V
delle strutture ed il compimento degli obiettivi, mentre agli organi politici vengono
riservati poteri di indirizzo, programmazione e di verifica dei risultati sull'attività:
viene in tal modo attuato il definitivo superamento del modello gerarchico. Il d.lgs.
del 1993 aveva lasciato tuttavia dei problemi aperti che furono risolti in parte dal
successivo d.lgs. n. 80 del 1998. Tale decreto attua definitivamente gli obiettivi di
privatizzazione. In particolare dispone, sia per le amministrazioni dello stato che per
gli altri enti pubblici, il superamento della doppia qualifica dirigenziale, dirigenti
generali e dirigenti, e l’istituzione di un ruolo unico presso la Presidenza del
Consiglio dei Ministri, articolato in due fasce. In tale ambito, il dirigente unico può
assumere qualsiasi incarico che sia compatibile con le proprie competenze.
Fondamentale appare pertanto l’istituzione del ruolo unico che consente non solo il
superamento della precedente frammentazione dell’organico dirigenziale statale, ma
anche di scindere l’appartenenza al ruolo dirigenziale rispetto all’appartenenza del
dirigente alla singola amministrazione, creando così personale interscambiabile
all’interno dell’organizzazione statale.
Una reale indipendenza del dirigente nei confronti del vertice politico, si
realizza tuttavia, con il d.lgs. n. 165 del 2001 che disciplina in modo organico la
separazione delle funzioni della dirigenza dai poteri dei soggetti politici, il dirigente
pubblico diventa responsabile delle attività di amministrazione e dei risultati, attua
l’obiettivo fissato dal ministro e ne dà conto dei risultati.
VI
Si conferma pertanto in capo all’organo politico la funzione di indirizzo
politico – amministrativo, la loro competenza in ordine all’individuazione delle
risorse umane, materiale ed economiche – finanziarie.
Al fine di eliminare indebite ingerenze nell’attività amministrativa, il Testo
Unico del Pubblico Impiego stabilisce che gli operatori politici non possono adottare
provvedimenti o atti di competenza dei dirigenti nel conferimento dell’atto stesso. Al
ministro, inoltre non opponendo più la firma sugli atti amministrativi, non sar5à più
opponibile la responsabilità amministrativa e contabile che graverà in via esclusiva
sul dirigente in quanto custode della legalità amministrativa. Nei rapporti
intercorrenti tra organi politici e dirigenti, particolare importanza assume
l’articolazione interna della dirigenza in due fasce, il dirigente generale e il dirigente
di prima fascia.
Il primo rappresenta un modello di mediazione tra la gestione amministrativa e
la direzione politica degli apparati burocratici, formula proposte ed esprime pareri al
ministro nelle materie di propria competenza. A tali dirigenti spetta di curare
l’attuazione dei programmi, dei paini e direttive gergali definite dal ministro, nonché
spetta definire gli obiettivi che i dirigenti devono perseguire. Criticabile rimane
pertanto la netta distinzione all’interno della dirigenza fra i dirigenti generali e di
dirigenti, vero organo esecutivo dell’amministrazione ma tenuto lontano dalle sedi
decisionali.
Di notevole impatto è l’ingresso della l. n. 145/2002 che ha compiuto una
scelta in favore della natura pubblicistica dell’atto di conferimento e dell’atto di
VII
revoca dell’incarico dirigenziale. Analogamente ha rivestito di natura pubblicistica
gli atti mediante i quali si realizza la mobilità dei dirigenti da una ad altra
amministrazione. Ha inoltre inserito un elemento di flessibilità nella selezione dei
dirigenti accrescendo rispetto al passato le opportunità di accesso alle posizioni dei
dirigenti di seconda fascia e degli esterni dell’amministrazione. Rimane tuttavia un
tema rilevante che è quello della precarizzazione dei rapporti di lavoro dirigenziali.
Gli artt. 97 e 98 della Costituzione sanciscono una serie di principi, quali
l’imparzialità, l’accesso agli impieghi mediante pubblico concorso, l’obbligo di
servizio esclusivo alla Nazione, il divieto per i dipendenti pubblici che siano membri
del Parlamento di conseguire promozioni se non per anzianità, la possibilità di
stabilire limitazioni con legge al diritto di iscrizione ai partiti politici per determinate
categorie di pubblici impiegati.
Da quanto descritto nell’attuale disposto normativo, si ricava chiaramente una
posizione costituzionale dell’amministrazione a tratti incompatibile con la
precarizzazione messa in atto dalle recenti riforme.
Nel presente lavoro particolare attenzione è stata data alla scissione delle competenze
funzionali fra organi amministrativi e politici nell’ottica del perseguimento di finalità
pubbliche attribuite alle singole pubbliche amministrazioni.
1
CAPITOLO I
L’ISTITUZIONE DELLA DIRIGENZA NELLE
AMMINISTRAZIONI DELLO STATO.
1.1: La dirigenza nel d.p.r. 748 del 1972.
L’origine della dirigenza nelle amministrazioni statali, cioè di un
corpo di alti funzionari che avrebbe dovuto svolgere nel settore
pubblico una funzione tendenzialmente assimilabile a quella svolta dai
dirigenti delle grandi aziende private, è avvenuta con il d.p.r. 30 giugno
1972 n° 748
1
, con il quale è stato attribuito ai funzionari il c.d. status
dirigenziale, costituito dalla titolarità di una pluralità di competenze
autonome e di rappresentanza. Le innovazioni della disciplina contenuta
in tale d.p.r., che si proponeva di porre rimedio alla situazione
previgente, nella quale quasi tutti i poteri decisionali venivano
1
Il d.p.r. 748/72 recante norme sulla “disciplina delle funzioni dirigenziali nelle
amministrazione dello Stato anche ad ordinamento autonomo” fu emanato a seguito di due leggi di
delegazione, la n° 249/1968 e la n° 775/1970, la quale nel rinnovare la precedente, apportava
importanti mutamenti, riconoscendo precise competenze in capo ai funzionari della burocrazia
statale. Nonostante ciò, ancora lontano è il cammino della dirigenza verso il superamento del
rapporto gerarchico rispetto all’organo politico, tutti i progetti di riforma , culminati nella legge del
’68, contenevano, infatti indicazioni precise della supremazia gerarchica del Ministro nei confronti
dell’apparato burocratico.
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concentrati nella figura dell’organo politico, il ministro, possono
riassumersi in quattro punti:
1. la determinazione di competenze differenziate tra l’organo
politico ed i vari livelli delle qualifiche dirigenziali, con la
possibilità di distinguere fra il momento dell’agire politico e
quello dell’agire amministrativo;
2. il rapporto fiduciario relativamente alla nomina ed alla
preposizione agli uffici;
3. la configurazione di responsabilità proprie dell’apparato
burocratico distinte dalla responsabilità penale, civile,
amministrativa e disciplinare;
4. la flessibilità nell’impiego della dirigenza con la unificazione
dei ruoli presso la presidenza del Consiglio dei Ministri.
La dirigenza era suddivisa in tre distinte qualifiche:
a) il dirigente generale, che poteva svolgere le funzioni di capo
delle direzioni generali o degli uffici centrali o periferici di
livello pari o superiore, oppure il consigliere ministeriale con
compiti di studi e ricerca;
b) il dirigente superiore, che poteva svolgere le funzioni di
vicario del dirigente generale, il capo di servizio centrale
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dipendente organicamente dal ministro o di altri uffici di pari
livello previsti dalla legge, di consigliere ministeriale aggiunto
con compiti di studio e di ricerca, di ispettore generale, di capo
di ufficio periferico particolarmente importante con
circoscrizione non inferiore a quella provinciale;
c) il primo dirigente, che era preposto alla direzione di divisioni
o di uffici equiparati.
L’istituzione della dirigenza nelle regioni, negli enti locali, e nel
servizio sanitario, è stata invece affidata alla fonte normativa
contrattuale che ne ha regolato lo stato giuridico e il trattamento
economico. Tale differenza è significativa e non attiene soltanto alla
fonte normativa, bensì allo stesso ruolo della dirigenza locale che,
rispetto a quello della dirigenza statale, appariva decisamente più
marginale.
L’area dei poteri autonomi della dirigenza degli enti locali e delle
unità del servizio sanitario nazionale, infatti, risultava alquanto più
limitata, considerato che gli organi politici conservavano la
rappresentanza degli enti, con il potere diretto di emettere e
sottoscrivere atti provvedimenti amministrativi.
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1.2: La distribuzione delle competenze tra gli organi di
direzione politica e la dirigenza.
Al dirigente pubblico erano affidati compiti di direzione, con
connessa potestà decisoria, di ampie ripartizioni delle amministrazioni
centrali, dei più importanti uffici periferici e delle maggiori ripartizioni
di quelli con circoscrizione non inferiore alla provincia; compiti di
studio e di ricerca; consulenza, progettazione, programmazione.
Spettava alla dirigenza l’emanazione, in relazione alle direttive generali
impartite dal ministro, di istruzioni e disposizioni per l’ applicazione di
leggi e regolamenti; la propulsione, il coordinamento, la vigilanza e il
controllo, al fine di assicurare la legalità, l’imparzialità, l’economicità,
la speditezza e la rispondenza al pubblico interesse dell’attività di
dipendenti e uffici. E ancora, la partecipazione ad organi collegiali,
commissioni o comitati operanti in seno all’ amministrazione; la
rappresentanza dell’amministrazione e la cura degli interessi della
medesima presso gli enti e le società sottoposte alla vigilanza dello
stato, nei casi previsti dalla legge. Le competenze delle tre qualifiche
dirigenziali, si distinguevano per un diverso limite di autonomia sul
piano del valore economico della prestazione svolta e potevano essere
raggruppate in tali tipologie:
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- atti vincolati: erano attribuiti ai dirigenti di competenza
dell’amministrazione centrale, in particolare ai dirigenti
generali e ai dirigenti superiori assimilati, nonché ai primi
dirigenti.
- Attività contrattuale: potere di approvazione, di progetti per
lavori pubblici, forniture, ecc., competenza per l’approvazione
dei contratti e la concessione dei lavori, poteri di approvazione
transazioni relative a lavori, forniture e servizi oppure il potere
di disporre la non applicazione di clausole penali, o di
promuovere liti.
- Mobilità del personale: comune alle tre qualifiche dirigenziali
era il potere di disporre lo spostamento del personale fra le
maggiori ripartizioni del proprio ufficio.
- Concessioni, autorizzazioni e licenze: spettava alla legge o al
regolamento, anche ministeriale, disporne la riserva al
ministro o ai dirigenti superiori o ai primi dirigenti: i
provvedimenti rimanenti erano di competenza dei dirigenti
generali, ferma restando la facoltà di avocazione dei singoli
affari da parte del ministro.
Oltre alle attribuzioni istituzionalmente loro spettanti, i dirigenti
esercitavano le attribuzioni che ad essi venivano delegate dal ministro,
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ovvero, con la sua approvazione, dal rispettivo superiore gerarchico,
senza alcuna ulteriore specificazione in merito alla delega, né sulle
modalità di conferimento. Soltanto per la delega di attribuzioni dagli
organi centrali agli organi periferici era necessario un apposito
provvedimento da pubblicarsi nel Bollettino ufficiale
dell’amministrazione.
Altrettanto precisamente descritte dalla lettera della norma, erano
le competenze che facevano capo al ministro:
- poteri di indirizzo e di direttiva: il ministro stabilisce le
direttive generali alle quali gli organi centrali e periferici
dell’amministrazione devono ispirare la propria azione,
nonché i programmi di massima e l’eventuale scala delle
priorità per l’azione da svolgere, nei limiti degli stanziamenti
di bilancio e delle rispettive competenze.
- poteri di verifica e di controllo: persisteva la generale potestà
ministeriale di procedere all’annullamento per vizi di
legittimità ed alla revoca o riforma per motivi di merito degli
atti emanati dai dirigenti, ma soltanto entro i successivi 40
giorni, da quanto detto ne deriva che nessun atto adottato dai
dirigenti poteva definirsi definitivo.
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- Poteri di attivazione e di contestazione della responsabilità
dirigenziale: era di competenza del ministro la contestazione
al dirigente dei risultati negativi dell’organizzazione del
lavoro e dell’attività dell’ufficio.
Da quanto esposto, si conferma l’impressione di un organo politico
con ampi poteri di direzione, cui formalmente risulta assegnata la
competenza di emanare soprattutto atti di alta amministrazione, traspare
dunque il ruolo primario e sovraordinato dell’organo politico rispetto
alla dirigenza amministrativa, continuamente sottoposta ad incursioni
nella propria sfera di attribuzioni.
Altra competenza fondamentale, esercitabile dall’organo politico,
era rappresentata dal potere di assegnazione dei dirigenti agli uffici
centrali e periferici e della loro revoca, nonché del potere di proporre al
Presidente del Consiglio la nomina a dirigente generale o a qualifiche
superiori. La preposizione dei dirigenti ai relativi uffici e i conferimenti
degli incarichi dirigenziali si caratterizzavano per ampia discrezionalità
dell’organo politico essendo affidati alla scelta volontaria del Ministro,
senza alcun principio informatore. Circa la scelta di reclutamento della
dirigenza, il sistema descritto nel d.p.r. 748/72, basato su una forma di
corso-concorso, non trovò mai attuazione, mentre la qualifica
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dirigenziale andò progressivamente configurandosi quale naturale
evoluzione della carriera impiegatizia.
La nomina a primo dirigente si conseguiva mediante corso di
formazione dirigenziale con esami finali al quale erano ammessi gli
impiegati con qualifica non inferiore a direttore di sezione, purchè alla
data di inizio del corso stesso avessero compiuto cinque anni di
servizio.
2
L’ammissione al corso, in realtà mai attivato, si conseguiva
mediante concorso per titoli di servizio.
Fra le conseguenze negative di questo sistema vi è certamente la
frammentazione dell’amministrazione in vari comparti sufficientemente
impermeabili ed indipendenti l’uno dall’altro, che hanno finito per
trasformarsi in veri e propri “feudi” consegnati ai ministri.
Sostanzialmente analoghe anche le modalità di conferimento delle
qualifiche di dirigente superiore.
2
Il corso, della durata di 14 anni, gestito dalla Scuola Superiore della Pubblica
Amministrazione era ad “indirizzo spiccatamente professionale” e verteva essenzialmente “sulle
tecniche idonee ad assicurare la più corretta e razionale organizzazione dell’amministrazione e
l’economicità, oltre che l’efficacia della sua azione, senza peraltro prescindere
dall’approfondimento della cultura, giuridico-amministrativa ed economica o tecnico-scientifica,
indispensabile per l’esercizio delle funzioni dirigenziali”
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1.3: La responsabilità connessa all’esercizio delle funzioni
dirigenziali.
Si è spesso pensato che per i funzionari pubblici, schiacciati dalla
soggezione della supremazia gerarchica, era stata per lungo tempo
vanificata una responsabilità individuale, distinta dalla responsabilità
dell’ente.
Se è vero che il fondamento etico e giuridico della responsabilità
del dirigente deriva dalla esigenza di “assicurare l’osservanza di norme
di organizzazione e di funzionamento, che secondo lo spirito dell’art. 97
Cost. consentono il perseguimento dell’imparzialità e del buon
andamento della pubblica amministrazione”, è altrettanto vero che
soltanto con il d.p.r. n°748/72, accanto alla responsabilità penale, civile
ed amministrativa, previste dall’art. 28 Cost., nelle ipotesi di violazione
di diritti dei privati o della pubblica amministrazione, viene configurata
una specifica responsabilità legata alla posizione dirigenziale.
I parametri guida nella individuazione di tale responsabilità erano
di due tipi:
1. la legittimità, imparzialità e buon andamento degli uffici;
2. i risultati dell’organizzazione del lavoro e dell’attività degli
uffici medesimi.
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La responsabilità dirigenziale concerneva l’osservanza degli
indirizzi generali dell’azione amministrativa, emanati dal Consiglio dei
Ministri e dal ministero competente, l’osservanza dei termini e delle
altre norme sul provvedimento, nonché il conseguimento dei risultati. Si
cercò in questo modo di correlare la responsabilità non ai singoli atti,
ma all’attività complessiva svolta dal dirigente; si è parlato perciò di
responsabilità “manageriale”, in quanto investiva il dirigente nel caso di
mancato o incompleto raggiungimento di un risultato
nell’organizzazione del lavoro e nell’attività dell’ufficio da lui diretto.
I risultati negativi, eventualmente rilevati, nell’organizzazione del
lavoro e nell’attività d’ufficio dovevano essere contestati ai dirigenti
con atto del ministro, sentito il competente dirigente generale. Il
riferimento in base al quale verificare i risultati concreti ottenuti, con
particolare riguardo al buon andamento dell’amministrazione,
all’ordinamento dei servizi ed alla loro efficienza era rappresentato dalle
direttive emanate dal ministro, delle quali però non venivano specificate
la forma, i tempi e le modalità con le quali avrebbero dovuto essere
impartite. Secondo tale procedimento, qualora non si ritenessero fondate
le giustificazioni adottate dall’interessato a seguito della contestazione,
il ministro riferiva al Consiglio dei Ministri, se si trattava di dirigenti
generali, o al Consiglio di Amministrazione, se si trattava di dirigenti
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superiori e primi dirigenti. Ad essi spettava l’adozione del
provvedimento conclusivo.
Fra le sanzioni conseguenti all’accertamento della responsabilità
dirigenziale, si indicavano, “in casi particolari”, il collocamento dei
dirigenti generali a disposizione dell’amministrazione di appartenenza
(il provvedimento era deliberato dal Consiglio dei Ministri, per un
periodo non superiore ai tre anni, decorso il quale erano collocati a
riposo di diritto).
Nei casi di “rilevante gravità o d responsabilità reiterata”, invece,
il Consiglio dei Ministri poteva deliberare il collocamento a riposo, per
ragioni di servizio, dei dirigenti generali. Per i dirigenti superiori ed i
primi dirigenti il Consiglio di Amministrazione aveva il potere di
deliberare il loro trasferimento ad altre funzioni di corrispondente
livello.
In un contesto nel quale le direttive politiche quasi mai
assumevano la forma prevista dalla legge di “atti programmatori”, vi
era difficoltà nel valutare la responsabilità dirigenziale, di conseguenza,
stante l’impossibilità di verificare il raggiungimento di qualsiasi
risultato, il regime sanzionatorio previsto in caso di inadempienza è
rimasto una semplice ipotesi descritta dalla norma.