2
disparati
5
, la cui produzione si rivolge ampiamente anche al mercato estero (35,4%), e
che sfruttano la loro grande flessibilità, pur dovendo talvolta subire gli effetti negativi
del decentramento produttivo.
Al momento il settore, che gode di una disciplina giuridica di favore voluta dal
costituente
6
, trova il suo pilastro normativo nella legge n. 443 del 1985, “legge-
quadro” per l’artigianato. Questa legge ha suscitato fin dalla sua pubblicazione critiche
da molti commentatori
7
e tale giudizio negativo a vent’anni di distanza, sembra doversi
riconfermare. La legge-quadro, infatti, non ha chiarito le difficoltà interpretative cui
aveva dato luogo la precedente normativa del 1956: anche oggi è incerta quale sia
l’efficacia dell’iscrizione all’albo delle imprese artigiane, che sembra attribuire
efficacia costitutiva anche della qualità di artigiano, il che si riflette sulle questioni della
fallibilità dell’artigiano, del riconoscimento del privilegio di cui all’art 2751 bis n. 5
c.c., e dell’applicazione della disciplina previdenziale. Inoltre non sono ben definiti i
confini della categoria degli imprenditori artigiani rispetto ad altre categorie quali
quella dei professionisti intellettuali, dei lavoratori autonomi e dei lavoratori
subordinati a domicilio
8
. Infine è incerto quale sia il ruolo della legge n. 443 del 1985 e
quale sia la potestà legislativa regionale in materia di artigianato dopo le “modifiche al
titolo V della Costituzione” apportate dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.
Questa tesi avrà per oggetto proprio l’analisi di questi profili, sui quali dottrina e
giurisprudenza sono ancora distanti da un sicuro approdo.
5
La Confartigianato ha classificato ben 870 tipi di attività (dal sito internet
www.confartigianato.it).
6
Art. 45 comma 2 Cost :” La legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato”.
7
Ex multis M. BIAGI La nuova legge quadro per l’artigianato: appunti ricostruttivi e profili di
diritto del lavoro, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 1986, I, p. 498 e ss.; M. BIN, Impresa artigiana
in Contratto e impresa, 1987, p. 230 e ss.; M. BOLLINO, Osservazioni in tema di qualificazione delle
imprese artigiane, in Giurisprudenza commerciale, 1989, II, p. 501, giunge a definire la legge-quadro
“sicuramente quanto di più scadente dal punto di vista tecnico il legislatore abbia prodotto negli ultimi
anni in materia di diritto dell’impresa”.
8
F. ZANLUCCHI, Manuale dell'impresa artigiana, Cedam, Padova, 2002, p. 20 e s.
3
SEZIONE II
L’EVOLUZIONE STORICO-LEGISLATIVA
CAPITOLO II. 1
BREVI INTRODUZIONI STORICHE: L’ARTIGIANO, UNA FIGURA CHE VIENE DA
LONTANO.
Il fenomeno artigianato risale alla civiltà romana. In quell’epoca gli artefices
iniziarono ad organizzarsi in vere e proprie associazioni chiamate collegia opificium,
che erano riconosciute dalla legge e dotate di autonomia statutaria, patrimoniale,
giuridica e di autogoverno. Tali istituzioni, molto influenti sui poteri pubblici, erano
soggette a una forte corruzione e per questo in età repubblicana (V-I sec a.C.) vennero
sciolte. Gli artigiani di fatto dovevano aderirvi qualora avessero voluto vedere tutelati i
loro interessi.
Nel medioevo si assiste alla massima espansione del fenomeno dato che la
categoria rappresentava sostanzialmente il ceto produttivo e in parte quello
commerciale: nascono così le arti, che riunivano tutti gli esercenti della stessa attività;
le arti erano poi riunite in una stessa corporazione; l’opera, che era costituita da
maestranze altamente specializzate, custodi di veri segreti, soprattutto architettonici; la
bottega, infine, costituiva la classica unità di formazione e produzione. La dimensione
del comparto era di fatto regolata sui bisogni dei mercanti che, dopo aver fornito la
commessa, a volte la materia prima e spesso gli strumenti di produzione, curavano la
delicata fase del collocamento del prodotto
9
.
9
E. ROMAGNOLI, in L'impresa artigiana nella l. 8 agosto 1985 n. 443 e successive modifiche e
integrazioni (l. n. 133 del 1997), Torino, 1999, p. 5 e ss.
4
CAPITOLO II. 2
IL PERIODO POST-RINASCIMENTALE.
Dopo il rinascimento l’artigiano, svincolato dagli aspetti culturali assorbiti dal più
alto livello delle accademie e delle università, stretto dai primi albori di quella che sarà
l’età industriale, conobbe una sorta di ghettizzazione che si incrementò a causa di
atteggiamenti di chiusura tra cui l’obbligo di albi a numero chiuso. Ciò condusse alla
abolizione delle corporazioni nemiche della libertà e accusate di “soggettare i
manufattori e i mercanti a pesi di diverse tasse e di tenere sempre al livello della
mediocrità la manifattura e.. accrescere i prezzi”
10
.
10
P. VERRI, in Meditazioni di economia politica, Utet , Torino, Classici dell’economia.
5
CAPITOLO II. 3
L’ILLUMINISMO E L’OTTOCENTO.
Questo modo di pensare, in sintonia con la teoria del liberismo economico di
Adam Smith, condusse prima in Francia, con la legge “Le Chapelier” del 1791, e poi in
altri Paesi europei, all’abolizione di ogni associazione di cittadini della stessa
professione
11
.
Anche in Italia le corporazioni, già abolite in Toscana, Lombardia e Sicilia,
vennero travolte con l’avanzata dei principi di libertà della rivoluzione francese. Solo
talune, non incidenti in modo pregnante sull’economia poterono rimanere in vita, fino
alla legge n. 1797 del 1864 che dichiarò “libero il lavoro per cui le abolite corporazioni
possedevano privilegio”
12
. Né il codice civile del 1865, né quello di commercio del
1882, si occuparono dell’artigiano, il quale era dunque assimilato all’industriale di
piccole dimensioni, che però non aveva alcuna autonoma rilevanza non essendo
previsto un “piccolo commerciante”; tuttavia gli industriali, in quanto titolari di
determinati tipi di imprese rientranti negli atti di commercio indicati nell’art. 3 del
codice di commercio
13
, erano commercianti in senso giuridico. Non lo erano invece gli
artigiani, perché gli atti costituenti attività artigiana non erano contemplati tra quelli di
commercio di cui al citato art. 3. Pertanto una stessa attività poteva essere artigiana o
commerciale in base al modo in cui era esercitata ed alle dimensioni che assumeva:
dalla determinazione (che spettava al giudice) derivava l’applicazione delle regole di
diritto comune o di diritto commerciale
14
.
11
E. ROMAGNOLI, L'impresa artigiana nella l. 8 agosto 1985 n. 443 e successive modifiche e
integrazioni (l. n. 133 del 1997), Torino, 1999, p. 8 e ss.; V. ALLEGRI, Impresa artigiana e legislazione
speciale, Milano, 1990, p. 6 e s.
12
P. GIOCOLI NACCI, voce Artigianato, in Enciclopedia Giuridica Treccani, 1987, p. 1; F.
FUSILLO, in Enciclopedia Giuridica Giuffré, 1958, voce Artigianato (diritto pubblico), p. 132.
13
Queste erano le imprese di somministrazione, di fabbriche e costruzioni, manifatturiere, di
spettacoli pubblici, tipografie, editrici o librarie, di trasporti di persone o di cose per terra o per acqua.
14
L. BOLAFFIO, in Il codice di commercio commentato, vol. I, Torino, 1922, p. 267: “.. il criterio
per distinguere l’artigiano dall’imprenditore manifatturiero si rinviene nella sussistenza di due elementi
che sono caratteristici dei mestieri e non dell’impresa di produzione, cioè nella prevalenza della capacità
tecnica dell’artigiano sul lavoro degli altri collaboratori e nella presenza di un capitale fisso investito
minimo”.
6
L’atteggiamento non interventista del legislatore post-unitario si risolveva in una
equiparazione dei due settori dell’artigianato e dell’industria, quasi a voler superare le
diatriba fra coloro che sostenevano che l’industria fosse sorta ad opera dei mercanti che
sfruttavano la lavorazione artigiana a domicilio (Verlagssystem)
15
; e coloro che
sostenevano, invece, che l’industria fosse un’evoluzione diretta dell’artigianato
16
.
15
T. ASCARELLI, Corso di diritto commerciale (Introduzione e teoria dell’impresa), terza
edizione, Milano, 1962, p. 6 e ss.
16
LUZZATO, Storia economica dell’età moderna e contemporanea, quarta edizione, II, Padova,
1958, p. 373 e ss.
7
CAPITOLO II. 4
IL PERIODO TRA LE DUE GUERRE.
Nel 1892 furono istituite le Camere di commercio e arti (nel 1910 rinominate
Camere di commercio e industria
17
) che avevano il compito di produrre al Governo le
informazioni e le proposte che giudicassero utili “al traffico, alle arti e alle
manifatture”
18
. Lo spirito associativo artigiano si conservava solo nelle confraternità e
nelle società di mutuo soccorso, che furono le basi per l’attuale sistema previdenziale e
sanitario.
Appare opportuno ricordare che nel 1907 fu emanato il regolamento n. 560 in
materia fiscale, il quale all’art. 79 stabiliva che “per la determinazione del reddito degli
artigiani l’agente riterrà di regola che quando il capitale é prevalente sulla mano
d’opera nella produzione del reddito, questo é da considerarsi nella categoria B”: fu
così introdotto il criterio distintivo della prevalenza del lavoro sul capitale, che diverrà
determinante nell’individuazione non solo dell’artigiano, ma anche del piccolo
imprenditore
19
, ed il quale dopo quasi un secolo continua ad affaticare gli interpreti
20
.
Nel periodo fascista si tornò ad occuparsi direttamente di artigianato, il quale fu
coinvolto nell’organizzazione corporativa dell’economia realizzata dal regime. La legge
n. 563 del 1926 definiva con incisività all’art. 5 quali artigiani “gli esercenti per proprio
conto una piccola industria nella quale essi medesimi lavorano”. Sempre nel 1926 il r.d.
n. 2224 approvava lo ”Statuto delle Federazioni delle comunità artigiane d’Italia”
aderente alla Confederazione degli industriali, nel quale veniva formulata una articolata
definizione delle botteghe artigiane
21
.
17
Il r.d. n. 830 del 1925 precisava che per piccole industrie si intendevano “quelle forme di attività
industriali limitate nei mezzi tecnici e in quelli economici, nelle quali il prodotto é dovuto in prevalenza
alla abilità personale dell’artefice, che lo esegue o concorre ad eseguirlo”. L’artigiano era totalmente
assorbito nel concetto di piccola industria, ma già erano presenti allo stato embrionale gli elementi
concettuali che sarebbero stati ripresi dalla legislazione successiva.
18
Art. 2 legge n. 680 del 20 luglio 1892.
19
Per il concetto di piccola industria vedi la precedente nota n. 17.
20
F. CAVAZZUTI, Le piccole imprese, in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico
dell'economia, diretto da F. GALGANO, Padova, 1978, p. 563.
21
“..tutte le officine dove sianvi da uno a più artieri, che lavorino con intenzione d’arte,
interamente a mano o con l’ausilio di mezzi meccanici per il solo sgrossamento o per la sola sbozzatura
della materia prima. Si ritengono altresì botteghe artigiane quelle dove si praticano i mestieri usuali,
anche senza intenzione d’arte e nelle quali però il lavoro sia compiuto dai membri di una stessa famiglia,
eccezionalmente con il concorso di qualche domestico.” F. HAZON, La definizione giuridica dell’impresa
artigiana, in Jus, 1957 p. 326 e ss.
8
Con le modifiche allo Statuto introdotte con il r.d. n. 388 del 1927 appaiono per la
prima volta determinazioni quantitative numericamente definite: per la bottega d’arte
fino a 5 dipendenti, per la bottega di mestieri usuali fino a 3 dipendenti. Nel 1933, con
r.d. n. 760, fu approvato un nuovo statuto della federazione, che all’art. 4 dava una
seconda definizione delle attività artigiane, ritornando però al concetto di piccola
industria: “tutti gli esercenti per proprio conto una piccola industria della quale
accentrano tutte le funzioni inerenti alla gestione ed in cui essi medesimi lavorano con
o senza l’aiuto di familiari e di un numero limitato di dipendenti, sia che il lavoro venga
eseguito in una bottega sia a domicilio sia nel luogo designato dal committente”.
L’anno successivo furono reintrodotti dal Ministero delle Corporazioni anche dei limiti
numerici
22
.
Per ciò che attiene il regime pubblicitario, la norma cardine era l’art. 47 del r.d.
n. 2011 del 1934 recante il T.U. delle leggi sui Consigli Provinciali Dell’Economia
Corporativa in cui veniva previsto che “chiunque esercitasse individualmente o in
società un’attività industriale, commerciale o agricola é tenuto a farne denuncia agli
Uffici provinciali dell’economia corporativa”. Interessante la previsione per cui i
suddetti organi dovevano provvedere d’ufficio alle iscrizioni nel caso in cui gli
imprenditori non l’avessero fatto o avessero fornito indicazioni sommarie ed inesatte,
che sembra richiamare la posizione del legislatore del 1985 riguardo all’obbligatorietà e
procedibilità d’ufficio all’iscrizione all’albo
23
(sez. IV, cap. 2).
22
F. CAVAZZUTI, Le piccole imprese in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico
dell'economia, diretto da F. GALGANO, Padova, 1978 , p. 133.
23
E. ROMAGNOLI, L'impresa artigiana nella l. 8 agosto 1985 n. 443 e successive modifiche e
integrazioni (l. n. 133 del 1997), Torino, 1999, p. 12.; F. FUSILLO, voce Artigianato (diritto pubblico), in
Enciclopedia Giuridica Giuffré, 1958, pp. 134-135.
9
CAPITOLO II. 5
LA DEFINIZIONE DI ARTIGIANO NELLE LEGGI SPECIALI E NEL CODICE DEL 1942.
A) IL LIBRETTO DI MESTIERE.
La legge n. 1090 del 24 luglio 1942 ebbe molta importanza in quanto mirava ad
una particolare tutela per alcuni tipici mestieri artigiani
24
. Essa subordinava al rilascio
di un apposito libretto di mestiere l’esercizio professionale di tali attività. Tale libretto
era rilasciato dal Podestà, sentita un’apposita commissione, con la possibilità di diniego
qualora il tipo di produzione fosse già copiosamente presente in zona, e l’esercizio
abusivo era pesantemente punito. Di fatto, la legge 1090/1942 non ebbe pratica
attuazione a causa della caduta del regime che l’aveva ispirata e del suo ordinamento
economico, e fu abrogata nel 1945, insieme a tutto l’apparato corporativo e sindacale.
Proprio per essere nato dal regime fascista, il libretto di mestiere é sottoposto ad una
pregiudiziale tale, che nel nostro Paese non si é mai potuta sperimentare su base
concreta la bontà o meno di tale istituto
25
.
Del 1942 resterà invece la norma del codice civile (art. 2083)
26
, che inquadra
l’artigiano nella disciplina dell’impresa e lo qualifica come piccolo imprenditore. Tale
articolo é sembrato fin da subito incompleto, in quanto inquadrava l’artigiano nella
figura del piccolo imprenditore, senza che dell’artigiano esistesse nell’ordinamento una
definizione cui si potesse fare rinvio. All’origine infatti l’artigiano era individuato dal
possesso del libretto di mestiere, il quale però era venuto a mancare
27
: al di là
dell’ovvia criticabilità di quella disciplina sul piano dei contenuti, é indubbio che essa
avesse un suo intrinseco coordinamento
28
.
24
Sarti da uomo e da donna, modiste, pellicciai, riparatori e produttori di calzature a mano,
decoratori e pittori, fabbri, meccanici, falegnami, mobilieri, materassai, elettricisti compresi quelli d’auto,
barbieri, parrucchieri ed affini, trasportatori di cose mediante veicoli a trazione animale. F. FUSILLO,
voce Artigianato (diritto pubblico), in Enciclopedia Giuridica Giuffré, 1958, p. 134.
25
Anche se da taluni viene invocata in vista di una maggior tutela dei consumatori, o perché si é
visto come in alcuni Paesi ( per es. la Germania), tale istituto abbia contribuito alla valorizzazione della
categoria e al miglioramento del prodotto. Ne tratta ampiamente E. ROMAGNOLI, L'impresa artigiana
nella l. 8 agosto 1985 n. 443 e successive modifiche e integrazioni (l. n. 133 del 1997), Torino, 1999, p.
49 e ss.
26
Art. 2083 c.c. (Piccoli imprenditori): Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo,
gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata
prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia.
27
Come del resto avevano perso ogni efficacia giuridica i criteri fissati dalle norme statutarie della
Federazione nazionale della categoria per identificare le attività artigiane. F. FUSILLO, voce Artigianato
(diritto pubblico), in Enciclopedia Giuridica Giuffré, 1958, p. 136.
28
V. ALLEGRI, Impresa artigiana e legislazione speciale, Milano, 1990, p. 8 e ss.
10
Al vuoto normativo si sopperì con le disposizioni ministeriali del 1946 per
l’inquadramento delle attività artigiane nella categoria “C-1” ai fini dell’imposta di
ricchezza mobile, che sanciva una sostanziale equiparazione fiscale dell’artigiano al
lavoratore autonomo, distinto dall’imprenditore vero e proprio cui era dedicata la
categoria “B”. Si aggiunsero inoltre le norme legislative in materia di assegni familiari
per i dipendenti delle “aziende” artigiane, nonché altri differenti criteri amministrativi
per l’individuazione delle attività artigiane (in materia di danni di guerra, di tariffe
telefoniche, del censimento di attività economiche, et cetera…)
29
.
Tutti questi interventi normativi, determinarono però un crescente stato di
confusione ed incertezza, lontano dalle richieste della classe e dallo spirito informatore
dell’art. 45 comma 2 della Costituzione, che era stata da poco promulgata. Per trovare
una sintesi ormai necessaria, si doveva attendere la legge n. 860 del 1956, che recando
la prima disciplina organica della materia, offrì lo strumento atteso dai pratici e studiosi
per avviare una configurazione sistematica del comparto.
B) L’ARTICOLO 2083 DEL CODICE CIVILE.
30
La nuova codificazione valorizza la figura del piccolo imprenditore all’art. 2083,
e sembra che l’analisi storica sin qui condotta possa essere di ausilio
nell’interpretazione di tale norma. La chiave di lettura storica mostra con chiarezza che
il legislatore del 1942 configura unitariamente la categoria dei piccoli imprenditori e
che l’elemento unificatore è quello della prevalenza del lavoro proprio e dei familiari su
quello altrui: sono infatti le stesse leggi speciali antecedenti il codice che ammettevano
all’artigiano di valersi di mano d’opera dipendente entro limiti strettamente fissati. In
altre parole, già con le leggi speciali del periodo corporativo l’artigiano aveva trovato
un abbozzo di definizione che lo portava ad uscire dai confini delle categorie
meramente sociologiche, per assumere una configurazione legale di un certo rilievo e
che questa è il riferimento del codice nel dettare l’art. 2083, che unifica le diverse
figure in quella unica di “piccolo imprenditore”
31
. Tuttavia, fin da subito, si è posto il
problema del rapporto fra le figure nominate di piccoli imprenditori (artigiani,
29
E. ROMAGNOLI, L'impresa artigiana nella l. 8 agosto 1985 n. 443 e successive modifiche e
integrazioni (l. n. 133 del 1997), Torino, 1999, p. 15 e ss.
30
Art. 2083 c.c. (Piccoli imprenditori): Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo,
gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata
prevalentemente con il lavoro proprio o dei componenti della famiglia.
31
F. CAVAZZUTI, Le piccole imprese, in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico
dell'economia, diretto da F. GALGANO, Padova, 1978, p. 549 e ss.
11
coltivatori diretti e piccoli commercianti), e il criterio di prevalenza del lavoro familiare
nell’attività d’impresa: la summa divisio sta tra chi ritiene che il criterio della
“prevalenza” individui una quarta categoria di piccoli imprenditori, e chi invece ritiene
che sia un criterio generale di identificazione per le tre figure nominate (vedi anche sez.
V, cap. 1 e 5).
L’interpretazione più corretta sembra essere quella adottata dalla dottrina
prevalente
32
, la quale ritiene che il criterio della “prevalenza del lavoro proprio e dei
componenti della famiglia” sia il denominatore comune di tutte le figure nominate di
“piccolo imprenditore”
33
. In sostanza la seconda parte dell’art. 2083 c.c. contiene la
vera definizione (generica), comprensiva delle tre categorie (specifiche). Sono piccoli
imprenditori solo le figure nominate, qualora rispettino il criterio della prevalenza del
lavoro familiare sugli altri fattori produttivi.
Un’altra corrente
34
sosteneva che il criterio della prevalenza avrebbe identificato
anche una quarta categoria di piccolo imprenditore, ferme restando le figure nominate
comunque accomunate dalla prevalenza del lavoro familiare: oltre alle figure nominate
sarebbe piccolo anche ogni imprenditore che rispetti il criterio della “prevalenza”.
Infine c’è chi
35
ha dato un’interpretazione che ha rovesciato il primo indirizzo,
annoverando tra i piccoli imprenditori chiunque venga inquadrato in una delle figure
nominate (a prescindere dal requisito della “prevalenza”), e chiunque rispetti il criterio
della prevalenza del lavoro familiare. In altre parole, nelle due parti dell’art. 2083,
sarebbero stabiliti due criteri diversi per il riconoscimento di “piccolo imprenditore”,
l’uno indipendente dall’altro.
Tuttavia il vero nodo problematico, che risulta assai difficile da sciogliere, e che è
l’oggetto principale di questa tesi, è il rapporto che intercorre tra l’art. 2083, la legge
fallimentare (r.d. n. 247 del 1942 e successive modifiche) e le numerose leggi speciali
che si sono susseguite in materia di artigianato (sezioni IV e V). Premettiamo che
sembra corretto ritenere ancora valida la definizione di artigiano data dalla disposizione
codicistica, e in particolare del criterio di prevalenza del lavoro familiare sul capitale
32
M. BIN, La piccola impresa industriale, Bologna, 1983, p. 19 e ss.
33
Questa tesi venne sviluppata per primo da W. BIGIAVI, La piccola impresa, Giuffrè, Milano,
1947, p. 41 e ss.
34
F. FERRARA jr., Imprenditori e società, Giuffrè, Milano, 1974, p. 55.
35
M. CASANOVA, Impresa e azienda, in Trattato di diritto civile, diretto da F. VASSALLI, Torino,
1974, p. 145.
12
investito (se non in termini quantitativi, almeno a livello qualitativo), nei rapporti
interprivati e in particolare per quanto riguarda le procedure concorsuali
36
.
C) LA COMMERCIALITÀ DELL’IMPRESA ARTIGIANA.
La mancanza nel dato codicistico di una precisa identificazione dell’impresa
artigiana
37
ha portato, dapprima, a parlare di agnosticità
38
del legislatore nei confronti
dell’artigiano e ha dato luogo, poi, a notevoli dubbi sulla natura commerciale o meno
dell’attività da lui svolta
39
, in quanto nel nostro sistema attuale, il titolo fondamentale
della commercialità è dato dall’organizzazione industriale di determinate attività
produttive (art. 2195 c.c.): il minor rilievo che questo elemento presenta nei riguardi
della figura dell’artigiano, assume un notevole valore ostativo.
Secondo l’opinione prevalente
40
l’impresa artigiana ha natura commerciale
poiché le imprese si dividono in due sole categorie, agricola e commerciale. Tutte le
imprese che non sono agricole, cioè che non hanno per oggetto attività dirette alla
coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all’allevamento del bestiame e alle attività
connesse (art. 2135 c.c.), sono commerciali non essendovi spazio per altri tipi di
imprese. Posto che le imprese artigiane non hanno per oggetto l’attività agricola, bensì
la produzione di beni e servizi, come indicato nell’art. 3 della legge n. 443 del 1985, ne
36
Cfr. F. CAVAZZUTI, Le piccole imprese in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico
dell'economia, diretto da F. GALGANO, Padova, 1978, pp. 569 e ss. e 615 e ss.
37
La commistione operata dall’art. 2083 del codice civile, tra artigiani, coltivatori diretti del fondo
e piccoli commercianti, e il fondamento del dato dimensionale che si appunta esclusivamente sul fattore
organizzativo, non agevolano l’individuazione della natura dell’attività svolta dall’artigiano. Si veda M.
E. GALLESIO-PIUMA, voce Impresa artigiana, in Digesto delle discipline privatistiche, 1987, p. 144.
38
L. MOSSA, Artigianato e nuovo diritto commerciale, in Foro Italiano, 1942, I, p. 1128.
39
M. CASANOVA, Impresa e azienda, in Trattato di diritto civile diretto da F. VASSALLI, Torino,
1974, tomo I, fasc. 1, p. 130.
40
W. BIGIAVI, La piccola impresa, Giuffrè, Milano, 1947, p. 83 e ss.; A. DALMARTELLO, La
nuova legge sull’impresa artigiana e la nozione di piccola impresa, in Jus, 1957, p. 523 e ss.; G. OPPO,
Note preliminari sulla commercialità dell’impresa, in Rivista di diritto civile, 1967, II, p. 561 e ss.; V.
ALLEGRI, Impresa artigiana e legislazione speciale, Milano, 1990, p. 151; F. GALGANO, L’imprenditore,
in Diritto commerciale, vol. I, Bologna 1991, p. 35; G. COTTINO, Diritto commerciale, Padova, 1993, p.
151; L. PISANI, L’impresa artigiana in forma societaria e l’art. 1 della legge fallimentare, in
Giurisprudenza commerciale, 1993, II, p. 20 e s., nota a Cort. Cost., 23 luglio 1991, n. 368, Cort. Cost.,
31 ottobre 1991, ord. N. 391 ed a Trib. Napoli, 5 dicembre 1991; A. PATRONI GRIFFI, La nuova
disciplina delle società artigiane, in Giur. comm., 1998, I, p. 505; R. ROSAPEPE, Considerazioni in tema
di società artigiane, in Giur. comm., 1999, I, 486 e ss.; infine E. ROMAGNOLI, L'impresa artigiana nella
l. 8 agosto 1985 n. 443 e successive modifiche e integrazioni (l. n. 133 del 1997), Torino, 1999, p. 79 e s.,
sembra auspicare che l’imprenditore artigiano venga creata una particolare categoria distinta da quelle
dell’imprenditore agricolo e dell’imprenditore commerciale. Sostiene che l’artigiano sia titolare di uno
specifico “statuto”, in quanto è sottoposto a particolari obblighi di registrazione (previsti dalla legge
443/85); la sua attività è caratterizzata da professionalità e personalità dell’esercizio, che implicano il
possesso di requisiti tecnico-professionali previsti dalle leggi statali; esistono precisi limiti dimensionali.
L’autore, tuttavia, riconosce esplicitamente che l’impresa artigiana è un’impresa commerciale.
13
consegue che esse sono piccole imprese commerciali. L’impresa artigiana è un
particolare tipo di impresa commerciale, rientrando nella definizione dell’art. 2195 del
codice civile
41
. A conferma dell’esattezza di tale impostazione si ricorda che l’art.
2195 c.c. al n. 3 elenca tra le imprese commerciali le imprese di trasporto che l’art. 4
della legge n. 443 del 1985 indica tra le imprese che possono essere artigiane.
Una dottrina minoritaria
42
e fortemente controversa, oramai sostenuta da pochi
autori, definisce l’impresa artigiana non come impresa commerciale, bensì come
impresa civile, o comunque come appartenete ad una categoria a parte. Tale
orientamento si fonda sull’assunto che mentre l’impresa agricola è ben definita dall’art.
2135 c.c., ed è commerciale l’impresa che rientra nella definizione dell’art. 2195 c.c.,
residuerebbe una categoria definibile per sottrazione e in cui rientrano tutte quelle
imprese che non sono né agricole, né commerciali. L’impresa artigiana non dovrebbe
essere considerata commerciale mancando del requisito dell’industrialità richiesto
dall’art. 2195, n. 1 del codice civile. L’artigiano sarebbe quindi, ratione materiae, al di
fuori dal diritto commerciale, e non sarebbe sottoposto allo statuto dell’imprenditore
commerciale: sarebbe, pertanto, piccolo imprenditore ma non piccolo imprenditore
commerciale
43
.
Il senso della disputa risiede nel fatto che l’inquadramento dell’impresa artigiana
come commerciale o meno, comporta rilevanti conseguenze: basti ricordare che le
imprese non commerciali non sono mai sottoponibili alle procedure concorsuali e che, a
differenza di quelle commerciali, possono assumere la veste di società semplici (art.
2249, comma 1).
41
Art. 2195 c.c. (Imprenditori soggetti a registrazione): Sono soggetti all’obbligo dell’iscrizione
nel registro delle imprese gli imprenditori che esercitano:
1) un’attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi;
2) un’attività intermediaria nella circolazione dei beni;
3) un’attività di trasporto per terra, per acqua o per aria;
4) un’attività bancaria o assicurativa;
5) altre attività ausiliari delle precedenti.
Le disposizioni della legge che fanno riferimento alle attività e alle imprese commerciali si
applicano, se non risulta diversamente, a tutte le attività indicate in questo articolo e alle imprese che le
esercitano.
42
A. DE MARTINI, Impresa artigiana e impresa industriale, in Studi in memoria di Lorenzo
MOSSA, vol. I, Padova, 1961, p. 482 e ss.; M. CASANOVA, Impresa e azienda, in Trattato di diritto civile
diretto da F. VASSALLI, Torino, 1974, tomo I, fasc. 1, p. 127 e ss.; P. GUALTIEROTTI, L’impresa
artigiana, Milano, 1977, p. 110; F. FERRARA jr., Imprenditori e società, Giuffrè, Milano, 1987 (VII ed.),
p. 58.
43
Per una più completa esposizione si veda A. DALMARTELLO, voce Artigianato (diritto privato),
in Enciclopedia Giuridica Giuffrè, 1958, p. 165 e ss.
14
Per risolvere la questione, nel senso della commercialità dell’impresa artigiana,
occorre fare alcuni rilievi. In primo luogo, bisogna ricordare che per il legislatore del
’42, l’aggettivo industriale non era in antitesi con quello di artigiano
44
, sebbene sia
pacifico che imprenditore industriale e artigiano siano caratterizzati, nelle modalità di
produzione, il primo dalla serialità, il secondo dalla prevalenza del lavoro manuale
45
.
Da questo elemento letterale è azzardato, dunque, fare discendere una contrapposizione
tra attività artigiana e industriale. In secondo luogo è necessario tenere conto delle
novità introdotte recentemente dal legislatore che con le leggi 20 maggio 1997, n. 133 e
5 marzo 2001, n. 57, ha previsto che l’impresa artigiana possa essere esercitata in forma
di società in accomandita per azioni e di società a responsabilità limitata sia
unipersonale sia con pluralità di soci, cioè di società che hanno normalmente natura,
oltre che forma, commerciale. Sul piano pratico, inoltre, non risultano casi di società
semplici iscritte all’albo delle imprese artigiane. Inoltre, la legislazione italiana dal
dopoguerra a oggi, ha reso sempre più labile la distinzione tra impresa artigiana e
piccola impresa industriale sino a farla quasi sparire
46
: sia la legge del 1956, sia la
legge-quadro del 1985, hanno allargato molto la categoria delle imprese qualificabili
come artigiane fino a ricomprendervi anche imprese che producono in serie (sez. III
cap. 2). Bisogna considerare, infine, che l’oggetto dell’attività dell’impresa artigiana, la
prestazione di beni e servizi di cui all’art. 3 legge n. 443/85, può essere svolta anche da
un’impresa non artigiana rientrante tra quelle elencate dall’art. 2195 c.c.
47
.
Se nell’immediato dopoguerra poteva forse essere sostenibile la tesi della natura
non commerciale delle imprese artigiane, essa appare ora difficilmente difendibile
48
.
44
Nella Relazione del Ministro guardasigilli al codice civile, al n. 836 si definisce l’artigiano
quale “ piccolo imprenditore in campo industriale”. Si tenga conto anche del fatto che in tutta la
legislazione antecedente la seconda guerra mondiale non c’è una netta differenza tra i concetti di piccola
industria e artigianato. Cfr. F. ZANLUCCHI, Manuale dell'impresa artigiana, Cedam, Padova, 2002, p. 27.
Va tenuto presente che lo stesso piccolo commerciante non va inteso semplicemente come piccolo
intermediario nella circolazione di beni, ma come piccolo imprenditore commerciale, dal quale
l’artigiano si differenzia per un quid pluris, dato le sue tipiche modalità di produzione.
45
Per l’analisi del significato e dell’importanza di tale requisito (lavoro manuale) rimando ai
successi paragrafi specificamente dedicati (sez. III, cap. 2).
46
Cfr. M. BIN, Impresa artigiana, in Contratto e impresa, 1986, p. 241 e ss.
47
Anche per gli effetti concreti a cui porta, la tesi che vuole distinguere tra impresa commerciale e
impresa artigiana appare poco soddisfacente. Basti pensare al caso di un’impresa nella quale cambi il
numero dei dipendenti, risultando, a seconda dei casi, a volte artigiana ,altre volte no. E risultando quindi
a volte impresa commerciale e le altre volte no. Da questo esempio si comprende con facilità quanto
poco sarebbe netto il confine tra impresa commerciale non artigiana e impresa artigiana. F. ZANLUCCHI,
Manuale dell'impresa artigiana, Cedam, Padova, 2002, p. 29.
48
Un elemento testuale, che potrebbe invece essere usato come argomento a favore della
configurabilità di società semplici artigiane e quindi della natura non commerciale, è costituito dall’art. 8
D.P.R. 18 marzo 1957, n. 266- Norme di attuazione della legge n. 1533 del 1956, per l’assicurazione
obbligatoria contro le malattie per gli artigiani- la quale prendeva esplicitamente in considerazione la
15
Anche in base alle considerazioni esposte, appare dunque corretto ritenere
l’impresa artigiana come una specie particolare, molto diffusa, di impresa commerciale.
È da tenere presente, tuttavia, che la giurisprudenza sembra sia stata notevolmente
influenzata (sia sotto il vigore della legge n. 860 del 1956, sia sotto quello dell’attuale
legge-quadro per l’artigianato), dalla tesi che sostiene la non commercialità delle
imprese artigiane. In particolare, un importante orientamento giurisprudenziale fa
dipendere la sottoponibilità al fallimento e il riconoscimento del privilegio di cui all’art.
2715 bis, n. 5 c.c., dal fatto che l’impresa produca guadagno e non profitto
49
. Le
pronunce inquadrabili in tale filone giurisprudenziale non dichiarano esplicitamente che
le imprese artigiane siano da considerarsi imprese civili, tuttavia si capisce egualmente
il ragionamento sotteso: se l’impresa produce un modesto guadagno è impresa non
commerciale, viceversa, se produce profitto essa è commerciale
50
.
D) L’ORGANIZZAZIONE COME REQUISITO DELL’IMPRESA ARTIGIANA.
L’artigiano è definito imprenditore dalla nostra normativa e la sua attività è
d’impresa. Ne consegue che egli per ottenere l’iscrizione all’albo deve essere in
possesso, tra gli altri, dei requisiti di cui all’art. 2082 c.c.
51
che dà la definizione di
imprenditore. Tuttavia in dottrina è controverso se il piccolo imprenditore dei cui
all’art. 2083 c.c., per essere tale debba anche svolgere un’attività organizzata come
all’articolo precedente. È pacifico ormai che l’organizzazione imprenditoriale può
essere costituita, sia dalla combinazione di lavoro e capitale, sia solo da lavoro, sia solo
da capitale: alcuni autori
52
, però, sostengono che il piccolo imprenditore sia tale anche
quando svolga la sua attività senza organizzazione alcuna, né di capitale, né di lavoro,
differenziandosi così dall’imprenditore medio-grande dell’art. 2082 c.c. Infatti l’art.
possibilità che vi fossero anche imprese artigiane in forme di società semplice. Va considerato tuttavia
che tale decreto si riferisce ad una normativa abrogata con l’istituzione del servizio sanitario nazionale, e
che la successiva evoluzione legislativa ha fatto sempre più evolvere l’impresa artigiana verso forme di
capitalismo che sono tipiche delle imprese commerciali.
49
V. ALLEGRI, In tema di società artigiane, in Studi in onore di Gastone Cottino, vol. I, 1997, p.
294 e ss. Faccio rinvio alla sezione V cap. 4 del presente lavoro.
50
Tale filone giurisprudenziale ha origine nella sentenza n. 519 del 14 marzo 1962 della I sezione
civile della Corte di Cassazione: vedi in Giurisprudenza italiana, vol. CXIV, 1962, parte I, sezione I p.
809 e ss., con Nota “L’artigiano non è soggetto alla procedura fallimentare” di G. PAGLIARULO.
51
Art. 2082 c.c. (Imprenditore): “É imprenditore chi esercita professionalmente una attività
economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”.
52
Il primo a sostenere questa tesi fu W. BIGIAVI, in La piccola impresa, Giuffrè, Milano, 1947, p.
85 e ss.; più di recente si veda F. GALGANO, L’imprenditore, in Diritto commerciale, vol. I, Bologna
1991, p. 30, che definisce l’organizzazione un “pseudorequisito”; e F. CAVAZZUTI, Le piccole imprese, in
Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell'economia, diretto da F. GALGANO, Padova, 1978,
p. 572 e s.