4
dovuto, sull’analisi attenta dell’Antologia pasoliniana, ritenuta
fondamentale per un’introduzione al discorso, cercando di coglierne gli
aspetti più salienti che muovessero in qualche modo le acque stantie della
poesia dialettale del primo Novecento. Beninteso il superamento di certo
Naturalismo e di certa pascolizzazione di questa poesia, e considerando il
campo della lirica attraverso il lirismo, l’espressionismo e il realismo, essi
sono sfociati, nel poeta che si è preso in considerazione, in una metafisica
che abbraccia e esplora il grande buio fatto di vuoto che attende l’essere
umano. Il primo capitolo di questa tesi contiene altresì due paragrafi in cui
si è tentato di dare una certa valenza alle sistemazioni antologiche –che in
questi ultimi anni hanno visto crescere il loro numero e il numero degli
addetti ai lavori- di questa poesia, spesso bistrattata per mero pregiudizio,
per cui la poesia dialettale è vista in qualche modo come riflesso della
poesia cosiddetta maggiore, in lingua. Il terzo paragrafo, invece,
antologizza e analizza pochi scrittori dialettali che si distinguono per temi
trattati e per importanza, cercando di riconoscere quelle somiglianze che li
avvicinano al nostro poeta preso in considerazione. Tra questi, si è ritenuto
di inserire un cantautore scomparso recentemente, anche per omaggiare il
lavoro che ha compiuto, fatto sempre di ricerca, di pensiero e di
avvicinamento ai più umili, Fabrizio De Andrè, di cui spero mi si perdonerà
l’intromissione, sebbene buona parte del suo repertorio è composto in
dialetto, dal genovese al sardo logudorese.
Il secondo capitolo si è svolto con una modalità più semplificata, in quanto
è stata ripercorsa la carriera editoriale di Emilio Rentocchini dalle sue prime
prove dialettali all’ultima uscita, avvenuta nel marzo 2005. Si tratta
perlopiù di recensioni e spiegazioni delle modalità e degli intenti che
l’autore ha precisato ad ogni uscita, tramite l’ausilio delle introduzioni e dei
saggi comparsi su riviste, tra cui compare anche il professore Alberto
Bertoni, relatore di questa tesi, con la sua bellissima introduzione al primo
importante libro di Emilio Rentocchini, Segrè.
5
Il terzo ed ultimo capitolo attraversa, in senso quasi verticale, tutta la poesia
in ottave pubblicata finora da Emilio Rentocchini. Si è cercato di coglierne
gli aspetti essenziali e le sfumature che più hanno colpito il lettore, che in
questo caso coincide con l’autore di questa tesi, che, ci sia permesso
perseverare nell’errore, si è concesso qualche arbitrarietà, seppur minima,
ma, quando è la poesia a parlare, può capitare che susciti sensazioni tutte
personali, che nessun altro coglie, per cui se questa lettura parrà
disarmonica con il resto delle interpretazioni e delle parole scritte da Emilio
Rentocchini, la responsabilità sarà tutta da attribuire all’autore di questa
tesi.
Chiudono questa ricerca un piccolo paragrafo di conclusioni e una ricca
appendice in cui Emilio Rentocchini ha prestato la sua voce per una
conversazione, incentrata sì sulla poesia, ma pure sul ricordo e
sull’esperienza personale di questo autore piuttosto schivo, ma disponibile e
persona squisita. Rentocchini, con questo gesto che ha compiuto in tutta
naturalezza e con sincera partecipazione, ha reso un omaggio a chi scrive,
rendendolo grato, riconoscente e, in qualche modo, privilegiato. O così,
almeno, ci è parso di sentire.
6
CAPITOLO 1
L’ANTOLOGIA DELL’ARCO - PASOLINI, LE SISTEMAZIONI
ANTOLOGICHE SUCCESSIVE E I NEODIALETTALI CON
PARTICOLARE ATTENZIONE ALL’EMILIA ROMAGNA
“ i ballerini che lo fanno
un po’ per professione,
un po’ per vera vocazione
a passo di ossessione,
e sanno bene che l’azzardo
è lieve come il leopardo,
che tutte le figure
han mille sfumature
Paolo Conte, Dancing
7
1.1 DALL’ANTOLOGIA DELL’ARCO–PASOLINI UNA NUOVA
ATTENZIONE PER LA POESIA DIALETTALE
È sul finire del 1952 che appare in commercio per i tipi di Guanda
l’Antologia
1
Poesia dialettale del Novecento, a cura di Mario Dell’Arco e
Pier Paolo Pasolini, oggi disponibile nella ristampa di Einaudi, con la lunga,
e fondamentale, introduzione dello stesso Pasolini. Pasolini è un giovane
trentenne di belle speranze che ha già approcciato al mondo letterario,
mondo che lo vedrà protagonista in seguito, e con all’attivo le Poesie a
Casarsa -pubblicate nel 1942 a Bologna e che Gianfranco Contini
prontamente recensì cogliendone i fondamentali elementi di svolta
2
- e altri
scritti e articoli sempre inerenti l’ambito della poesia dialettale.
L’antologia che appronta si inserisce in un percorso duplice tanto caro al
suo autore, perché segue un percorso insieme esistenziale e poetico, peraltro
guidato dal fuoco di passione che guida ogni scelta di Pasolini.
L’impostazione del discorso critico introduttivo di questa sua antologia
“procede soprattutto dalla fondamentale esperienza casarsese raccolta
intorno all’ ‘Academiuta di lenga furlana’ e ai fascicoli dello ‘Stroligut’, in
cui Pasolini e i suoi versavano la loro mitologia di giovani félibres, fuori
dai compromessi e dai ritardi in cui continuavano a muoversi tanti cultori
locali”
3
.
È , quello di Pasolini, il primo tentativo organico che riesce ad assegnare
una matrice poetica vera e propria alla poesia dialettale che fino ad allora
aveva vissuto, compreso il passaggio otto-novecentesco, di commozione e
1
Il maiuscolo è dello stesso Pasolini nelle sue Lettere (1940 - 1953), a cura di Nico Naldini,
Einaudi, Torino 1986.
2
«in questo fascicoletto si scorgerà la prima accessione della letteratura dialettale all’aura della
poesia d’oggi, e pertanto una modificazione in profondità di quell’attributo», in Gianfranco
Contini, Al limite della poesia dialettale, nel “Corriere del Ticino”, 24 aprile 1943 (ora in Id.,
Pagine ticinesi, a cura di Renata Broggini, prefazione di Sergio Salvioni, Arti Grafiche, A.
Salvioni e Co. Sa. , Bellinzona 1981, pag. 110).
3
Giovanni Tesio, pref. a Poesia dialettale del Novecento, Einaudi, Torino 1995, pag. XV.
8
di poesia della realtà di stampo veristico, rimanendo relegata in un ambito
prettamente regionale. Ora la poesia dialettale diviene un mezzo espressivo
intimo e teso ad equipararsi alla lingua italiana come vera e propria lingua
poetica. Il percorso geografico che Pasolini mette in atto nella sua
Antologia è un percorso che a prima vista può sembrare anomalo, e che
prende le mosse da Napoli, per poi spostarsi a Roma e Milano, e
concludersi, quasi come una autocelebrazione, nelle regioni del nord tra cui
figurano anche le liriche “furlane” del curatore dell’opera. Pasolini trova tra
gli autori che riescono a compiere questa trasformazione Di Giacomo,
Marin, Giotti, Tessa, Pacòt, Noventa, Guerra e sé stesso, per fare solo
qualche nome. I caratteri di questa novità raggiungono un respiro più ampio
della semplice attenzione regionale e trovano la loro ragion d’essere anche
al di fuori dei confini nazionali. Gli antesignani di questo nuovo genere
sembrano nascere nelle grandi città, ma già Pasolini presenta poeti dialettali
periferici, dove non è presente nessuna tradizione scritta e dove ci si trova
di fronte vere e proprie lingue “inventate”. Inoltre la lingua dialettale non
mantiene la sola funzione di “regresso”, di cui già in precedenza aveva
scritto lo stesso Pasolini, ma è il frutto di una ricerca poetica che vede il
dialetto toccare la sensibilità per il significante e allontanarsi da un
linguaggio massificato che già allora imperversava per via della televisione,
abolendo, in qualche modo, gli idioletti locali e le particolarità linguistiche
per portare un’uniformità molto spesso acclamata ma poco spesso
edificante e dal malcelato intento omologativo.
Diversificati sono i pareri delle recensioni apparse all’uscita di questa
antologia, dove i più indignati sono sempre e ancora adesso i “custodi ” dei
“recinti ” locali che mal sopportano lo stravolgimento dell’impostazione di
un diverso approccio critico. Ma non mancano riconoscimenti di merito tra
cui spicca la recensione di Montale, per cui individua nei felibristi friulani
degli “pseudo-dialettali, o meglio dei dialettali per saturazione letteraria” e
9
formula in proposito una serie di domande che tuttavia possono fornire –
allora come oggi – la migliore delle possibili risposte: “Muovono da un
fatto di cultura, anche quando la loro cultura sia di seconda mano; e
scrivono di un’altra lingua perché la nostra, o l’attuale stagione della
nostra, è da essi considerata uno strumento inservibile. Hanno torto? Si
fondano su un alibi, su una scusa troppo facile? Lo dirà il tempo; o forse
non dirà nulla perché la poesia, quando c’è, ha sempre ragione”
4
.
Pasolini avverte sin da subito l’eccezionalità del libro che sta per
congedare, e citando antologie esistenti ma limitate ad analisi di ristrette
aree geografiche, richiama l’attenzione su una poesia che troppo spesso è
rimasta impolverata sugli scaffali e che neppure il “popolo” degli addetti ai
lavori conosce. Quindi, complice la consapevolezza del valore di questa sua
impresa invita il lettore ad intraprendere la lettura dell’antologia senza
pregiudizi di sorta e giustifica alcuni tagli che ha dovuto effettuare.
L’introduzione di Pasolini trova le mosse per impostare il suo lavoro in una
monografia di Luigi Russo sul poeta Giovanni Di Giacomo (1860 - 1934),
pubblicato a Napoli dall’editore Ricciardi nel 1921. Importante per Pasolini
è il fatto che Russo, nelle ultime pagine della sua monografia, cerchi di
aprire al suo poeta dialettale napoletano una strada che lo proietti in un
raggio più ampio come quello nazionale, che produceva e aveva prodotto in
quel periodo scrittori quali Carducci, Pascoli, D’Annunzio e Verga.
Pertanto il Russo per avvalorare la sua tesi compie scelte e tagli che in
qualche modo violentano le figure sovracitate, ma che allo stesso tempo
presentano soluzioni inaspettate, se è vero che di questi scrittori inserisce le
parti meno in lingua e perciò meno canoniche della loro produzione.
Compie, insomma, una implicita polemica contro tutto l’italiano letterario.
4
Entrambe le citazioni sono di Eugenio Montale da La musa dialettale, in “Corriere della Sera”,
15 gennaio 1953 (ora in Id., Sulla Poesia, a cura di Giorgio Zampa, Mondadori, Milano 1976, pag.
178).
10
Ora i quattro “grandi” presi in esame divengono poeti “minori”, “meno
ufficiali”, ma “quanto più ricchi e veri”, “provinciali”, “ritagliati e
ripresentati su un terreno comune… di realismo”
5
. Utilizzando le parole di
Gianfranco Contini tratte da Preliminari sulla lingua del Petrarca, da
“Paragone” dell’aprile 1951, Pasolini prosegue ancora: “in cui un canone
monolinguistico, complesso e mediato, di origine petrarchesca, e venuto a
comporre la costante più tipica della letteratura italiana – cede in parte
alle pressioni di quel bilinguismo […] che è per definizione una reazione
anti-accademica, e compone quella costante minore, ma quanto più felice,
forse, che si origina dalla più realistica delle opere poetiche italiane, la
Divina Commedia.”
6
Oltre al campo lasciato aperto da Montale, ora anche
Contini lascia spazio aperto al bilinguismo, e Pasolini implicitamente vi
include la poesia dialettale.
Seguendo questo piano di lavoro, Pasolini prende apertamente le difese dei
dialetti che posseggono una tradizione non meno colta e anti-popolare della
lingua, e precisa che quasi tutte le lingue dialettali fanno risalire la loro
origine al periodo barocco. Periodo in cui spesso si è verificata una vera e
propria polemica formale contro la lingua italiana, quasi trasponendo la
lingua in dialetto. Pasolini ricorda, infatti, che di questo periodo i poeti
napoletani Giulio Cesare Cortese (1575?- 1628) e Gianbattista Basile
(1570?- 1632) fanno parte della storia letteraria nazionale e non di una
autonoma storia letteraria napoletana. Da queste premesse Pasolini giunge
al Di Giacomo, il quale trovava la sua preistoria in questi precedenti e da
un’istanza realistica e romantica di stampo folclorico e canzonettistico, che
poteva finalmente gettarsi a capofitto nel lirismo, per aprire
successivamente le porte al giovane Pasolini e concretizzare la vera svolta
5
Pag. XXIV, i virgolettati provengono tutti dallo stesso paragrafo, da Poesia dialettale del
Novecento, a cura di Mario Dell’Arco e Pier Paolo Pasolini, Einaudi, Torino 1995, ristampa
dall’edizione Guanda, Parma 1952.
6
Id.
11
della poesia dialettale, concernente la presa di coscienza sensibile di una
lingua dialettale non solo adatta alle faccende domestiche di paese, ma
ormai matura per portare all’attenzione nazionale poeti e fenomeni
linguistici interessanti e per nulla scontati. Tutto l’excursus attraverso cui
Pasolini ci accompagna nel suo viaggio attorno alla poesia dialettale parte
da Napoli ed è per questo che sceglie proprio la poesia dialettale napoletana
per aprire la sua Antologia, ed è forse per questo stesso motivo che ricerca
le valenze poetiche regione per regione che lo porteranno dal sud fino al suo
Friuli, in cui tanta parte avrà lui stesso, come poeta: rappresentante di
questa nuova poesia dialettale dalle molteplici valenze. La poesia del Di
Giacomo, carica di colore locale, possiede canoni poetici senza equivalenti
nella lingua: canoni che spaziano dal sempre meridionale e medioevale
Ciullo D’Alcamo con la sua Rosa fresca aulentissima, al barocco (ancora
napoletano), dalla canzone settecentesca al Verga, anche se nel Di Giacomo
manca il senso di una realtà oggettiva o è puramente illusoria. Per questo il
Russo parla di “realismo inebriato di fantasia”, di “realismo musicale” o di
“realismo di colore” per indicare le valenze della poesia digiacomiana. È il
realismo di colore quello che maggiormente caratterizza il Di Giacomo, per
cui Pasolini lo considera pervaso da un facile e sfatto pathos che dovremo
distaccare dalla sensualità “diffusa ma esterna, trascinante in fuori, verso il
mondo, espansa, estroversa”
7
, tipica del carattere napoletano. Secondo
Pasolini, il Di Giacomo soffre di un eros narcissico, “cioè fermato a uno
stadio in cui non esiste oggetto: ardore diffuso e appassionato, ma ancora
interno, senza sbocchi”
8
. In sostanza, nel canzoniere d’amore digiacomiano
non compare una donna, ma si parla sempre della donna; conta, quindi, più
l’amore che l’amata o il clima o la tensione dell’amore. Al Di Giacomo
manca l’impeto con cui il più modesto Capurro ha composto di slancio una
canzone come ‘O sole mio. Le canzoni del Di Giacomo posseggono, al
7
Ivi, pag. XXVIII.
8
Id.
12
contrario, la necessità di un ascoltatore coinvolto e finiscono spesso con
l’involversi su sé stesse, cadendo nel vuoto, si trasformano in onomatopee;
ed è qui che Pasolini accosta Di Giacomo al suo amato Pascoli
9
. Al Pascoli
“infantile ”, “quando aggredisce argomenti che sono suoi solo per una
maturità critica ma non sentimentale”
10
. Ecco allora che Pasolini si chiede
se è possibile una storia della poesia digiacomiana se il suo autore è pervaso
da questi caratteri di fissità psicologica. Successivamente il De Robertis
avrebbe individuato un primo superamento di questa poetica in ‘O fúnneco
verde, dove sul lirismo prevale una intensa realtà “napoletana”, per
raggiungere la perfetta sillabazione e la forma definitiva nelle Ariette e
canzone nove rimanendo il capolavoro in A San Francisco. Il De Robertis
spostava l’attenzione in maniera polemica verso un Di Giacomo
antipetrarchista, essendo questa la vera novità nella letteratura italiana; ma
ci troviamo nel periodo vociano, e non a torto si parla di “esalazione
ideale” e di “quintessenza melodica”. Sono queste le caratteristiche più
profonde della poesia digiacomiana.
Attorno a Di Giacomo Pasolini ricorda i poeti che ruotano nella sua orbita a
Napoli. Li cita en passant, coetanei che vivono nella medesima Napoli e
che scrivono nel medesimo momento; si tratta di una lista, come ce ne
saranno tante altre nel seguito dell’antologia, adoperate più per mancanza di
spazio e tempo che per scelta propriamente stilistica. Comunque, di queste
liste, Pasolini riporta in nota le opere comparse citando la città e l’anno di
pubblicazione.
9
A questo proposito pare utile ricordare da Canzone, Era de Maggio…, in Franco Brevini (a cura
di), Poesia in Dialetto, 3 voll., Mondadori, Milano 1999, 3º vol., pag. 3229; recentemente ripresa e
inserita in cd da Franco Battiato nel suo Fleurs, del 1999. Canzone che conferma tutte le tesi
succitate e che si chiude con un verso languido e chiarificatore di tutto ciò che è stato detto in
precedenza: “torna maggio e torna amore, / fa de me chello che buo’! ”.
10
Ivi, pag. XXX.
13
In Ferdinando Russo (1866 - 1927), invece, Pasolini individua quel
digiacomismo che caratterizza la stagione petrarchista della letteratura
napoletana, attraverso cui scorre tutta la sua opera, che segue questo filone
minore e lirico, pur non essendo privo di una sua certa forza, derivante dal
modo diverso di Di Giacomo di aggredire i contenuti, anche se appaiono
entrambi legati nel loro lavoro, oltre che per la contemporaneità delle loro
prove; anche se al Russo sono da ascrivere, sin dall’inizio, esiti più riusciti e
una vera e propria individuazione della strada naturale, la vocazione
documentaria e cronachistica, che sfociano nel Russo più alto di ‘E
scugnizze e di Gente ‘e mala vita, in una serie di “inquadrature […] di un
romanzo verista napoletano, corale, di sole masse, la cui trama appena
tracciata scorre sotto queste abbondanti collane di sonetti ”
11
. Anche il
Russo non è esente da equivoci, dei quali il più distintivo “era
l’indeterminatezza di quell’assunto sociale che è sempre alle origini di
qualsiasi forma di realismo, fino addirittura a determinare l’autenticità di
questo con la propria.”
12
Da queste caratteristiche Pasolini individua nel ‘O
Luciano d’ ‘o Rre del 1910 il capolavoro di Russo, anche se poi limita
questa riuscita definendola “canovaccio, fantasma estetico”
13
di un
capolavoro in assoluto, sebbene possa in qualche maniera accostarsi al
trasteverino del Belli ed abbia dato “pezzi da non dimenticarsi”
14
.
Raggiunge poi, il Russo, alte vette in un altro scritto antologizzabile come
‘E scugnizze – Gente ‘e mala vita che, attraverso una ricerca ossessiva,
raggiunge risultati di rigorosa complessità di stile e di potenza espressiva.
Nel passaggio all’analisi dell’altra grande regione del Reame, la Sicilia,
Pasolini individua un realismo di seconda mano, mutuato da quello
napoletano. Già il Verga aveva utilizzato il dialetto nei dialoghi in modo più
11
Ivi, pag. XXXVII.
12
Ivi, pag. XXXVIII.
13
Ivi, pag. XXXIX.
14
Id.
14
libero e sinfonico. Pertanto, sarà uno studioso del Verga che darà a questa
regione i risultati più interessanti per la poesia dialettale del primo
Novecento, Alessio Di Giovanni (1872 - 1946). È infatti nel 1900 che di lui
esce Lu fattu di Bbissana, dove utilizza “modi realistici assolutamente
fuori dalla chiarezza oggettiva e preordinata della cronaca […] e fuori
dalle contrazioni dialogiche melodrammatiche degli pseudo-realisti
digiacomiani. […] Se anch’egli si cala nel suo parlante lo fa spinto da una
passione linguistica tanto più violenta quanto più nelle abbondanti note al
suo poemetto assume aspetti professorali, filologici. […] Ritorna dentro il
vecchio agrigentino (il protagonista del poemetto, nda) con l’ingenua
violenza di chi vi cerchi un’ingenuità verbale quasi sacra. Così egli del suo
vecchio parlante non serba la vivacità, ma la libertà di espressione: dei
suoi modi idiomatici non serba la spigliatezza, ma una potente goffaggine,
una massiccia rapidità.”
15
A causa di motivi biografici, che passano
attraverso una crisi religiosa, Di Giovanni diviene “vecchio”, si attaglia ad
una vecchiaia in assoluto, esiodea e patriarcale, che lo avvolge e lo tiene
stretto a sé, provocando in lui un amore verso la propria regione che a volte
lo conduce verso eccessi ingiustificati.
Altro autore siciliano antologizzato è il giovane Vann’Antò (1891 - 1960).
Giovane che tralascia nella sua poesia tutti i crismi del primo Novecento
dialettale. La sua prima uscita, Voluntas tua, è del 1926 e vede quasi in
contemporanea le prime uscite di Pacòt in Piemonte (Arsivòli, “Voli di
sogni”, 1926), del ligure Firpo (O grillo cantadö, “ Il grillo canterino”,
1931), di Tessa (L’è el dì di Mort, alegher!, 1932) a Milano, e del triestino
Giotti (il Piccolo canzoniere in dialetto è del 1914; la seconda uscita
dialettale è Caprizzi, canzonette e stòrie, pubblicate nelle Edizioni di
Solaria nel 1928). È dunque un periodo fecondo e che vede nascere e
crescere in buona salute la poesia dialettale, ormai liberata dai canoni di
inizio Novecento e che sfocia in esperimenti e in traduzioni persino dal
15
Ivi, pp. XLII - XLIII.
15
campo simbolistico di Mallarmé, come capita a Vann’Antò stesso. Si trova
infatti nei suoi componimenti a endecasillabi e a forme chiuse, una
musicalità di stampo simbolista, che “ingrigisce il volume, lo patina di una
preziosa malinconia, in curioso contrasto con la vivacità popolare, sempre
presupposta nei suoi personaggi siciliani ”
16
.
Esiti importanti per quanto riguarda la poesia dialettale del centro-sud
dell’Italia trova la sua ragion d’essere soprattutto a Roma, una città in cui si
possono riscontrare esiti indipendenti di poesia, seppur nel solco della
tradizione. L’excursus su Roma si apre con un paio di pagine che sono al
tempo stesso un saggio sociologico e antropologico della natura -dai
lineamenti barocchi- dialettale romana, composta dai suoi atteggiamenti
servili, boriosi, quanto mai coloriti e sempre rinnovati di generazione in
generazione, come forse solo a Napoli è dato di vedere: un canto della
Roma “patriarcale” anche in senso religioso, e l’esaltazione
dell’imprescindibile Belli, calato totalmente nel quotidiano reale romano,
dentro i rioni dove compie il “regresso nel suo parlante pigro e collerico,
esibizionista e filosofo.”
17
È infatti seguendo l’asse Pascarella (1858–1940)-
Trilussa (1871 - 1950)-Jandolo (1873 - 1952), con tutti i loro limiti e le loro
influenze belliane in una poesia in qualche modo “piemontesizzata”, che
prendono le mosse i nuovi poeti romaneschi completamente avulsi dalla
tradizione del Belli, di cui Pasolini trova il massimo innovatore in Mario
Dell’arco (1905 - 1996).
18
Il linguaggio (si intenda la parola triviale o,
16
Ivi, pag. XLVI.
17
Poi Pasolini prosegue: “Quella del Belli è la documentazione degli ultimi giorni di un’epoca
immediatamente anteriore alla nostra, sopravvissuta, più a lungo che in altre parti d’Europa,
nell’incubatrice papale (e anche grazie a questa, nda); di una società la cui immagine non
riusciamo a formulare solo attraverso un astratto sforzo di fantasia, incapaci di trovarne il sapore
reale se non ci fosse appunto il soccorso di un Belli (o di uno Stendhal); una società agli estremi
della fossilizzazione del rapporto tra corte papale e «plebe».”, in Ivi, pag. LXVI.
18
Dell’Arco in cui “è implicito non solo nella chiarezza del dettato dello Jandolo, in quella
perspicuità di opera cesellata che è di tutti i decadentisti, non solo nella più aerea favoletta
trilussiana; ma anche nel Belli. In un Belli rifatto su certi suoi particolari, e precisamente quei
ritagli della sua poesia in cui la battuta, l’intonazione sarcastica o anche oscena del parlante pare
spogliarsi del contenuto, svaporare da ogni sua diretta significazione ironica o amara, e divenire
16
addirittura, la bestemmia, nda) belliano, ammansito e barocchizzato, è
pronto per essere utilizzato anche da Dell’Arco. Linguaggio che diviene
puro divertissement anche se giocato su uno sfondo cattolico, in cui Belli
utilizza la violenza del sacrilegio, Dell’Arco il gioco dell’intelligenza.
Quello di Dell’Arco, allora, sarà una lettura del Belli squisita, critica e
rappresenta in definitiva l’ultimo passaggio verso la “sbellizzazione” del
romanesco e la nascita del romanesco piccolo-borghese, ma non di stampo
trilussiano, bensì tonale. Questo passaggio non è da intendersi come
risultato ibrido, poiché a Roma –come anche nelle altre capitali di certa
tradizione- sempre presente è la coesistenza di due dialetti: uno colto e uno
plebeo. Ed è al primo, più dolce, tenue e pulito, che si rifà Dell’Arco, ferma
restando la presenza di una patina maccheronica italo-romanesca, seppur
Pasolini ci assicura dell’intimità dialettale di Dell’Arco (anche per ragioni
biografiche, come quando scrive i suoi primi versi in romanesco per la
morte del figlioletto, nda). Riferendosi poi ad un saggio di D’Amico,
Pasolini inscrive Dell’Arco in quella categoria di “minori” – come anche i
friulani e Guerra – che per questo sono da ritenersi moderni. Con la sua
finezza da ceramista Dell’Arco ha incarnato “Una poetica per cui il dialetto
si fa nient’altro che un mezzo d’espressione in certo modo più raffinato
della lingua, attraverso cui esprimere contenuti puramente lirici.”
19
Il legante tra la tradizione milanese che passa dal Maggi e dal Porta e che
giunge in pieno Novecento, Pasolini lo riscontra in Delio Tessa (1886–
1939), con cui apre la sua disamina sulla poesia dialettale lombarda, dopo
essersi lasciato alle spalle il meridione e la centralissima Roma. Tessa si
trova in posizione privilegiata anche per un aspetto biografico ed è l’unico
che rimanga ben saldo nella tradizione ponendo però un piede nella
pura lingua, un ghirigoro stupendo di forza recondita, ma quasi isolato, abbacinato dalla sua
stessa violenza; che naturalmente non è più violenza di affetti: ne è la concrezione equivalente ma
purificata in stile”, in Ivi, pp. LXXIII – LXXIV.
19
Ivi, pag. LXXVI.