, attualmente, presenti poco più di 1000 aziende
(Regione Campania 2004) condotte secondo il metodo biologico registrando una
contrazione rispetto ai recenti anni passati. Come riportato nella Tabella 1, risulta
evidente l’evoluzione del settore nella regione. Si può notare, infatti, che dal 2002
si registra un inversione di tendenza per cui il numero di aziende biologiche è
andato diminuendo, con un significativo calo nel 2003. Questo dato riflette le
dinamiche dell’intero settore a livello nazionale e trova spiegazione nelle stesse