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Fenomenologia e fede
Il 15 aprile 1934 Edith Stein indossa a Colonia il sacro abito del Carmelo: Husserl le invia un
telegramma, mentre altri ex-colleghi sono presenti alla cerimonia; tra questi il prof. Wust che così descrive
l’evento: “Non riuscivo ad allontanarmi da quella grata di clausura, seguendo con la mente il lungo
cammino percorso dalla novizia: da Husserl a san Tommaso, per poi arrivare fin qui, sì, fin qui! Ma mi
dovetti ritirare per rispetto alla vita monastica, per poi trovarmi di fronte a un incrocio di strade decisivo: la
mia scendeva nel mondo, mentre la sua entrava nella Vita.”
3
La pensatrice, divenendo carmelitana,
completava a 42 anni un personale cammino di ricerca iniziato da giovane come fenomenologa a Friburgo.
Agli inizi del Novecento nell’area linguistica tedesca era forte la presenza religiosa ebraica e
cristiana. Negli anni dell’università la giovane ebrea è affascinata dalle conversioni di molti suoi colleghi ed
amici: tra questi Max Scheler, Adolf e Anne Reinach alla fede cattolica, Theodor Conrad e Hedwing Martius
a quella protestante. Il gruppo degli studiosi di fenomenologia non manifestava aperta ostilità nei confronti
delle questioni religiose ma impostava la ricerca sul rapporto tra filosofia e religione fornendo risposte
diverse. In particolare Husserl, pur distinguendo filosofia e religione, aveva rilevato la presenza di correnti di
coscienza che conducono l’essere umano all’Assoluto ed aveva individuato la teleologia e l’etica come vie
privilegiate per giungere a Dio
4
.
La Stein, successivamente alla conversione avvenuta nel 1921, ritiene però che il Maestro non abbia
approfondito adeguatamente la questione di Dio e rileva tre approcci umani fondamentali, tre particolari e
distinti modi con cui entrare in contatto con l’Assoluto: la ragione, la fede e la mistica. In seguito, dalla
clausura del convento carmelitano, approfondisce analiticamente i tre approcci non rinunciando però al
rigore intellettuale che l’aveva contraddistinta in passato: “Ella attende il compito della filosofia – osserva
Angela Ales Bello - in modo più ampio: la filosofia è il luogo della riflessione umana in cui si mette
armonia, perché si riconosce ragionevole farlo, fra indagini ed esperienze diverse; è il luogo in cui si
stabilisce una continuità tra l’esperienza religiosa, la sua sistemazione teorica, cioè la teologia, e la ricerca
affidata alle capacità intellettuali umane, quella che tradizionalmente viene definita filosofia.”
5
Si profila
3
E. Miribel, Comme l’or purifiè par le feu. Edith Stein 1891-1942, Parigi 1984; citato da J. Bouflet, Edith Stein filosofa
crocifissa, op. cit., pag.248
4
Cfr. A. Ales Bello, Husserl. Sul problema di Dio, Studium, Roma 1985
5
A. Ales Bello, Fenomenologia dell’essere umano, op. cit., pag. 169
113
dunque una sostanziale continuità tra ciò che la comprensione razionale consente di cogliere e ciò che
costituisce contenuto rivelato in cui credere per fede.
La posizione della Stein nei confronti della religione si colloca così alla confluenza tra un’esigenza
personale ed un appello legato alla cultura della sua epoca alla quale, a differenza di altri approcci più noti
come quelli di Gilson e Maritain, riconosce una certa positività proprio nell’orientamento fenomenologico
che garantisce una preziosa apertura ai contenuti della fede.
Oltre i pregiudizi
Al tempo dello studio universitario la giovane ebrea, che si professava atea forse per ripugnanza
verso le “cavillosità talmudiche”
6
, scevra da ogni pregiudizio, già a Gottinga inizia ad occuparsi di questioni
religiose. Oltre alle letture accademiche su tali tematiche, Ella ricorda di aver interpellato una volta un amico
e collega di stretta osservanza ebraica sulla sua personale idea di Dio: l’evasiva risposta ricevuta,
condizionata dalle prescrizioni mosaiche, la lascia insoddisfatta:
“Fu per me come ricevere sassi al posto di pane.”
7
Ciononostante la problematica religiosa non viene accantonata ma riaffiora esplicitamente nella
dissertazione di laurea sull’empatia in quanto esperienza della coscienza estranea che consente all’uomo di
cogliere la vita psichica dell’altro:
“è in questo modo [aggiunge però la studiosa] che egli coglie pure, in qualità di credente, l’amore, l’ira e i
comandamenti del suo Dio; non diversamente Dio può cogliere la vita dell’uomo.”
8
E’ straordinaria questa apertura da parte di una pensatrice atea la quale, non solo ammette per correttezza la
possibilità di un coglimento empatico del “vissuto” estraneo di Dio da parte dell’uomo, e già questo sarebbe
di per sé un azzardo teoretico, ma di più ritiene che la pratica empatica da lei studiata sia la stessa applicata
da Dio per conoscere il vissuto umano. Oltre vent’anni dopo, non più atea ma religiosa carmelitana,
esprimerà questo stesso concetto commentando gli scritti mistici di san Giovanni della Croce. La Stein rileva
però che, mentre l’uomo è soggetto agli inganni tipici della pratica empatica, Dio conosce perfettamente e
senza possibilità di errore i vissuti umani; ma anche per Lui vale la legge generale dell’empatia:
6
Edith Stein, Storia di una famiglia ebrea, op. cit., pag. 194
7
Ibidem
8
Edith Stein, Il problema dell’empatia, op. cit., pag. 80
114
“Ma pure per Dio i vissuti degli uomini non diventano vissuti propri, né hanno per lui la stessa specie di
datità.”
9
Poco più avanti nello studio, esaminando la causalità psicofisica della quale fornisce alcune esemplificazioni,
è costretta a riferirsi nuovamente a Dio, pur precisando che di tratta di una considerazione possibile
indipendentemente dalla fede in Lui:
“Bisognerà ammettere che Dio gioisca in seguito al pentimento di un peccatore senza provare un
cardiopalma o altre sensazioni organiche.”
10
Questo esempio, forse naturale anche per un ateo se cresciuto in ambiente culturale cristiano, risulta
difficilmente inquadrabile nella formazione giudaica che la giovane studentessa aveva fino ad allora ricevuto
in famiglia, e conferma dunque, ancora una volta, la totale assenza di pregiudizi nella sua ricerca.
Il rispetto dell’esperienza religiosa altrui, anche se estranea al proprio vissuto, caratterizza la
dissertazione di laurea della nostra autrice che, in questo modo, da prova di rimanere fedele fino in fondo al
metodo fenomenologico che la guidava:
“Posso essere io stesso un miscredente e tuttavia capire che un altro sacrifichi tutto quel che possiede in
beni terreni per la sua fede. Vedo che lui agisce in questo modo ed empatizzo un’apprensione assiologica, il
cui correlato non mi è accessibile, come motivazione per lui del suo agire, e gli ascrivo uno strato personale
che io stesso non posseggo. Empatizzando riesco a capire il tipo dell’ «homo religiosus» che mi è estraneo, e
lo capisco, quantunque quel che là per me si presenta nuovo, rimarrà sempre non riempito.”
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Rifuggendo dunque da ogni residuo positivistico che l’avrebbe portata a liquidare frettolosamente il
fenomeno religioso, la giovane allieva di Husserl riconosce l’evidenza di questo fatto, appreso
empaticamente, anche se il suo contenuto le resta personalmente inaccessibile. Un’inaccessibilità
esperienziale, non teoretica, visto che ancora sul finire della sua dissertazione di laurea la Stein, indagando la
questione della fondazione dello spirito sul corpo, si pone il problema se sia strettamente necessaria la
mediazione della corporeità per il reciproco rapporto tra gli individui psicofisici, ed arriva a domandarsi se
sia possibile una qualche relazione tra persone puramente spirituali portando come motivazione la
convinzione di certi uomini che, in un improvviso cambiamento della loro persona, hanno creduto di esperire
l’influsso della grazia divina. Pur non potendo procedere oltre in una tesi di laurea dedicata all’empatia,
conclude il suo lavoro con una frase che segna ancora una volta l’esigenza di lasciare aperta la porta ad
ulteriori indagini:
9
Ibidem
10
Ivi, pag. 138
11
Ivi, pag. 226
115
“In ogni modo mi pare che lo studio della coscienza religiosa sia il miglior mezzo per la risposta a questo
problema, come d’altra parte tale risposta sia del più grande interesse per il campo della religione. Nel
frattempo lascio ad ulteriori ricerche la risposta al quesito posto e mi accontento in questa sede di un «non
liquet».”
12
La ricerca di Dio
Il «non liquet», non impedisce però alla Stein di proseguire nella sua ricerca religiosa, approdando
alla conversione nell’estate del 1921. Qualche mese dopo, nello scrivere il saggio sulla “Causalità psichica”
dedicato a Edmund Husserl per il suo 60° compleanno, la studiosa dimostra di essere passata dalla possibilità
teoretica del fatto religioso ad una personale esperienza di Dio; dalla descrizione che Ella ci fornisce traspare
infatti non più un esame distaccato ma un intimo coinvolgimento, forse legato anche allo stato d’animo in cui
era piombata a seguito della delusione amorosa
13
provata nello stesso periodo nei confronti del collega Hans
Lipps:
“Esiste uno stato di riposo in Dio, di totale rilassamento di ogni attività spirituale, in cui non si fanno piani,
non si prendono decisioni e non solo non si agisce, ma si rimette ogni cosa futura alla volontà divina e ci si
abbandona completamente al destino. Si riceve questo stato dopo che un vissuto, che ha superato le mie
forze, ha completamente consumato la mia forza vitale spirituale e ha privato la persona di ogni attività. Il
riposo in Dio, rispetto al venir meno dell’attività per la mancanza di forza vitale, è qualcosa di
completamente nuovo e particolare. Il venir meno era caratterizzato da un silenzio di morte, al suo posto si
presenta ora un senso di sicurezza, della liberazione da ogni preoccupazione e da ogni responsabilità e
impegno ad agire. Quando ci si abbandona a questo sentimento si inizia a riempirsi pian piano di nuova vita
e ci si sente spinti, ma senza alcuno sforzo di volontà, ad una nuova attività.”
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L’inquieta studiosa pare essersi arresa alla fede: la sua breve esistenza, già contraddittoria e travagliata, dava
segni di stanchezza ed Ella riceve dalla conversione pace interiore e rinnovata vitalità. Nella nuova direzione
assunta dalla sua vita ha ottenuto ormai una chiarezza che illumina la ricerca filosofica, non per questo
conclusa; scrive nel testo delle lezioni del 1932-33 su “La struttura della persona umana”:
“Occorre chiarire ancora una cosa, cioè che nel suo mondo interiore, come in quello esteriore, l’essere
umano trova rimandi a qualcosa che è al di sopra di lui e di tutto ciò che esiste, da cui egli e tutto ciò che
esiste dipende. La domanda circa questo essere, la ricerca di Dio appartiene all’essere dell’uomo. Indagare
fin dove possa giungere in questa ricerca con i suoi mezzi naturali è ancora compito della filosofia.”
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Ricercare Dio è dunque proprio dell’essere umano e la studiosa, divenuta religiosa carmelitana, non cessa di
farlo con i mezzi della ragione e della fede. L’indagine filosofica mantiene però una posizione centrale: il
suo compito è quello di chiarire l’esperienza di Dio:
12
Ivi, pag. 230
13
cfr. H.B. Gerl, Edith Stein, Morcelliana, Brescia 1988, pagg 67-74
14
Edith Stein, “La causalità psichica”; sta in Psicologia e scienza dello spirito, op. cit., pagg. 115-116
15
Edith Stein, La struttura della persona umana, op. cit., pag. 70
116
“compito della filosofia è di mettere armonia tra ciò che essa ha elaborato con i suoi propri mezzi e ciò che
le viene offerto dalla fede e dalla teologia, nel senso di una intellezione dell’essere basata sui suoi ultimi
fondamenti.”
16
Nell’opera metafisica “Essere finito ed Essere eterno”, ritornano argomentazioni legate alla
tomistica terza via “ex contingentia rerum”, volte ad evidenziare l’inconsistenza del proprio essere che, pur
trovandosi in ogni momento di fronte al nulla, riceve continuamente in dono, attimo per attimo, nuovamente
l’essere:
“Nel mio essere dunque mi incontro con un altro essere, che non è il mio, ma che è il sostegno ed il
fondamento del mio essere, di per sé senza sostegno e senza fondamento.”
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Appare chiaro, osserva Luciana Vigone, come la Stein non sia fideista in quanto “ella accosta gradualmente
l’essere scoprendo che il significato dell’essere è soltanto nell’Essere eterno. Questo è secondo la tradizione
classica, per la quale ciò che diviene non ha in sé la ragione del proprio essere.”
18
In polemica con Heidegger
In appendice a “Essere finito ed Essere eterno” la Stein inserisce lo scritto su “La filosofia
esistenziale di Martin Heidegger” nel quale procede ad un’analisi minuziosa di “Essere e tempo”,
apprezzandone l’acume filosofico ma avanzando serrate critiche al libro del suo ex collega ed esprimendo il
seguente giudizio di carattere generale:
“L’intera ricerca di Heidegger è sostenuta da una certa idea preconcetta dell’essere. […] Dall’inizio ogni
cosa è posta in modo tale da dimostrare la temporalità dell’essere. Per questo motivo è messo il catenaccio
ovunque si apra uno spiraglio verso l’eterno.”
19
Secondo la Stein lo studioso avrebbe dovuto aprirsi alla comprensione non solo dell’essere dell’uomo stesso,
ma anche all’essere del mondo ed all’essere divino che fonda ogni essere finito. Invece di procedere in
questa direzione, l’Io sarebbe stato rigettato solo su se stesso; ma la ricerca di Heidegger si blocca quando,
affermato che l’uomo è gettato nell’esistenza, non dice come vi è entrato:
“L’essere umano è indicato come gettato. In tal modo si esprime in modo eccellente che l’uomo si trova
nell’Esserci senza sapere come vi è arrivato, che egli non è da sé né per sé e non può aspettare dal proprio
essere alcun chiarimento sulla propria origine.”
20
16
Edith Stein, Essere finito ed Essere Eterno, op. cit., pag. 60
17
Ivi, pag. 96
18
Luciana Vigone, Introduzione al pensiero filosofico di Edith Stein, Città Nuova, Roma 1991, pag. 95
19
Edith Stein, La filosofia esistenziale di Martin Heidegger, op. cit., pag. 202
20
Ivi, pag. 180
117
La nostra autrice ritiene che il conseguente sentimento dell’angoscia come atteggiamento di fronte al
proprio non-essere, non sia affatto il sentimento predominante della vita perché, di fronte all’innegabile
fugacità del proprio essere sempre esposto alla possibilità del nulla, sta l’altra realtà, altrettanto inconfutabile,
che esso è continuamente, di istante in istante, conservato nell’essere. Questo convincimento teoretico
assume subito contorni quasi poetici quando la religiosa scrive:
“So di essere conservato e per questo sono tranquillo e sicuro: non è la sicurezza dell’uomo che sta su un
terreno solido per virtù propria, ma è la dolce, beata sicurezza del bambino sorretto da un braccio robusto,
sicurezza, oggettivamente considerata, non meno ragionevole. O sarebbe «ragionevole» il bambino che
vivesse con il timore continuo che la madre lo lasciasse cadere? […] E quando Dio, per bocca dei Profeti,
mi dice che mi è più fedele del padre e della madre, che egli è lo stesso amore, allora riconosco quanto sia
«ragionevole» la mia fiducia nel braccio che mi sostiene e quanto sia stolto ogni timore di cadere nel nulla,
a meno che non mi stacchi io stesso dal braccio che mi sorregge.”
21
Davanti ai momenti cruciali dell’esistenza, si aprono dunque due strade: una è quella nichilistica
indicata da Heidegger, l’altra è rappresentata dal “cammino oscuro”
22
della fede percorso da Edith Stein che,
così facendo, non fugge fuori dal mondo ma opera “epochè”, cioè distacco temporaneo da ogni ovvietà,
anche dall’ovvietà della nostra inconsistenza e della nostra possibilità più propria, certa, incondizionata: la
morte. Scrive la religiosa:
“Oltre a ciò, però, è un grande portone oscuro: lo si deve varcare – ma che cosa c’è dopo? Questo «che
cosa c’è dopo» è la questione autentica della morte, di cui si fa esperienza nel morire. C’è una risposta alla
domanda prima che il portone sia varcato?”
23
E’ verosimile ritenere che la studiosa carmelitana abbia trovato quella risposta ancora prima di
varcare il portone del lager di Auschwitz.
21
Edith Stein, Essere finito ed Essere Eterno, op. cit., pag. 96
22
Ivi, pag. 98
23
Edith Stein, La filosofia esistenziale di Martin Heidegger, op. cit., pagg. 192-193