Massimiliano Monaco - Donato Menichella all’IRI (1933-1946)
do la prima parte della vasta e incessante opera di Menichella, la quale, per diffuso riconoscimento,
rappresenta la struttura portante, le fondamenta del suo pensiero e del suo successivo, più recente e
meglio conosciuto operare, è interessante notare come ai risanamenti e alle grandi riforme portate a
termine negli anni Venti e negli anni Trenta egli rimase sempre legato. La separazione tra banca e
industria e la divisione del lavoro bancario ispirò e caratterizzò il suo governatorato; così come risa-
liva agli anni che lo videro dirigere l’IRI l’impostazione di una prima politica meridionalistica indu-
striale italiana e il disegno di favorire lo sviluppo delle piccole imprese locali. Da quelle “conquiste”
Menichella non osò mai discostarsi, con una continuità di impostazione e una integrazione operativa
che sono alla base dell’intera sua opera finanziaria, nonché del più recente sviluppo economico del
nostro Paese (3).
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Donato Menichella è chiamato all’IRI subito dopo la costituzione dell’ente, il 19 aprile 1933 e posto
dal presidente Beneduce a capo della Sezione Smobilizzi dell’Istituto. Il 18 maggio assume anche
l’incarico di direttore della Sezione Finanziamenti Industriali e il 21 agosto 1934, con la creazione
della carica, è nominato Direttore Generale.
All’IRI Menichella veniva a porre riparo a un dissesto bancario di dimensioni enormi, il quale sca-
turiva dalla degenerazione operata dalle banche “miste” italiane le quali, finanziando non solo il ca-
pitale di esercizio, ma anche il capitale di rischio e le perdite dei gruppi industriali, e per la diffusa
situazione di crisi congiunturale di quegli anni, avevano trasformato le linee di credito concesse alle
imprese in capitale azionario, cioè in partecipazioni nelle industrie finanziate. Questa prassi operati-
va, se permetteva alle banche di tutelare i loro precedenti impieghi, finiva per far assumere alle stes-
se il ruolo di holding finanziarie, ossia di vere e proprie imprese capogruppo, costrette ad acquistare
sempre maggiori quantitativi di titoli azionari delle società controllate, sia per sostenerne i corsi, sia
per non costringerle al fallimento, pena l’inevitabile e negativo coinvolgimento delle stesse banche
finanziatrici nel dissesto. Così facendo, tuttavia, gli istituti di credito venivano a beneficiare del van-
taggio di poter disporre dei depositi dei risparmiatori come fonte di finanziamento diretta della pro-
duzione. I grandi gruppi industriali - a loro volta - per liberarsi dell’influenza dei banchieri nei loro
Consigli di amministrazione, davano l’assalto ai pacchetti di maggioranza delle banche. In breve
tempo la situazione era divenuta paradossale: le imprese erano prigioniere delle banche e le banche
delle imprese, in una congestione di rapporti che Raffaele Mattioli, citando il Pulci, non esitava a
definire di “catobleptismo” (4). Non essendovi più distinzione tra produzione e finanza, tra capitale
di rischio e capitale di prestito, e quindi tra momento della valutazione imprenditoriale e momento
della valutazione finanziaria, larga parte del sistema industriale e - insieme - bancario del Paese mi-
nacciava di crollare, con conseguenze imprevedibili su tutta l’economia.
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All’IRI Menichella fu l’artefice, insieme ad un ristretto numero di altri esperti (Alberto Beneduce,
Francesco Giordani, Sergio Paronetto, Pasquale Saraceno) di quei coraggiosi ed imponenti provve-
dimenti di risanamento e di riforma grazie ai quali venne archiviata la gravissima crisi del sistema
dei rapporti finanziari del Paese, portando a compimento quella che Guido Carli ha definito “la più
grande ristrutturazione finanziaria della storia d’Italia” (5); riforma che avrebbe segnato una svolta
decisiva nella struttura economica della nostra nazione, dando luogo allo Stato-impresa, cioè alla
formula italiana dell’”economia mista”; un modello preso ad esempio già nell’anteguerra dai paesi
scandinavi.
L’intero programma di intervento dell’IRI, successivamente sottoposto al vaglio delle autorità di go-
verno, venne interamente redatto da Donato Menichella in un famoso rapporto datato 5 dicembre
1933 (6). Questo documento contiene già completo il disegno che sarà poi realizzato dall’IRI e al
quale Menichella resterà sempre fedele: superamento delle difficoltà finanziarie e rilancio dell’appa-
rato industriale del Paese, netta distinzione tra banca e industria, separazione istituzionale tra credito
a breve e credito a medio e lungo termine, articolazione del sistema creditizio in banche commercia-
li e istituti di credito mobiliare, carattere pubblico della moneta e del credito, necessità di accentuare
i poteri di vigilanza della Banca d’Italia e di trasformarla in una vera e propria Banca Centrale, ri-
lancio delle banche locali.
Rigoroso assertore della separatezza tra rischio di banca e rischio d’impresa, nonché avversario di
qualsiasi forma di monopolio o concentrazione di poteri che non fosse giustificato da provati motivi
di interesse comune, per Menichella la strumentalizzazione dei depositi bancari a fini industriali, at-
traverso l’impiego in partecipazioni di controllo del denaro dei risparmiatori, oltre che rappresentare
una scelta altamente destabilizzante, non costituiva affatto attività creditizia. Per l’uomo di finanza
pugliese occorreva allora realizzare una profonda riforma del sistema di intermediazione creditizia
del Paese, tale da far cessare definitivamente ogni confusione tra credito industriale e credito com-
merciale e restituire nel contempo alla Banca d’Italia il ruolo di garante istituzionale del sistema
monetario e finanziario, una volta cessato il suo compito di istituto rifinanziatore degli immobilizzi
bancari.
La tecnica operativa dell’IRI, quale emerge dallo studio del 1933, prevedeva i seguenti passaggi: at-
traverso la firma di una serie di convenzioni, stipulate nel marzo 1934, i tre grandi istituti di credito
del tempo (Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano e Banco di Roma, che insieme raccoglie-
vano l’80% dei risparmi nazionali), a fronte dello smobilizzo pubblico delle loro partecipazioni
azionarie e creditizie, si impegnavano a limitare le proprie operazioni ad investimenti “di pronta li-
quidità, escluso ogni immobilizzo di carattere industriale” (7), cioè a trasformarsi in banche di cre-
dito ordinario. Il seguito dell’intervento risulta ampiamente acquisito alla storiografia economica,
per cui l’IRI, rilevando dalle tre banche in crisi le partite immobilizzate (crediti inesigibili e parteci-
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pazioni industriali) iscritte nei loro bilanci al valore nominale, riconobbe alle stesse un credito per
circa 10 miliardi di lire, pari al decimo del reddito nazionale del tempo. La chiave dell’operazione
fu proprio questa: le perdite degli istituti di credito non vennero coperte, come era avvenuto fino ad
allora, con creazione di nuova base monetaria, ma attraverso il riconoscimento ai tre istituti di un
credito ventennale e la contestuale accensione di un debito quarantennale dell’IRI nei confronti del-
l’Istituto di emissione (8). L’immissione di nuova liquidità nel sistema avrebbe infatti definitiva-
mente compromesso ogni obiettivo di stabilità e di cambio che il governo, con la politica di “quota
novanta” si proponeva di realizzare. L’operazione risultò un vero successo: la tranquillità dei rispar-
miatori fu presto ristabilita e nel giro di pochi anni le banche risanate tornarono a registrare un suffi-
ciente grado di liquidità e, insieme, di redditività.
L’azione dell’IRI fu la vittoria della linea portata avanti da Menichella: la risolutezza e la rapidità
con cui la complessa operazione venne condotta, il suo successo, il totale abbandono dei vecchi
schemi e l’assoluta estraneità della sua impostazione alle aspettative e alla cultura del tempo erano il
frutto della eccezionale esperienza maturata dal giovane Menichella negli anni passati alla liquida-
zione della Banca Italiana di Sconto e dal fatto che all’IRI - sotto la direzione di Menichella - lavo-
rava un silenzioso “brain trust” di uomini (9) animati da una non comune passione civile, che nulla
aveva a che fare con il regime fascista e che, anzi, dovettero pagare prezzi formali alla retorica del
tempo, combattendo le ostilità e le diffidenze che provenivano dal Ministero delle Corporazioni e
dalla Confederazione delle aziende di credito, i quali propugnavano per una soluzione del tutto di-
versa - e di stampo autoritario - da dare alla crisi.
Con la “riforma Menichella” (10), successivamente sancita nel corpo normativo del R.D.L. 12 mar-
zo 1936 n. 375, meglio noto come “legge bancaria” - pure opera di Menichella - le aziende di credi-
to, sollevate dal peso degli immobilizzi industriali, vennero vincolate all’esclusivo esercizio del cre-
dito ordinario, mentre il credito industriale e quello a medio e lungo temine vennero concentrati in
istituti specializzati, in modo tale da separare definitivamente le sorti delle banche da quelle delle
imprese finanziate; rendere operativo il principio per il quale credito e risparmio venivano ad assu-
mere rilevanza di interesse pubblico; garantire una corretta gestione bancaria e, in ultima analisi, un
comportamento più rispettoso della fiducia dei depositanti. Da quel momento cessava per sempre la
prassi dei salvataggi bancari a spese dello Stato, così come la pratica delle “banche industriali”; i
grandi gruppi industriali, invero, come sbocco ai loro problemi finanziari, non avrebbero più dato
l’assalto ai pacchetti di comando delle banche e il sistema creditizio si sarebbe sviluppato secondo
uno schema generale, ordinato e ben controllabile. Nessun dissesto bancario poté inoltre trarre origi-
ne da intrecci di rapporti tra banche e imprese e nessuno può dubitare che il lungo periodo di stabili-
tà e di progresso economico del secondo dopoguerra fu largamente favorito dall’esistenza nel nostro
Paese di un ordinamento creditizio permeato da principi pubblicistici e affidato, per la sua attuazio-
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ne, alla gestione di chi ne poteva fornire un’interpretazione autentica come nessun altro, essendone
stato l’ispiratore: il Governatore Menichella.
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Fra le partite cedute all’IRI nel marzo 1934 rientravano, naturalmente, anche gli interi portafogli di
valori mobiliari industriali posseduti dalle banche, nonché le azioni delle banche non circolanti fra il
pubblico e detenute da società finanziarie delle stesse aziende di credito. (11). L’IRI divenne allora
l’azionista di comando non solo delle tre banche risanate, ma di moltissime imprese industriali e,
con un patrimonio di 10.270 milioni circa, pari al 21,5% del capitale delle società per azioni esisten-
ti in Italia a quella data (che con il sistema delle partecipazioni a catena risultava pari a quasi la metà
del capitale azionario esistente in Italia) divenne il primo imprenditore del Paese (12). Il nucleo del-
l’intuizione di allora fu proprio questo: sostituire lo Stato alla banca mista al centro del sistema di
intermediazione finanziaria, compiendo con ciò una scelta tecnica, quasi obbligata, non una scelta
politica. Le imprese industriali, cioè, già controllate dalle banche miste, passavano sotto il controllo
pubblico e nello stesso tempo per esse veniva approntato un colossale piano di ristrutturazione e
creato un più vasto mercato finanziario, garantito dallo Stato, al quale tutte le industrie potevano ri-
volgersi per soddisfare i loro fabbisogni di credito a medio e lungo termine. Il controllo pubblico di
imprese che restano sul mercato costituiva una novità di grande rilievo nel panorama economico ita-
liano, all’epoca non ancora sperimentato altrove, e che le “finanziarie” dell’IRI (STET, Finmare,
Finsider, Società Immobiliare Roma) seppero gestire con criteri di assoluta efficienza produttiva,
controllando le imprese del gruppo (che continuarono a rispondere a logiche di mercato e non a di-
rettive centrali) come un qualsiasi imprenditore privato e imponendosi come modello di razionaliz-
zazione dei costi e di serietà operativa. La creazione di una finanziaria di Stato, tra l’altro, rendeva
palese una funzione che lo Stato già svolgeva, seppure in modo inconsapevole, e quindi confuso, già
dal 1922, all’epoca del crollo della Banca di Sconto, momento a partire da cui i governi, facendosi
tutori dei depositanti delle banche, erano intervenuti a più riprese a ripianare le consistenti perdite
delle banche d’affari. Nel bene o nel male le soluzioni allora adottate avrebbero rappresentato il la-
scito più duraturo che la depressione dei primi anni Trenta consegnava al sistema economico italia-
no: il momento più significativo e lungimirante della politica economica del regime del tempo (13).
Alla luce di tale complesso di rilievi assume particolare valore come, in un successivo rapporto alle
Autorità Alleate, datato 2 luglio 1944 (14), lo stesso Menichella tenesse a precisare che, nonostante
le gravi perdite di cui lo Stato si era fatto carico per colpa della scorretta politica creditizia del siste-
ma bancario, nessun fine nazionalizzatore aveva mai animato i dirigenti dell’IRI. E ciò semplice-
mente perché le imprese controllate dall’ente erano pervenute nella sfera pubblica solo in conse-
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guenza delle gravi crisi bancarie che si erano susseguite a partire dal primo dopoguerra e degli inter-
venti decisi dallo Stato in favore dei depositanti. Esse, cioè, erano venute accumulandosi nelle brac-
cia dello Stato, ma senza iniziativa da parte di questo. L’IRI - dunque - traeva origine da salvataggi
bancari e non da salvataggi industriali, e ad esso non andava associato alcun intento, occulto o pale-
se, di sostituire al sistema economico privato un capitalismo di Stato. I precedenti dell’IRI non an-
davano pertanto ricercati nel corporativismo o in una presunta vocazione dirigista dell’ente, quanto
piuttosto nelle crisi finanziarie che si erano susseguite a partire dall’avvio del nostro processo di in-
dustrializzazione e che rifletteva una pessima abitudine della classe industriale del Paese, sempre li-
berista nei momenti di euforia espansionistica, ma sempre pronta ad invocare l’aiuto dello Stato, le
tariffe, il protezionismo, nei momenti di crisi, e a spese del contribuente indifeso (15). In tal senso
lo smobilizzo pubblico della banca mista e la conseguente riforma del sistema creditizio segnava
una vera e propria “moralizzazione” del sistema finanziario e industriale italiano.
Se dunque nel 1937, per i mutati obiettivi della politica economica del governo, l’IRI venne trasfor-
mato in ente avente carattere permanente e non più transitorio e di smobilizzo (L. n. 905 del 24 giu-
gno 1937), ciò fu dovuto anche alla non trascurabile circostanza che nei quattro anni precedenti ci si
era resi conto che un completo ritorno ai privati dell’ingente patrimonio industriale pervenuto all’I-
RI non poteva avvenire, e ciò, a parte la scarsa propensione dei privati a subentrare in rami di attivi-
tà scarsamente remunerativi, per due ragioni di fondo: primo, perché non esistevano in Italia gruppi
privati capaci di rilevare la totalità del patrimonio dell’ente, cioè che avessero a disposizione capita-
li propri - non presi nuovamente a prestito dalle banche - sufficienti per acquistare le partite “irizza-
te”; in secondo luogo perché non esi- stevano privati disposti ad accollarsi le ingenti spese di riorga-
nizzazione e di ristrutturazione industriale, impegnandosi contemporaneamente ad acquistare tali
partecipazioni alle migliori condizioni per lo Stato.
Non vi è dubbio, in conclusione, che la necessità di proteggere il risparmio, materia prima dell’inve-
stimento e dello sviluppo e l’ordinato funzionamento del sistema creditizio e del mercato dei capita-
li, condizioni per favorire la crescita economica in condizioni di stabilità e di efficienza, racchiudo-
no l’intera opera economica e finanziaria di Donato Menichella, che all’IRI già emerge in tutta la
sua organicità. Se negli ultimi anni si è assistito alla formazione di nuovi equilibri industriali e fi-
nanziari, i quali hanno portato a un superamento della costruzione realizzata da Menichella negli
anni Trenta, ciò non pare sufficiente a porre in dubbio la validità di quei principi fondamentali,
niente affatto statalistici, su cui essa si fondava. Le moderne esigenze operative non tolgono, allora,
alcun merito e valore all’opera di Donato Menichella all’IRI, visto che molto di ciò che egli volle e
per cui si adoperò conserva tuttora una validità intrinseca e che la sua analisi storica, la sua “lezio-
ne”, rappresenta un sicuro punto di riferimento per il dibattito sulla ricerca di soluzioni migliori alla
realtà economica di oggi .
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Massimiliano Monaco - Donato Menichella all’IRI (1933-1946)
Massimiliano Monaco
Riferimenti bibliografici:
(1) Per un suggestivo ritratto biografico del Menichella si veda: VINCENZO MENICHELLA, Donato Me-
nichella. Un silenzioso e sconosciuto uomo del Sud. Galatina, Edizioni Salentina, 1986.
(2) Il più completo contributo storiografico alla ricostruzione del pensiero e dell’opera di Donato
Menichella è stato curato dalla BANCA D’ITALIA in occasione della pubblicazione degli atti di una
Giornata di studio e di testimonianza promossa dalla Banca d’intesa con l’IRI; Roma, 23 gen-
naio 1986, Edizioni Laterza.
(3) L’ordinato funzionamento del mercato dei capitali e la legge bancaria del 1936 sono forse l’e-
redità più duratura che Menichella ha lasciato al Paese, tali da spiegare i loro effetti fino a tempi
a noi vicinissimi. In particolare la legge di riforma bancaria del 1936-38 è stata soppiantata solo
con il recepimento (con D.L. n. 481 del 14/12/92) della seconda direttiva del Consiglio della
Comunità Economica Europea sul coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e
amministrative riguardanti l’accesso all’attività degli enti creditizi e il suo esercizio, seguito
dall’emanazione del Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, approvato dal
Consiglio dei Ministri in data 27/8/93.
(4) GUIDO CARLI: Cinquant’anni di vita italiana, Bari, Laterza, 1993, p. 85.
(5) Ibidem, p. 381.
(6) Cfr. ISTITUTO PER LA RICOSTRUZIONE INDUSTRIALE: Studio sui problemi del risanamento bancario,
Roma, 5 dicembre 1933, in: Archivio Storico della Banca d’Italia, Fondo Azzolini, cart. n. 56,
ora in: BANCA D’ITALIA (a cura di), Donato Menichella. Scritti e discorsi scelti, 1933-1966,
Roma, Banca d’Italia, 1986, pp. 1-66.
(7) Il testo delle tre convenzioni è in: LUCIO VILLARI, Il capitalismo italiano nel Novecento, Bari, La-
terza, 1972, pp. 313-27.
(8) Cfr. MINISTERO DELL’INDUSTRIA E DEL COMMERCIO: L’Istituto per la ricostruzione industriale, vol. III,
Origini, ordinamenti e attività svolta, Rapporto del prof. Pasquale Saraceno, Torino, Utet,
1956, pp. 6-10.
(9) Cfr. LUCIO AVAGLIANO: La gestione finanziaria e la nascita del “Brain Trust” dell’IRI, in: “Ras-
segna economica”, 1979.
(10) PASQUALE SARACENO: Sviluppo economico e banca locale, in: “Bancaria”, n. 9/1970, p. 1021.
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(11) Cfr. DONATO MENICHELLA, Le origini dell’ I.R.I. e la sua azione nei confronti della situa-zione
bancaria, in: BANCA D’ITALIA (a cura di), Donato Menichella. Scritti e discorsi scelti, cit., pp.
105-08.
(12) Cfr. ERNESTO CIANCI, Nascita dello Stato imprenditore in Italia, Milano, Mursia, 1977, p. 276.
(13) Cfr. GIANNI TONIOLO, L’economia dell’Italia fascista, Roma-Bari, Laterza, 1980, p. 268.
(14) DONATO MENICHELLA, Le origini dell’ I.R.I. e la sua azione nei confronti della situazione banca-
ria, Roma, 2 luglio 1944. Rapporto presentato al cap. Andrew Kamark, rappresentante della
Commissione di controllo Alleata presso l’IRI; in: Archivio Storico dell’IRI, fasc. Relazioni e
notizie IRI, cart. II. Il Rapporto sull’IRI, noto come “Memoriale Menichella” rimane, per dif-
fuso riconoscimento, uno degli scritti fondamentali sulla condizione economica del nostro
Paese tra gli anni Venti e la guerra.
(15) Ibidem.
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