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1. Introduzione generale all’alchimia.
Prolusione.
In questo primo paragrafo mi propongo di elaborare uno sguardo d’insieme sulla
tradizione alchemica occidentale, accennando, sommariamente, al contempo,
anche alle peculiarità contingenti delle altre tradizioni non occidentali, come
l’indiana e la cinese, in cui l’Arte regia si è sviluppata. Ovviamente, ho preso in
considerazione, in larga misura, i testi junghiani sull’alchimia riportati nella
bibliografia essenziale. In particolare Psicologia e alchimia, Studi sull’alchimia e
Mysterium coniunctionis sono stati fondamentali per avvicinare la prospettiva
dell’autore, anche se la lettura di Ricordi, sogni, riflessioni, sorta di autoanalisi
biografica, e di Pratica della psicoterapia, con l’analisi del Rosarium
philosophorum, mi ha aiutato ad inquadrare il vissuto e le predisposizioni
speculative dello psicologo svizzero. Fondamentali sono stati anche Il segreto del
fiore d’oro e Psicologia e religione.
Fonti di notizie preziose sono stati, inoltre, il volume Arcana Sapienza di M.
Pereira, la traduzione dei testi di Zosimo a cura di A. Tonelli, Visioni e risvegli, e
quella di M. Mertens, Les alchimistes grecs, tome IV, 1° parte. Informazioni
importanti sull’alchimia indiana e cinese, oltre che occidentale, sono state
fornite dai primi due volumi dell’Enciclopedia delle religioni di M. Eliade, nella
edizione italiana curata da R. Scagno.
5
Trattazione.
Il difetto sostanziale della metafisica occidentale è sempre stato, per Heidegger,
dal mito della caverna platonica a Nietzsche, il dualismo e la volontà di
predominio sull’ente
1
. La stessa dicotomica scissione è presente in alcuni passi
della Genesi, dove la natura è declassata alla stregua di un dono divino da
sfruttare e manipolare. Al contrario, la tradizione alchemica- ed in generale
l’esoterismo- hanno cercato di stabilire, sotto il profilo teoretico, delle differenti
modalità relazionali con il mondo sensibile. Non è più l’uomo che domina una
phýsis ormai desacralizzata, ma un lavoro di trasformazione della materia in
grado di perfezionare la totalità del mondo naturale e dello spirito, capace di
ricongiungere quest’ultimo alla matrice universale, opus di riconciliazione
nell’unità dello spirito e della materia, teoretico ed al contempo sperimentale, in
cui l’alchimista “mette a morte” la realtà esistente per ottenere un nuovo inizio
foriero d’incorruttibilità ed immortalità, gettato nell’hic et nunc del mondo
contingente e non soltanto negli orizzonti escatologici di una promessa
oltremondana.
In Occidente ai tempi di Keplero, Newton e Descartes, circolavano una grande
quantità di testi alchemici (lo stesso Newton attinse a piene mani da questi
documenti
2
). Con la Rivoluzione Industriale si produsse tuttavia l’eclissi di
queste ricerche: il modello meccanicistico soppiantò la cosmologia e la fisica
degli alchimisti. L’interesse degli stessi scienziati del XVII secolo era focalizzato
sulle dinamiche della trasformazione biologica da osservare in laboratorio: la
mutazione del bruco in farfalla. Gli scienziati del seicento adottavano gli stessi
metodi usati, a suo tempo, dagli alchimisti nei confronti della fisica aristotelica:
quest’ultima, ritenuta insoddisfacente, veniva integrata con nozioni attinte dallo
1
Cfr. Heidegger, Nietzsche, p. 809-911.
2
Cfr. Keynes, «Newton the man», Royal Society, Newton Tercentenary
Celebrations, p. 27-34.
6
stoicismo e dall’ermetismo; allo stesso modo, gli scienziati accogliendo
parzialmente gli assunti alchemici ne avvaloravano le dinamiche “sperimentali”
attraverso l’irrobustimento teoretico fornito dalla fisica newtoniana. Ovviamente,
sparivano le tracce degli elementi peculiari dell’arte, come, ad esempio, il lapis
philosophorum capace di garantire- una volta trovata- la trasmutazione in oro del
vile metallo. Dopo la rivoluzione industriale e lo sviluppo della chimica moderna,
l’alchimia entra in crisi e sembra destinata a scomparire. I nuovi scienziati
guardano ad essa con sufficienza, ne deridono l’ingenuo ed oscuro simbolismo
iniziatico, compatendone l’assenza di chiarezza metodologica. Tuttavia,
l’alchimia, non per questo, cessa di esistere: semplicemente se ne smarriscono le
tracce nei circoli dei filosofi della natura, ma continua a tramandarsi, ripiegata
su se stessa, all’interno delle società iniziatiche occidentali.
.
Si deve ricordare come l’arte regia si sia sviluppata in variegati contesti storici,
quindi, se non è lecito pensare all’esistenza di diverse alchimie, si deve, quanto
meno, tracciare un breve excursus sulle similitudini e sulle differenze inerenti la
sua presenza nelle diverse tradizioni culturali e religiose. In ogni caso, possiamo
sostenere come il filo rosso, in grado di ricollegare tutte le diverse scuole e
correnti, debba essere evidenziato nella cerca di un oggetto- riconducibile ad una
pietra, ad una tintura, a dell’ acqua o ad un elixir- dotato di miracolosi poteri.
Quest’oggetto, desideratum degli alchimisti di tutte le epoche, non sarebbe
dovuto servire soltanto a fabbricare l’oro dal vile metallo, ma anche ad
assicurare l’immortalità, o quanto meno a prolungare indefinitamente
l’esistenza: motivo che richiama la saga di Gilgamesh ed anche il vello d’oro degli
Argonauti.
Del resto, in tutte le tradizioni alchemiche, in particolare in quella cinese,
determinate piante e frutti sono in grado di prolungare la vita, procurando
all’adepto una perenne giovinezza. Un testo indiano dell’VIII secolo a.C., il
7
Śatapatha Brāhman
3
a, proclama che «l’oro è immortalità». Nella tradizione
ayurvedica il termine sanscrito che traduce la parola “alchimia”, rasāyana
,
,
designa una serie di tecniche volte al ringiovanimento del corpo
4
. Probabilmente,
in India la ricerca della prolongevità è funzionale al perfezionamento della vita
ascetica: enfatizzando l’uso del mercurio e delle droghe, nella realizzazione e
nella trasmutazione di un corpo perfetto e immortale, l’alchimia induista può
essere definita come alchimia “mercuriale” (Dhāturvāda), al contrario
dell’alchimia buddhista nota come Rasāyana (letteralmente, “la via del rasa o
delle essenze”)
5
). La differenza fondamentale tra l’alchimia indù e quella
buddhista risiede nel maggior risalto dato da quest’ultima ai procedimenti
interni yogici rispetto a quelli esterni e “chimici”
6
. Nell’alchimia buddhista, la
prolongevità, assicurata dalle sostanze chimiche, è soltanto un mero mezzo per
realizzare la Bodhi, lo stadio dell’Illuminazione. La “chimica” induista e quella
yogica buddhista, tuttavia, condividono molte tecniche e trovano il loro
perfezionamento nei veicoli tantrici Nāth, Siddha, Sahajiyā e Vajirayāna. La
ricerca cinese dell’immortalità fisica, invece, passa attraverso la formazione di un
corpo incorruttibile, in grado di salvaguardare dalla migrazione ultraterrena le
anime yang hun e yin p’o. Mentre in India la ricerca dell’immortalità si
incentrava sulla conoscenza delle piante officinali e dell’antica erboristeria, in
Cina era la fabbricazione dell’oro potabile a perpetuare il mito dell’eterna
giovinezza
7
. Nell’alchimia occidentale, la ricerca della prolongevità si sviluppò
soltanto dal Medioevo
8
. Il mito alchemico dell’immortalità si fondava
sull’archetipo della Madre Terra dispensatrice di doni sublimi, a beneficio di chi
sapeva carpirne gli arcani linguaggi: la stessa epopea di Gilgamesh, alla ricerca
dell’erba moly, testimonia la possibilità che nel grembo della Natura si celi la
3
Cfr. Eliade, Panoramica generale sull’alchimia, in Enciclopedia delle religioni,
vol. 1, p. 25.
4
Cfr. White, Alchimia indiana in Enciclopedia delle religioni, vol. 1, p. 33.
5
Cfr. White, Alchimia indiana in Enciclopedia delle religioni, vol. 1, p. 33.
6
Cfr. White, Alchimia indiana in Enciclopedia delle religioni, vol. 1, p. 33.
7
Cfr. Pereira, Arcana Sapienza, p. 25.
8
Cfr. Pereira, Arcana Sapienza, p. 25.
8
salvezza dalla morte fisica. In questo quadro ideologico, strutturalmente
dualistico, non poteva certo attecchire, prima del Medioevo, l’archetipo della
Madre Terra e della Natura come riflesso speculare del mondo divino.
Il recupero dell’idea della prolongevità fu possibile, per l’Occidente, soltanto in
seguito all’incontro con la cultura islamica
9
, anche se la vera e propria dottrina
originaria dovette essere riplasmata in funzione delle convinzioni teologiche
cristiane, renitenti ad ammettere la possibilità di sfuggire alla morte e, dunque,
al giudizio oltremondano. Per questo, gli alchimisti occidentali sono sempre stati
maggiormente interessati alla trasmutazione dei metalli in oro.
D’altro canto, presso molte culture tradizionaliste assume una certa importanza
l’idea che l’alchimia sia in qualche maniera riconducibile ad una pratica
ostetrica
10
. La Madre Terra – venerata essenzialmente nelle civiltà che hanno
conosciuto la coltivazione dei cereali- partorisce dal proprio grembo l’oro,
qualora non la si ostacoli o disturbi: caso quest’ultimo, in cui si trova costretta
ad abortire altre varietà di metalli impuri, mentre soltanto l’oro è da considerare
come il figlio legittimo della Madre Terra. In questa chiave di lettura, l’alchimista
deve completare l’azione interrotta della Natura. Nell’Alchimist (1610) di Ben
Jonson
11
è espressa chiaramente l’’identificazione dell’alchimista con l’ostetrico.
Per Simone da Colonia
12
la trasmutazione/parto della Natura deve essere aiutata
da uno specifico elixir, il quale versato sui metalli imperfetti, conduce alla loro
completa raffinazione e perfezione
13
.
9
Cfr. Coudert, Elisir in Enciclopedia delle religioni, vol. 2, p. 202: «l’idea di un
elisir alchemico giunse in occidente dall’Islam agli albori del Medioevo. Ma la
distinzione cristiana tra materia e spirito, e l’insistenza sulla vita a venire resero
più difficile per gli alchimisti occidentali la concezione di immortalità in questo
mondo».
10
Cfr. Eliade, Panoramica generale sull’alchimia, in Enciclopedia delle religioni,
vol. 1, p. 26.
11
Cfr. Eliade, Panoramica generale sull’alchimia, in Enciclopedia delle religioni,
vol. 1, p. 26.
12
Cfr. Eliade, Panoramica generale sull’alchimia, in Enciclopedia delle religioni,
vol. 1, p. 26.
13
Cfr. Eliade, Arti del metallo e alchimia, p. 147.